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LA GUERRA CIVILE ISLAMICA

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Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi

EDITORIALE
Claudio Mutti, La guerra civile islamica

DOSSARIO: LA GUERRA CIVILE ISLAMICA

LA GUERRA ALL’ISIS SENZA L’ONU
di Ali Reza Jalali
L’avanzata del cosiddetto “Stato Islamico dell’Iraq e della Siria” ha posto seri problemi al sistema attuale delle relazioni internazionali e del diritto internazionale, non solo per le drammatiche atrocità e le palesi violazioni del diritto umanitario da parte dei miliziani radicali, ma anche per via dell’incapacità della “comunità internazionale” di trovare un accordo su come affrontare tale inquietante problema. Ciò si è concretizzato nell’assenza di una risoluzione del CSNU contro l’ISIS, che potesse autorizzare, in ossequio alla legalità internazionale, un conflitto contro il gruppo guidato da Abu Bakr Al-Baghdadi, ponendo gli studiosi dinnanzi a problemi risolvibili solo attraverso elaborazioni dottrinali forzate, volte a giustificare legalmente una guerra senza mandato ONU.

LE FASI DI UNA FITNA ORGANIZZATA
di Pierre Dortiguier
Il termine coranico fitna (“discordia, sedizione, guerra intestina”) indica il crimine più grave, perché equivale ad un suicidio della comunità. La fitna attuale è il prodotto di una sorta di bolscevismo musulmano, negatore di ogni base culturale, che si arroga il diritto di parlare in nome di Dio. L’autore – che per confutare la rovinosa utopia wahhabita si richiama alla Sura V – ritiene che tale deviazione sia il risultato di un’opera di sovversione psicologica, finalizzata a garantire sopravvivenza all’entità sionista, tra le macerie di un Vicino Oriente impegnato in una lotta fratricida.

L’ETICHETTA CONFESSIONALE DELLA GUERRA YEMENITA
di Domenico Caldaralo
L’attuale conflitto in Yemen è stato dipinto come scontro tra sunniti e sciiti: sunniti capeggiati dall’Arabia Saudita da un lato e sciiti ispirati dall’Iran dall’altro. In realtà nel paese si fronteggiano due schieramenti politici. L’uno favorevole a un governo su base tribale e strutturato in maniera confederale tra un nord sciita e un sud-est sunnita, l’altro favorevole a una soluzione presidenzialista e unionista. I grandi attori coinvolti non hanno il medesimo interesse nella partita yemenita. L’Arabia Saudita non vuole avere una potenziale spina nel fianco ai suoi confini, mentre l’Iran, il cui appoggio ai ribelli houti non è provato in alcun modo, auspica una soluzione politica della crisi.

DOPO LA DISTRUZIONE DELLA GIAMAHIRIA
di Gaetano Potenza
Il quadro politico istituzionale della Libia odierna, a quattro anni dall’inizio delle rivolte, è caratterizzato da una frammentazione dell’uso della forza che ha creato una divisione istituzionale con due parlamenti e rispettivi governi a Tobruk e Tripoli. Ad essi vanno aggiunte le forze della galassia gihadista e dello “Stato Islamico” che controllano parti strategiche del paese. Se da un lato la causa della frammentazione è da attribuire alla mancanza di una forza egemone che sapesse sintetizzare la base sociale del paese, come era avvenuto fin dalla nascita della Libia, dall’altra la comunità internazionale ha ripetuto l’errore commesso in Iraq non facendo seguito ad una fase che potesse garantire la transizione delle neonate istituzioni libiche.

LA “PRIMAVERA ARABA”, CINQUE ANNI DOPO
di Enrico Galoppini
Il caos e la sovversione, in soli cinque anni di “rivolte”, hanno reso il mondo arabo-islamico molto più insicuro per tutti. Il bilancio della “primavera araba” è a dir poco tragico. Da un lato, le istanze che spingono verso una “società aperta”, dall’altra un apparente “tradizionalismo”. In mezzo alla guerra fratricida etnica e religiosa, ci guadagna chi ha reso il Dâr al-Islâm il campo di battaglie per interposta persona. Il crollo delle “repubbliche” e il ruolo delle monarchie che vantano una legittimità religiosa. Il grande interrogativo è su come andrà a finire.

ANATOMIA DEL CAOS
di Amedeo Maddaluno
Quello cui assistiamo non è uno scontro religioso tra sciiti e sunniti. È uno scontro geopolitico che coinvolge le tre potenze storiche della regione (quella turca, quella persiana e quella saudita) e le tre grandi potenze globali (USA, Russia, Cina). Ciò spiega l’ambiguità degli USA nel loro atteggiamento verso il sedicente “Stato Islamico”, Al Nusra, il settarismo wahhabita e salafita nonché l’appoggio turco a quest’ultimo. Senza l’intervento russo non ci sarebbe speranza per Damasco. Un’Europa sempre più suddita e priva di strategia, invece di ringraziare la Russia che tenta di evitare il dilagare del cosiddetto “Stato Islamico”, si accoda agli USA contro il proprio interesse principale: stabilizzare il Vicino Oriente.

LA VITTORIA ISLAMISTA IN MAROCCO
di Alessandro Balduzzi
La prospettiva di un moloch fondamentalista incoronato dalle urne appare un’esagerazione figlia dell’attuale clima di terrore islamofobo.

MIGRAZIONI

LO SCIPPO DELLA SOVRANITA’ E LE MIGRAZIONI SUBITE
di Enrico Galoppini
I nodi dell’assenza di sovranità di questa “Unione Europea” stanno venendo impietosamente al pettine. Il banco di prova è quello delle cosiddette “migrazioni globali”, subite passivamente perché con la medesima passività viene subita la riduzione dell’Europa a prolungamento strategico dell’America. Settant’anni di occupazione militare, politica, economica e culturale hanno prodotto degli europei che non sapendo più chi sono si avviano – se non interverrà un miracolo – alla loro pura e semplice dissoluzione.

MIGRANTI IN TURCHIA
di Aldo Braccio
L’articolo riscontra i casi di migrazione interna – in particolare verso Istanbul – e il fenomeno dell’emigrazione all’estero, in primo luogo verso la Germania: il caso dei gecekondular e il concetto di gurbet possono rappresentare rispettivamente il degrado metropolitano connesso al primo caso e l’atteggiamento di nostalgia (di desiderio di ritorno alla patria) legato al secondo. Viene poi trattato l’aspetto particolarmente importante e attuale della migrazione di transito in Turchia, che si accompagna alla massiccia presenza di profughi siriani stanziati nel territorio turco, e viene dato conto della normativa nazionale – anche in relazione alla Convenzione di Ginevra – in tema di immigrazione.

L’IMMIGRAZIONE AFGANA IN IRAN
di Ali Reza Jalali
I fenomeni migratori di massa sono stati spesso nella storia il frutto di problemi economici, guerre e cambiamenti climatici che in alcuni casi hanno costretto milioni di persone ad emigrare dai loro territori creando situazioni complicate, soprattutto nelle fasi iniziali dei nuovi insediamenti. L’epoca contemporanea non è esente da questi fatti; anzi, la globalizzazione e la relativa facilità degli spostamenti da un luogo all’altro hanno contribuito a velocizzare i processi migratori. Un caso interessante di migrazione dovuta a motivi legati alle condizioni economiche ed alla guerra è quello che ha visto protagonisti gli afgani emigrati in Iran dalla fine degli anni ’70 del XX secolo ad oggi, fenomeno poco conosciuto nella dottrina italiana, ma sempre al centro dei precari equilibri geopolitici del Vicino Oriente e dell’Asia centrale.

CONTINENTE RUSSIA

L’ARTICO E LA “PRIMAVERA RUSSA”
di Davide Ragnolini
L’attuale fase della “seconda guerra fredda” ha visto un’accresciuta assertività della politica artica russa ed un’ufficiale adesione ad un orientamento antirusso da parte del blocco scandinavo. Sullo sfondo del recente confronto diplomatico e strategico tra Mosca e la NATO nella regione artica si stagliano la rilevanza delle risorse energetiche artiche, l’importanza delle implicazioni strategiche ed economiche dell’impiego del passaggio a nord-est per Russia e Cina, il coinvolgimento in un piano di crescente militarizzazione della regione di attori esterni all’Alleanza Atlantica come Svezia e Finlandia, ed il tentativo di isolare la Russia all’interno dell’Arctic Council.

TBILISI SETTE ANNI DOPO
di Ivelina Dimitrova
Nel 1991, in seguito alla disgregazione dell’Unione Sovietica, la Georgia proclamò con un referendum, boicottato dalle minoranze ossete e abkhaze, la propria indipendenza. Nell’articolo vengono ripercorse le vicende geopolitiche di Tbilisi dai primi anni Novanta fino ai giorni nostri, eventi significativamente condizionati dalle due guerre ossete, le cui ferite non si sono ancora del tutto rimarginate. Vengono analizzati l’ascesa e il declino politico di Michail Saakashvili, leader di quella “rivoluzione delle rose” che nel 2003 rovesciò il governo di Eduard Shevardnadze, per giungere all’affermazione, nel 2012, del partito fondato dal miliardario georgiano Bidzina Ivanishvili, che da allora domina la scena politica nella piccola repubblica caucasica. La nuova dirigenza georgiana, al contrario di quella di Saakashvili, sta attuando una politica pragmatica, moderata e prudente nella gestione dei rapporti con il potente vicino russo, pur continuando a dichiarare che le priorità per la Georgia rimangono sempre le stesse: ingresso nella NATO e nell’UE.

INTERVISTE

ITALIA E IRAN: UN RAPPORTO DA CONSOLIDARE
Emanuele Bossi intervista Alì Pourmarjan

CONTESTO INTERNAZIONALE DEL CASO MORO
Anna Maria Turi intervista il Generale Cornacchia

RECENSIONI

Fabio Falchi: Una nuova storia alternativa della filosofia di Costanzo Preve
Giacomo Gabellini: Capire la Russia di Paolo Borgognone
Davide Ragnolini: L’aquila della steppa di Aldo Fais
Enrico Galoppini: Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica di Alain De Benoist e Aleksandr Dugin
Enrico Galoppini: Istanbul di Franco Cardini
Enrico Galoppini: Rivoluzioni spa. Chi c’è dietro la primavera araba di Alfredo Macchi
Marco Toti: Dialogo sull’Islam tra un padre e un figlio di Dag Tessore e Alberto Tessore
Yannick Sauveur: Le Camp des Saints di Jean Raspail

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LA GIORDANIA TRA LO STATO ISLAMICO E LE TENSIONI INTERNE

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Per la Giordania, l’espansione dello Stato Islamico, ormai giunto a pochi chilometri dal suo confine con l’Iraq, rappresenta la più grande minaccia per la stabilità politica e sociale. Specialmente dopo la conquista di Mosul, molti cittadini giordani hanno mostrato un particolare interesse agli scontri che avvengono sui territori di Siria e Iraq, e hanno cominciato ad interrogarsi in ordine ai possibili eventuali sviluppi. L’enorme preoccupazione del governo di Amman non si fonda solamente sulla relativa vicinanza alle principali zone di conflitto, ma è generata soprattutto da fattori interni.

Nel quadro della situazione critica che da anni caratterizza le regioni del mondo arabo, la monarchia hashemita, benché durante l’ondata di sommosse della Primavera Araba sia riuscita a mantenere intatte le proprie istituzioni, non è rimasta immune da costanti tensioni sociali e da diverse spinte integraliste all’interno del paese. A preoccupare maggiormente il re ʿAbd-Allah II, specialmente dopo la caduta del presidente egiziano Muḥammad Mursī nel 2013, è la crescente diffusione della retorica jihadista di alcuni esponenti dei movimenti salafiti e dei Fratelli Musulmani del Fronte di Azione Islamica, il principale partito di opposizione giordano, la quale potrebbe alimentare delle simpatie per l’ISIS, in particolare nelle aree abitate dalle classi sociali più basse. Secondo un
sondaggio del Center for Strategic Studies dell’Università di Giordania, il 10% dei 6,5 milioni di residenti nel paese hanno espresso pareri positivi nei confronti dello Stato Islamico.

La maggior parte di questi simpatizzanti sono concentrati nell’area di Maʿān, capitale dell’omonimo governatorato, situata circa 200 chilometri a sud di Amman, e storica roccaforte dei movimenti di opposizione alla monarchia hashemita. In questa città, caratterizzata da indici di povertà e disoccupazione molto superiori rispetto alla media nazionale, sono scoppiate diverse proteste durante il 2014 e in diverse occasioni i manifestanti hanno sventolato la famigerata bandiera nera e hanno espresso il loro sostegno allo Stato Islamico. Nei giorni seguenti a una manifestazione di ottobre 2014, alcuni militanti dell’ISIS hanno pubblicato messaggi di solidarietà alla popolazione di Maʿān, riferendosi alla città con l’appellativo di “Falluja della Giordania”, chiaramente in relazione con la città irachena nella quale è emersa l’organizzazione jihadista. Tuttavia, sia le autorità
giordane che i leader salafiti hanno negato l’esistenza di un collegamento tra le proteste e il movimento di Al-Baġdādī. Nonostante l’aumento della popolarità della retorica jihadista in alcuni settori della popolazione, il re ʿAbd-Allah II continua ad essere una figura molto amata nel paese e i presupposti di un rovesciamento del regime sono minimi rispetto a quanto accaduto nelle vicine Siria e Iraq.

Se le tensioni interne sono facilmente gestibili, le questioni provenienti dall’esterno sono molteplici e rendono ulteriormente instabili i fragili confini del regno hashemita. Da una parte, il governo giordano deve fare fronte al dramma dei rifugiati. La guerra in Siria ha provocato la fuga di migliaia di uomini, donne e bambini che si sono stanziati nella regione settentrionale del paese, causando un allarmante aumento della miseria. La minaccia più preoccupante è però costituita dagli oltre 2000 foreign fighters giordani che attualmente combattono in Siria sotto il vessillo dell’ISIS o di altre organizzazioni fondamentaliste e che, una volta tornati nel paese, potrebbero diffondere sentimenti anti-monarchici o reclutare nuovi combattenti. In risposta a questo fenomeno, il governo giordano, oltre ad aver proposto una nuova legge che amplia il concetto di “terrorismo” fino a criminalizzare i
sostenitori online delle organizzazioni armate jihadiste , ha realizzato una nuova campagna di sicurezza dei propri confini e ha disposto un ingente numero di truppe di terra lungo le frontiere, al fine di evitare che persone non identificate entrino nel paese.

L’allarmante difficoltà nella gestione dei confini nazionali ha spinto il governo di Amman a svolgere un ruolo di prima linea nella coalizione militare internazionale, specialmente a partire da settembre 2014. Fino a quel momento, la Giordania ha dato un sostegno indiretto al suo alleato americano nella guerra in Siria, fornendo appoggio per basi militari statunitensi, allestendo campi di addestramento per i ribelli siriani e convogliando armi provenienti dai paesi del Golfo . Il supporto giordano agli Stati Uniti non ha mai trovato ampio consenso in alcune frange dell’establishment del regno e ha alimentato il sentimento anti-occidentale delle autorità delle tribù locali, le quali, rappresentando una grossa parte della classe dirigente, esercitano una notevole
influenza nella politica interna.

La pubblicazione da parte dell’ISIS del video sull’uccisione di Muʿāḏ Al-Kasāsba, il pilota dell’aviazione giordana catturato e arso vivo dai militanti jihadisti, ha scosso notevolmente l’opinione pubblica giordana, e in maniera particolare quella parte di popolazione che vedeva con diffidenza il coinvolgimento del regno hashemita nella Grande Coalizione. La vicenda di AlKasāsba ha colpito il sentimento di orgoglio nazionale dei cittadini giordani, tanto da indurre coloro che erano contrari all’impegno in Siria ad appoggiare l’intensificazione degli attacchi contro lo Stato Islamico.

La reazione di Amman è stata dura e immediata. Nei giorni immediatamente successivi al rilascio del video dell’esecuzione del pilota giordano, ʿAbd-Allah II ha lanciato un appello all’unità nazionale e, non senza aver avuto pressioni da parte delle tribù vicine alla famiglia di Al-Kasāsba, ha organizzato la rappresaglia. In tre giorni l’aviazione giordana ha colpito circa 56 postazioni dell’ISIS in Siria, dichiarando, successivamente, di aver distrutto il 20% delle capacità militari dell’organizzazione . Il governo di Amman è, dunque, deciso a condurre la sua offensiva finché il nemico non sarà annientato e non esclude la possibilità dislocare truppe di terra nelle zone di conflitto. La chiusura di un nuovo accordo di cooperazione militare con gli Stati Uniti, secondo il quale la Giordania riceverà un miliardo di dollari all’anno per i prossimi tre anni, dimostra le intenzioni della monarchia hashemita di partecipare più attivamente e con un maggiore dispiegamento di forze alla lotta al terrorismo.

Tuttavia, la stabilità della Giordania si regge su equilibri molto fragili. Per tale motivo, il re ʿAbdAllah II dovrà necessantemente impegnarsi nel gestire e mantenere unite le diverse fazioni di una popolazione sempre più preoccupata dalle crisi che colpiscono i paesi vicini.

Fonti
1. Haddad Saleem, “Jordan combats the Islamic State by addressing domestic grievances”, in BarnesDacey
Julien, Geranmayeh Ellie, Levy Daniel, The Islamic State through the regional lens, European
Council on Foreign Relations (ECFR), Londra, 2015, pp.54
2. Ma’aye Suha, “How Jordan Got Pulled Into the Fight Against ISIS”, Time, 26 febbraio 2015,
http://time.com/3721793/jordan-fight-against-isis/
3. Natta Alberto, “La rappresaglia della Giordania contro lo Stato Islamico”, Limes online, 16 febbraio
2016, http://www.limesonline.com/la-rappresaglia-della-giordania-contro-lo-stato-islamico/73924

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L’EUROPA MUSULMANA

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Sabato 10 ottobre 2015 a Brescia, nella sala circoscrizionale di Via Pasquali 5, si è svolta una conferenza dal titolo “Identità europea e questione islamica”, organizzata dal Centro Studi Internazionale “Dimore della Sapienza” in collaborazione con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. L’evento è stato introdotto dal Presidente del C. S.I. “Dimore della Sapienza”, dott. Ali Reza Jalali, e ha visto come relatori il Direttore della rivista “Eurasia” – prof. Claudio Mutti – e il Direttore del Dipartimento di Studi storici del C.S. I. “Dimore della Sapienza” – dott. Paolo Rada; il dibattito poi è proseguito grazie alla partecipazione del prof. Enrico Galoppini, già docente di Storia dei Paesi islamici all’Università di Torino. Riportiamo la relazione del direttore di “Eurasia”.

 

La penisola iberica

Generalmente siamo abituati a pensare all’Islam oggi presente in Europa come alla religione caratteristica delle nazionalità degli immigrati provenienti dal mondo arabo e da altre regioni dell’Asia e dell’Africa.
Se dobbiamo pensare a un Islam europeo “storico”, rappresentato cioè da popolazioni autoctone dell’Europa, pensiamo alle comunità slave ed albanesi dei Balcani; ma queste realtà rappresentano solo la seconda fase di un Islam che inizialmente si inserì nel panorama europeo nel secondo decennio del VIII secolo, in seguito all’espansione dell’Islam seguita alla morte del Profeta.
Da oltre due secoli l’Impero Romano era ridotto alla sua parte orientale: Anatolia e penisola balcanica. L’Italia (tranne la Sicilia e la Sardegna, governate da Bisanzio) si trovava sotto il dominio longobardo, mentre la Gallia e la Germania erano unite nel Regno dei Franchi.
Accanto all’Europa cristiana prese dunque forma, milletrecento anni fa, un’Europa musulmana, territorialmente più ridotta, sul territorio della penisola iberica.
Lì, su un preesistente fondo germanico (visigotico) e romanzo (ibero-latino), ebbe luogo quello che l’arabista Francesco Gabrieli ha definito come l’ “unico trapianto in grande stile della civiltà arabo-musulmana su suolo europeo”(1).
In realtà si trattò di un trapianto più culturale che etnico, perché, per citare uno studioso spagnolo, “i musulmani di Spagna, se discendenti da convertiti alla religione dei conquistatori, erano Spagnoli puri; altrimenti, per via dei frequenti incroci, prevaleva nelle loro vene l’antico sangue ispanico”(2).
Vi furono infatti, nella Spagna musulmana, molti matrimoni misti, poiché i musulmani preferivano che i loro figli nascessero da donne autoctone, possibilmente originarie della Galizia, terra di antichi stanziamenti celtici.
Così, osserva uno storico della Spagna musulmana, “sebbene i loro nati portassero soltanto il nome dei loro ascendenti maschi, la purezza del sangue arabo andò diluendosi nelle successive generazioni per incroci col sangue spagnuolo e, quanti più nomi d’antenati arabi designavano un uomo, tanto meno sangue africano aveva nelle vene. È quindi errore – egli conclude – l’assumere che ogni musulmano spagnuolo fosse arabo e che tutti i cristiani fossero romani o goti e tutti cercassero rifugio al nord al tempo dell’invasione; errore il credere che la ‘riconquista’ fosse una guerra di otto secoli tra ‘Latino-Goti’ del nord ed ‘Arabo-Andalusi’ del mezzogiorno” (3).
La componente visigotica della popolazione musulmana iberica, infatti, è chiaramente attestata da patronimici quali Ibn al-Qûtî e Ibn al-Qûtiyya, che significano rispettivamente “Figlio del Goto” e “Figlio della Gotica”. Il patronimico Ibn al-Qûtiyyah contraddistinse alcune delle famiglie più eminenti dell’aristocrazia ispano-musulmana; fra i tanti, si chiamò Ibn al-Qûtiyyah uno storico di Cordova discendente dal penultimo re visigoto.
A una famiglia di origine visigotiche apparteneva anche un altro illustre esponente dell’intellettualità musulmana della Spagna del IX secolo, il filosofo Ibn Masarra. I suoi biografi riferiscono che “già l’aspetto fisico di suo padre ‘Abdallah (…) lo aveva fatto passare, durante un suo viaggio in Oriente, (…) per un normanno di Sicilia”(4).
Per quanto riguarda la lingua della Spagna musulmana, l’arabo era la lingua del governo, dell’amministrazione e dei letterati, ma era generale l’uso di idiomi derivati dal latino e destinati a diventare il castigliano, il catalano e il portoghese odierni. Al-Khushânî mostra chiaramente che a Cordova l’idioma neolatino veniva adoperato da tutti i ceti della popolazione, anche nei tribunali e nel palazzo reale.
Insomma, le spedizioni guidate nel 710-711 da Târiq e da Mûsa ibn Nusair contro il regno dei Visigoti avevano dato luogo ad un’occupazione stabile del territorio da parte dei conquistatori provenienti dall’Ifriqiyya, in grande maggioranza berberi.
Nel 756 al-Andalus (questo il nome arabo della penisola iberica, derivato dal nome di un’altra popolazione germanica, i Vandali) si sottrasse alla sovranità del califfo di Damasco e diventò indipendente.
Sotto la dinastia omayyade locale (755-1031) la Spagna visse un periodo di grande splendore: il sovrano più illustre fu l’emiro ‘Abd ar-Rahmân III (912-961), che consolidò il proprio potere e nel 929 assunse il titolo di califfo; ma dopo al-Mansûr (977-1002) scoppiò una serie di contese dinastiche e l’Andalusia si frazionò in una moltitudine di regni autonomi (i reinos de taifas, 1031-1086).
Contro Alfonso VII di Castiglia, che guidò l’offensiva cristiana, vennero in Spagna gli Almoravidi berberi (1086-1147), ai quali succedettero gli Almohadi (1150-1250).
L’emirato di Granada (1246-1492), ultimo baluardo dell’Islam nell’Europa occidentale, cadde con la conquista della città da parte di Ferdinando e Isabella di Castiglia.
Questo è l’episodio storico che gli Spagnoli celebrano come il compimento della Reconquista; altri lo hanno considerato in una diversa prospettiva.
Ricordiamo, ad esempio, quello che scrive Nietzsche: “Il magnifico universo della cultura moresca di Spagna (Die wunderbare maurische Cultur-Welt Spaniens), a noi in fondo più affine, più eloquente ai nostri sensi e al nostro gusto che Roma e la Grecia, venne calpestato – non dico da quale sorta di piedi – perché? Perché doveva la propria origine a istinti aristocratici, a istinti virili, perché diceva sì alla vita (zum Leben Ja sagte) anche con le rare e raffinate preziosità della vita moresca!”(5)
Tralasciando l’appassionata rievocazione nietzschiana, per un bilancio della presenza dell’Islam in Spagna possono valere queste parole di Sigrid Hunke: “L’esempio della Spagna mostra che duecento anni di sovranità musulmana furono sufficienti perché un paese impoverito, desolato e asservito (ein verarmtes, verwahrlostes, geknechtetes Land) venisse a trovarsi alla testa dell’Europa e del mondo occidentale, e ciò grazie ad una cultura diffusa in tutti i ceti della popolazione e grazie al fiorire delle scienze e delle arti. Questo primato, la Spagna lo conservò per cinque secoli, finché l’Islam non venne estromesso”(6).

 

L’Italia

Prima dello sbarco di Târiq e di Mûsa ibn Nusair nella penisola iberica, era stata però l’Italia ad attrarre l’attenzione dei Saraceni (erano soprattutto Berberi); e ciò verso la metà del VII secolo, quando la penisola era politicamente divisa tra i Longobardi, i Bizantini ed il Papato.
La prima incursione ebbe luogo in Sicilia nel 652, all’epoca del Califfo ‘Othman.
La Sardegna e la Corsica furono attaccate nel primo decennio dell’VIII secolo, ma sembra che i Saraceni se ne siano impadroniti solo nel secolo successivo. Sulla Corsica avrebbero regnato sei sovrani mori, finché il patrizio romano Ugo Colonna la conquistò verso l’anno 800 per conto del Papa; invece la Sardegna fu abbandonata definitivamente solo nel 1050.
Nel plurisecolare dominio bizantino della Puglia si aprì, nell’anno 847, una parentesi storica che si concluse circa 23 anni dopo, quando Franchi e Longobardi entrarono a Bari.
Franchi e Bizantini erano stati tenuti in scacco dall’esercito dell’emirato islamico sorto sui territori corrispondenti alle odierne province di Bari, Matera e Taranto.
Non fu, quello di Bari, l’unico caso di entità politica musulmana sorta sulla penisola italiana, poiché vi furono anche i principati musulmani di Amantea e del Garigliano, ma fu senza dubbio il più rilevante.
Bari conobbe un periodo di notevole prosperità, al punto che nella città, fervida di intense attività economiche, affluivano Longobardi che abbandonavano le terre dell’Italia meridionale. I Musulmani di Bari, scrive uno storico, “insegnarono agli abitanti delle ventiquattro castella pugliesi cos’è la tolleranza religiosa in tempo di pace, come si fa fruttare la terra, come si scambiano prodotti vantaggiosamente” (7).

Più lunga e più gloriosa fu la presenza dell’Islam in Sicilia. La conquista dell’isola (cui parteciparono Arabi, Berberi e Andalusi) ebbe inizio nell’827 per iniziativa della dinastia aghlabide, che si era insediata nell’Ifriqiyya ed aveva acquisito il controllo del Mediterraneo centro-orientale.
Con la presa di Taormina, avvenuta nel 902, fu completata la conquista della Sicilia, che nel 910 passò nell’orbita dei Fatimidi, la dinastia sciita insediata nel Nordafrica. Su mandato fatimide, i Kalbidi assunsero il governo dell’isola, che sotto di loro conobbe un periodo di grande prosperità.
“Non può rincrescerci il conquisto musulmano che la scosse e rinnovò”: questo bilancio positivo di Michele Amari, il primo grande storico della Sicilia musulmana, è stato convalidato dagli studiosi successivi.
Francesco Gabrieli giudica il governo islamico della Sicilia “positivo e benefico per il rinsanguamento che operò sulla depressa compagine etnica della Sicilia bizantina, e soprattutto per i mutamenti introdotti nelle condizioni economiche e sociali dell’isola, dove spezzò il latifondo, promosse la piccola proprietà rurale, rinnovò e arricchì di nuove tecniche e culture l’agricoltura siciliana”(8).
“L’agricoltura e il commercio – conferma un altro studioso – ridiventarono fiorenti: le conversioni si moltiplicarono, non per costrizione, ma per il desiderio spontaneo suscitato dagli uomini pii e per l’ammirazione destata dal superiore livello di civiltà degli occupanti. La prosperità e le raffinatezze dell’Oriente, la vita culturale di Baghdad, di Cordova e del Cairo si riflettevano anche a Palermo”(9).
Tra autoctoni, Berberi e Persiani (numerosi questi ultimi nell’esercito e nella burocrazia) la popolazione musulmana della Sicilia superava i 300.000 abitanti. Con le sue trecento moschee, nella più grande delle quali venivano custoditi i presunti resti mortali di Aristotele, Palermo, che i viaggiatori descrivevano come una delle più belle e prospere città del Mediterraneo, poteva benissimo reggere il confronto con Cordova, se non col Cairo o con Damasco.

Con la caduta dei Kalbidi e l’ingresso dei Normanni in Sicilia, alla fine del secolo XI l’egemonia musulmana sull’isola era terminata.
Ma ancora al tempo di Ruggero II Palermo, la città per antonomasia, Al-madina, era “città illustre e magnifica, località tanto prestigiosa quanto immensa, che domina, quale grandioso ed eccelso pulpito, le città del mondo intero”. Così appariva Palermo al geografo arabo Idrîsî, che lasciò ammirate descrizioni anche delle altre città siciliane e definì la Sicilia “la gemma del secolo per pregi e bellezze”(10). Nel regno normanno i musulmani non assommavano a più di 100.000 individui, ai quali fu concessa la possibilità di autogovernarsi; ma l’esodo verso l’Africa ridusse ulteriormente il loro numero.
Tuttavia l’impronta culturale che l’Islam aveva impressa alla Sicilia caratterizzò anche l’epoca normanna. “I Ruggeri e i Guglielmi – scrive Gabrieli – (…) seppero raccogliere ogni positivo elemento dell’eredità musulmana, e incorporarla alla composita cultura del loro Stato: onde proprio quell’età normanna ci ha serbato i più vivi ricordi della presenza degli Arabi in Sicilia, in istituzioni, titoli, documenti, iscrizioni, monete, opere di scienza come la Geografia di Edrîsî, e versi di poeti di corte”(11).
A proposito di Guglielmo II, che regnò tra il 1166 e il 1189, Denis Mack Smith scrive: “Egli visse come un sovrano orientale. I visitatori notavano che egli proteggeva i poeti arabi (…) e che aveva una guardia del corpo di schiavi negri. (…) a Palermo c’erano ancora le moschee (…) molti musulmani vivevano nella città con propri giudici e proprie scuole”(12).
Parafrasando la frase con cui Orazio dichiarava il debito della cultura latina nei confronti di quella greca, si potrebbe dunque dire: Sicilia capta ferum victorem cepit. La Sicilia, conquistata dai Normanni, conquistò a sua volta i conquistatori, trasmettendo loro gli elementi islamici del suo patrimonio culturale.

Ma in Sicilia l’impronta islamica non scomparve nemmeno nel successivo periodo svevo; anzi, sotto Federico II di Svevia essa acquisì un ulteriore risalto.
Con Federico II il baricentro del Sacro Romano Impero si spostò dalla Germania al Mediterraneo. Nel 1229, in seguito all’intesa col Sultano, l’Imperatore estese la sua autorità a Gerusalemme e ad altri luoghi della Palestina, cosicché l’Impero federiciano recuperò, sia pure in misura limitata e simbolica, quel contatto con l’Oriente che aveva caratterizzato le precedenti realtà imperiali, a partire da Alessandro Magno.
Al quale, d’altronde, Federico II venne paragonato dai musulmani del suo tempo; e si tenga presente l’importanza che ebbe per l’Islam Alessandro Magno, identificato per lo più col “Bicorne” (Dhû’l-qarnayn) di cui parla la Sura della Caverna.
In quanto sovrano dei regni di Sicilia e di Gerusalemme, in un’epoca in cui l’Impero bizantino era crollato sotto i colpi della IV Crociata e i poli geopolitici del Mediterraneo erano il Califfato di Bagdad e il Sultanato d’Egitto, il grande Svevo rappresentò l’idea imperiale in un’area in cui l’Islam era una realtà dominante, dal punto di vista sia politico sia culturale.
Mentre la cancelleria imperiale utilizzava l’arabo oltre al latino ed al greco, nell’Impero federiciano i musulmani vivevano in maniera conforme alla tradizione islamica, in comunità cittadine governate da organismi autonomi.
Ma è soprattutto l’idea imperiale di Federico II a rivelare l’influenza esercitata dalla dottrina islamica.
“L’assolutismo di Federico II – ha scritto Raffaello Morghen – era un assolutismo teocratico. (…) A questo proposito è significativa l’invidia che egli portava ai sovrani orientali che dominavano senza contrasto nei loro Stati, senza l’incomodo controllo del potere sacerdotale. E difatti lo Stato maomettano era essenzialmente uno Stato assoluto teocratico senza sacerdozio quale, senza dubbio, vagheggiava anche Federico II, non del tutto a torto detto dai suoi nemici ‘sultano battezzato’ “(13).
Indubbiamente vanno respinti alcuni concetti e certa terminologia; tuttavia, nella sostanza, le osservazioni del Morghen mettono in luce una relazione ideale che non è stata messa così esplicitamente in risalto nemmeno da Ernst Kantorowicz, che pure evocò, in rapporto all’incoronazione di Federico a Gerusalemme, “l’aura fatale dei califfi”(14).
Il Kantorowicz si sofferma invece sull’interesse suscitato in Federico dal principio ereditario che veniva osservato nella successione califfale e riferisce a sua volta quello che lo storico arabo Ibn Wasil aveva narrato nei termini seguenti.
“Mi è stato raccontato che l’Imperatore, stando in Acri, disse all’emiro Fakhr ed-Dîn ibn ash-Shaykh di felice memoria: ‘Spiegami cos’è questo vostro califfo’. Fakhr ed-Dîn disse: “È il discendente dello zio del nostro Profeta (che Dio lo benedica e lo salvi), il quale ha avuto la dignità califfale da suo padre e suo padre dal proprio padre e per questo il califfato rimane nella casa del Profeta e non esce dai suoi membri’. ‘Com’è bello questo!’ rispose l’Imperatore; ‘Ma questi uomini di poco senno – e intendeva i Franchi – prendono un uomo dalla fogna, senza alcun vincolo di parentela e rapporto con il Messia, ignorante e incapace di spiccicar parola, e lo fanno loro califfo, vicario tra loro del Messia, quando non meriterebbe assolutamente tale dignità. Mentre il vostro califfo, pronipote del vostro Profeta, è davvero il più degno fra tutti nella dignità da lui rivestita!”(15).
“Come sarebbe bello – avrebbe detto Federico – governare uno Stato islamico, senza papi e senza frati!”
Questa frase, come l’esclamazione “O felix Asia!”, che sulle sue labbra aveva il medesimo significato, illustra bene quella che il Morghen ha chiamata l’ “invidia” di Federico per i sovrani del mondo musulmano, così come conferma quella sua “inclinazione all’islamismo” che secondo Michele Amari gli procurò l’ammirazione dei musulmani, allorché egli, andando a Gerusalemme, “menò seco (…) il suo maestro di dialettica, e paggi e guardie, tutti Musulmani di Sicilia, i quali si prosternavano alla preghiera sentendo far l’appello del muezzin da’ minareti della moschea di ‘Umar; ed anco l’Imperatore avea a grado quella cantilena, né s’adirava che si recitassero i versetti del Corano dove i Cristiani son chiamati politeisti”(16).
Non solo per le scienze, ma anche per le questioni filosofiche Federico II interpellò i dotti dell’Islam, inviando i suoi quesiti in Anatolia, in Egitto, in Siria, in Iraq, nello Yemen. A noi sono giunte le risposte fornite da ‘Abd al-Haqq ibn Sab’in, un filosofo nativo di Murcia (d’origine visigota anche lui), in un testo intitolato Kalâm ‘alà ‘l-masâ’il as-siqilliyya(17).

 

I Balcani

Nel 1492 Granada cadde nelle mani dei Re cattolicissimi. Ma il medesimo secolo che vedeva tramontare la stella dell’Islam all’estremità occidentale dell’Europa, assisteva al sorgere della Mezzaluna sull’Est europeo.
Qui, nell’Europa balcanica, l’Impero ottomano ereditò i territori che erano stati precedentemente soggetti a Roma ed a Costantinopoli.
Il limes danubiano, che aveva separato i territori dell’Impero romano dallo spazio abitato dai barbari, costituì per tutto il XV secolo la linea di demarcazione tra il dâr al-islâm e il dâr al-kufr. Poi, come Traiano si era spinto a nord del Danubio ed aveva aggiunto la Dacia all’Impero di Roma, così Solimano I il Magnifico conquistò la regione danubiana tra Belgrado e Buda, rinsaldando l’influenza della Sublime Porta su Valacchia, Moldavia e Transilvania.
Come ai tempi di Roma, così anche allora rientravano in un unico spazio imperiale, oltre alla regione balcanico-danubiana, il Mar Nero e le sue sponde, l’Armenia e la Mesopotamia, l’Anatolia, la Siria e la Palestina, l’Egitto e tutto il Nordafrica fino ai confini del Marocco.
Questo nuovo impero, che si estendeva sui territori di tre continenti e aveva la sua capitale in Europa, raccolse nella propria classe dirigente una folta schiera di Europei, dell’Europa sia orientale sia occidentale.
Non si tratta soltanto dei numerosi italiani passati all’Islam nel corso del Cinquecento, come il celebre ‘Uluj ‘Ali (Occhialì nelle cronache italiane), il calabrese che a Lepanto tenne testa, unico fra gli ammiragli ottomani, alla flotta cristiana; o come la veneziana Cecilia Baffo, sposa prediletta del Sultano Selim II; o come Alvise Gritti, figlio di un doge veneziano, che diventò governatore d’Ungheria; o come la serie di beylerbeyi sardi, corsi, liguri e calabresi che governarono Algeri.
Si tratta anche di quei numerosi italiani, francesi, ungheresi, polacchi e croati che per tutto il Sette e l’Ottocento abbracciarono l’Islam e misero a disposizione della Sublime Porta le loro conoscenze scientifiche e militari o la loro abilità amministrativa.

In conseguenza dell’evento epocale della conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani e dell’insediamento della loro dinastia nella capitale dell’Impero Romano d’Oriente, la Cristianità europea si chiese se per caso non stesse avvenendo un trasferimento di dignità e di poteri che rendeva i sultani ottomani eredi dei Cesari.
Il papa, Pio II, proponeva a Mehmed Fatih di farsi riconoscere come “legittimo imperatore dei Greci e dell’Oriente mediante un pochino d’acqua (aquae pauxillum)”, ammettendo così implicitamente che il Sultano conquistatore era già, de facto, “imperatore dei Greci”.
Il filosofo e umanista Giorgio Trapezunzio (che svolse un ruolo importante nella diffusione della lingua greca in Italia e nella traduzione dei classici greci) andava oltre: in una delle due epistole indirizzate al Sultano nel 1466, scriveva che a Roma “nessuno dubitava ch’egli fosse di diritto imperatore dei Romani”. Infatti, argomentava il filosofo ripetendo un ragionamento consueto a quell’epoca, “imperatore è colui che a giusto titolo possiede la sede dell’Impero, e la sede dell’Impero romano è Costantinopoli. Chi dunque possiede di diritto Costantinopoli è Imperatore”. E proseguiva: “Ma non dagli uomini, bensì da Dio tu desumi, mediante la tua spada, il possesso del trono suddetto. Quindi tu sei legittimo Imperatore dei Romani! Chi dunque continua ad essere Imperatore dei Romani è anche Imperatore di tutto l’orbe terracqueo!” Nessuno, concludeva il Trapezunzio, avrebbe potuto meglio di Mehmed fondere in un solo Impero, con l’aiuto di Dio, tutte le genti (18).
Bisognerebbe poi menzionare il riconoscimento ufficiale della Repubblica di Venezia, secondo cui Mehmed II era Imperatore di Costantinopoli e quindi gli spettavano di diritto tutti i territori facenti parte dell’Impero Romano; dunque anche le vecchie colonie greche della Puglia: Brindisi, Taranto e Otranto.
Per quanto riguarda Firenze, Lorenzo il Magnifico fece coniare una medaglia sulla quale, accanto all’effigie del Conquistatore, si leggeva: “Mahumet, Asie ac Trapesunzis Magneque Gretie Imperat[or]”. L’espressione Magna Gretia designa qui non l’Italia meridionale, bensì quella che, a paragone di Trebisonda (Trapesus), cioè della “piccola Grecia”, era la “grande Grecia”, vale a dire Costantinopoli col suo vasto retroterra.
Ferrante d’Aragona fece coniare anche lui un paio di medaglie che attribuivano al Conquistatore i titoli di “Asie et Gretie imperator” e “Bizantii imperator”: imperatore bizantino, imperatore della Grecia e dell’Asia.
A questi riconoscimenti corrispose l’adesione all’Islam di diversi membri dell’ultima famiglia imperiale regnante: fatto, questo, che sanciva ulteriormente la legittimità del nuovo ordine.
“Pareva veramente – scrive lo storico tedesco Franz Babinger – che al tempo del Conquistatore fosse tornata la sicurezza bizantina del glorioso passato, la pax Romana, e che tutti potessero goderne”. Il Babinger fa anche notare come nell’organizzazione statale ottomana fossero presenti istituzioni tipiche dello Stato romano: ad esempio, riconduce i sangiaccati al modello romano delle provinciae, equipara il sancakbey al proconsole e così via (19).
In maniera analoga, Nicolae Iorga, autore della monumentale Geschichte des osmanischen Reiches, ha visto nell’Impero ottomano la “Roma musulmana dei Turchi”, ovvero “l’ultima ipostasi di Roma” (20), in quanto, sempre a parere di Iorga, “il dominio ottomano non significava altro che una nuova Bisanzio, con un altro carattere religioso per la dinastia e per l’esercito” (21).
Arnold Toynbee, che ha parlato di “Impero romano turco-musulmano” (22), condivide anche lui questo punto di vista.
Curioso ma molto significativo, a questo proposito, il mito d’origine che mirava ad accreditare la parentela fra Turchi e Romani e quindi a rafforzare, nella coscienza degli Europei di quell’epoca, l’idea di una qualificazione dell’Impero ottomano a far propria l’eredità dell’antica Roma.
La somiglianza fonetica fra Turchi e Teucri induceva parecchi a ritenere che Mehmed fosse un discendente di Teucro, il primo re della Troade, e che quindi avesse compiuto sui discendenti dei Greci le vendette dei Troiani.
Per di più, circolava in Francia una lettera, che si diceva inviata da Mehmed al papa Niccolò V, nella quale lo scrivente mostrava la propria meraviglia per il fatto che gl’Italiani gli fossero ostili, benché discendessero, al pari dei Turchi, dal medesimo ceppo troiano, per il tramite di Enea.
Il tema delle origini troiane dei Turchi ricorre anche nel discorso (riferito dallo storico greco Michele Critobulo) che Mehmed pronunciò accanto alle rovine di Ilio, dove si era recato con un piccolo contingente di giannizzeri per rendere omaggio agli eroi troiani.
L’amore per i presunti antenati troiani non impedì a Mehmed di essere “filelleno”, come lo definisce Critobulo (“saggio, filelleno e gran re”) e di essere un assiduo studioso dell’antichità greca, nella quale lo affascinavano soprattutto le figure dei grandi condottieri, a partire ovviamente da Alessandro, il soggiogatore di Gog e Magog.
È ancora Critobulo a testimoniare che il Sultano nutriva un grande affetto per la “città dei saggi”, come gli Ottomani chiamavano Atene. Il Conquistatore, animato dal desiderio di conoscere bene i monumenti del passato (tà pánta tôn palaiôn eidênai kalôs), vi si recò in visita ufficiale nell’agosto del 1458 e trattò gli Ateniesi con generosità, confermando le libertà e i privilegi già concessi loro dal suo luogotenente Omer Bey.
La “città dei saggi” sarebbe rimasta nel territorio dell’Islam per più di tre secoli e mezzo.

Oltre ad un Islam arabo, ad un Islam persiano, turco, indiano eccetera, è dunque esistito, sia pure temporaneamente e su spazi geografici ridotti, un Islam europeo.
La domanda che oggi ci poniamo è se questa possibilità sia ancora valida e quali siano le condizioni per la sua realizzazione.

1. F. Gabrieli, Gli Arabi, Sansoni, Firenze 1963, p. 142.
2. C. Sánchez-Albornoz, La España musulmana segun los autores islamicos y cristianos medievales, Espasa-Calpe, Madrid 1978, p. 82.
3. J. B. Trend, Spagna e Portogallo, in: L’eredità dell’Islam, a cura di Th. Arnold e A. Guillaume, Vallardi, Milano 1962, p. 7.
4. H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, p. 223.
5. F. Nietzsche, Der Antichrist, 60; trad. it. L’anticristiano, Edizioni di Ar, Padova 2004, p. 139.
6. S. Hunke, Allahs Sonne über dem Abendland, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1960, p. 348 (trad. mia).
7. G. Musca, L’emirato di Bari, Dedalo, Bari 1977, p. 155.
8. F. Gabrieli, Gli Arabi nel Mediterraneo, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1970, p. 15.
9. G. Crespi, L’Europe musulmane, Zodiaque, Saint-Dié 1982, pp. 76-77.
10. G. De Pasquale, L’Islam in Sicilia, Flaccovio, Palermo 1980, p. 97.
11. F. Gabrieli, Gli Arabi, cit., p. 145.
12. D. Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari 1970, p. 56.
13. R. Morghen, Medioevo cristiano, Laterza, Bari 1970, pp. 173-174.
14. E. Kantorowicz, Federico II Imperatore, Garzanti, Milano 1976, p. 187.
15. Storici arabi delle Crociate, Einaudi, Torino 1963, p. 275.
16. M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, Catania 1933, vol. III, pp. 659-660.
17. Ibn Sab’in, Le Questioni Siciliane, Officina di Studi Medievali, Palermo 2002.
18. A. Mercati, Le due lettere di Giorgio da Trebisonda a Maometto II, “Orientalia
Christiana Periodica”, IX, 1943, pp. 65-99.
19. F. Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Einaudi, Torino 1967, p.
470 e 478.
20. N. Iorga, The Background of Romanian History, Cleveland 1930, cit. in I. Buga,
Calea Regelui, Bucarest 1998, p. 38.
21. N. Iorga, Byzance après Byzance, Balland, Paris 1992, p. 48.
22. A. Toynbee, A Study of History, 2a ed., London – New York – Toronto 1948, vol.
XII, p. 158.

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SAN MARINO INDIPENDENTE NELLA “NUOVA GUERRA FREDDA”

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San Marino è il terzo Stato più piccolo d’Europa, dopo il Vaticano e il Principato di Monaco, e il quinto a livello mondiale. La sua estensione territoriale, pari a poco più di 61 chilometri quadrati, è paragonabile a quella di un comune italiano di dimensioni medio-piccole: a titolo di confronto, si pensi che la Provincia di Trieste, la più piccola d’Italia, ha un’estensione di 212,51 chilometri quadrati, mentre il Comune di Milano raggiunge i 181,67 km². Il primo riconoscimento ufficiale di San Marino è avvenuto nel 1291, ma la sua indipendenza, secondo la tradizione, risalirebbe al lontano 366, anno in cui San Marino, fondatore di quella comunità sul Monte Titano che avrebbe costituito il primo nucleo della Serenissima Repubblica, in punto di morte avrebbe riunito i suoi discepoli dicendo loro: “Vi lascio liberi da entrambi gli uomini”. Questa frase, in seguito, avrebbe costituito la base legale del riconoscimento diplomatico della Repubblica del Titano da parte dello Stato Pontificio, il primo della sua storia pluricentenaria; e, sebbene siano stati successivamente espressi forti dubbi sulla loro effettiva pronunciai, la legittimità dell’indipendenza della Repubblica non è mai stata realmente messa in discussione.

Sono in tanti a conoscere il pittoresco centro storico di San Marino, nel 2008 riconosciuto dall’UNESCO Patrimonio Mondiale dell’Umanità, e le sue emissioni numismatiche e filateliche sono molto apprezzate dai collezionisti, ma la sua storia, e in particolare la sua vita politica, sono praticamente sconosciuti a nord di Rimini e a sud di Pesaro. Il peso di San Marino nella politica internazionale è quasi nullo, e la Repubblica non è mai sembrata particolarmente interessata ad accrescere la propria potenza. Pur avendo un esercito, il Paese non aderisce a nessun’alleanza militare, e l’ultimo conflitto che ha visto la partecipazione delle forze armate del Titano è stata la Guerra Sammarinese del 1460-63, al termine della quale il piccolo Stato ha raggiunto le sue dimensioni attuali. La politica estera di San Marino è stata quasi sempre orientata alla preservazione della propria indipendenza e al mantenimento di una certa autonomia nell’agire politico; questo, assieme al forte orgoglio patriottico della sua popolazione, contribuisce a spiegare come mai un Paese dalle dimensioni così ridotte possa vantare (almeno) sette secoli di storia, un miraggio per Stati anche molto più grandi e potenti. Si noti che si sono risolte in un fallimento entrambe le occupazioni a cui è stata soggetta la Repubblica del Titano, la prima ad opera del Duca di Romagna Cesare Borgia (il celebre Duca Valentino) agli inizi del Cinquecento, la seconda messa in atto dal Cardinale Giulio Alberoni, che nel 1739 cercò di annettere il territorio allo Stato Pontificio.

Ciò, tuttavia, non deve trarre in inganno: la natura dell’indipendenza di San Marino è stata spesso “finlandese”, come dimostrato da quanto avvenuto dopo l’Unità d’Italia. Nel 1849, a seguito del fallimento della Repubblica Romana, Giuseppe Garibaldi e i suoi uomini trovarono rifugio a Borgo Maggiore, ai piedi del Titano, e in cambio garantirono alla Repubblica il rispetto della sua indipendenza e supporto in caso di invasioni. Questo, probabilmente, ha avuto un ruolo determinante nel tracciare l’atteggiamento dello Stato Italiano verso San Marino, al punto che neanche i più esagitati tra gl’irredentisti hanno visto la Repubblica alla stregua di Trieste o Fiume; ma, malgrado ciò, l’influenza (e le ingerenze) da parte di Roma negli affari interni di San Marino non è mai venuta a mancare. Dal 1923 al 1943, al pari dell’Italia, anche il Titano fu retto da un regime fascista, e nel 1944, malgrado la sua neutralità, la Repubblica fu bersaglio di un bombardamento alleato. Nel Secondo Dopoguerra, e nello specifico tra il 1945 e il 1957, San Marino fu guidata da una serie di governi social-comunisti che vararono importanti riforme sociali e instaurarono rapporti amichevoli con l’Unione Sovietica, ma questa stagione sarebbe terminata bruscamente con la più grave ingerenza italiana negli affari sammarinesi della storia della piccola Repubblica.

Il contesto è quello dei Fatti di Rovereta, uno degli episodi chiave della storia contemporanea di San Marino e allo stesso tempo uno dei più controversi. La storia ufficiale parla di una maggioranza social-comunista che nel febbraio del 1957 smise di essere maggioranza, con la fuoriuscita di cinque consiglieri socialisti contrari al mantenimento dell’alleanza col PCS. Per alcuni mesi l’opposizione e la compagine governativa poterono contare ciascuna su 30 consiglieri, e, sebbene all’inizio i cinque dissidenti mantenessero una posizione intermedia, per il Titano la vita iniziò a farsi sempre più difficile. A settembre, poi, la fuoriuscita del comunista Attilio Giannini portò a un definitivo ribaltamento dei rapporti di forza, e questo proprio alla vigilia dell’elezione dei due nuovi Capitani Reggenti (le massime autorità della Repubblica). La nuova maggioranza cercò di dar vita a un nuovo governo, ma venne bloccata dalle lettere di dimissioni di trentaquattro consiglieri social-comunisti – firmate con la data in bianco al momento della loro elezione, a garanzia del rispetto delle direttive dei rispettivi partiti – e ciò spinse i Capitani Reggenti al potere, legati alla vecchia compagine governativa, a proclamare le elezioni anticipate. A questo punto, però, ci fu la reazione dell’opposizione divenuta maggioranza, che la sera del 30 settembre occupò un capannone abbandonato a Rovereta, nei pressi del confine italiano, e proclamò la nascita di un governo provvisorio, prontamente riconosciuto da Roma. Seguirono due settimane di grande tensione, con i sostenitori dei due governi che si dotarono di milizie armate; l’impasse fu superata solo col passo indietro della Reggenza, che acconsentì all’insediamento sul Titano del governo di Rovereta.

Dietro questa storia, già di per sé magmatica, ce n’è una ancora più torbida, fatta di corruzione e intrighi internazionali, che solo di recente ha iniziato a vedere la luce. Il golpe di Rovereta fu preceduto da mesi di febbrile attività diplomatica, durante la quale i futuri golpisti si assicurarono il sostegno degli Stati Uniti nel loro tentativo di dar vita a un governo privo dell’elemento comunistaii. Ancor più efficace fu però l’azione del governo italiano, alleato di quello USA e a guida democristiana, che mal tollerava la presenza di un’enclave rossa all’interno dei propri confini, peraltro incastonata in quelle che durante la Prima Repubblica erano le “Regioni rosse” (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche settentrionali). La sua azione, che combinava pressioni economiche, sostegni finanziari e logistici all’opposizione e tangenti ai membri della maggioranza (Giannini, ad esempio, fu convinto a passare dall’altra parte con una casa, un lavoro e tre fucili da cacciaiii) ebbe un ruolo determinante nel porre fine all’esperienza del socialismo in salsa sammarinese. In ogni caso, i fatti di Rovereta dimostrano i limiti a cui è sottoposta l’indipendenza di un piccolo Paese, specie se interamente racchiuso nel territorio di un altro Stato e privo di sbocchi sul mare, a maggior ragione in un contesto di forti tensioni internazionali.

Rovereta, per fortuna, appartiene a un’epoca storica ormai superata, e la transizione verso un sistema internazionale multipolare impone un passaggio dalla logica del bianco e nero a quella delle sfumature di grigio. L’Iran non è più il Grande Satana degli Stati Uniti, mentre il “sultano” Erdoğan non è propriamente il più affidabile degli alleati di Washington. Eppure, in un mondo in cui i retaggi storici hanno il loro peso e dove una piena multipolarità resta una meta lontana, la logica del “chi non è con noi è contro di noi” tipica della Guerra Fredda è ancora molto lontana dal soccombere, come dimostrano la crisi ucraina e il connesso clima di tensione tra Russia e Occidente. La “nuova Guerra Fredda” non è la Guerra Fredda, ma per San Marino, interamente circondato dall’Italia e legato a quest’ultima da un’unione doganale e monetaria (cosa che implica, da parte del Titano, l’adozione dell’euro e della politica doganale comunitariaiv) l’assunzione di una politica estera filorussa e magari apertamente antiatlantista sarebbe inconcepibile. Almeno nel prossimo futuro, quindi, è alquanto improbabile che San Marino firmi un accordo di libero scambio con l’Unione Eurasiatica o riconosca la Crimea come territorio russo.

Ciò, comunque, non implica che la Repubblica del Titano sia del tutto priva di spazi di autonomia, come è emerso proprio nel corso della crisi ucraina. Il 18 marzo del 2014, in occasione del referendum in Crimea, il Segretario di Stato per gli Affari Esteri Pasquale Valentini ha emesso un comunicato con cui esprimeva “disappunto” per il referendum in Crimea, affermando che lo stesso avveniva “in violazione della sovranità e dell’integrità territoriale ucraina” e legittimava un intervento militare da parte della Russiav. Ma, nella prassi, il governo sammarinese non è mai andato oltre. San Marino, infatti, non ha adottato le sanzioni europee contro la Russia, né ha preso posizione sulla Guerra nel Donbass, limitandosi ad auspicare un esito pacifico della crisi in corso, né infine ha adottato misure anti-aggiramento come ha fatto la Svizzera, le cui sanzioni prevedono l’obbligo di autorizzazione per i prestiti a lungo termine ai cinque istituti di credito russo a partecipazione statale, peraltro rilasciata solo se “l’aumento di capitale previsto non supera il valore nominale medio degli strumenti finanziari detenuti dal richiedente negli ultimi tre anni”, con una deroga per i rifinanziamentivi. Ad applicarsi, di default, sono quindi solo le sanzioni che prevedono il divieto di transazioni finanziarie in dollari o in euro. Di conseguenza, per il Titano, le opportunità sono tutt’altro che assenti.

Bisogna tuttavia premettere che per San Marino le tensioni tra Russia e Occidente non sono propriamente una buona notizia. A pagarne le spese è soprattutto il turismo, da sempre una delle maggiori voci della sua economia. Negli anni Duemila, al pari della vicina Romagna, anche San Marino ha iniziato a puntare molto sul mercato russo e a quello dei Paesi ex-sovietici. Il momento era estremamente favorevole, visti la congiuntura tra l’andamento positivo dell’economia russa, il progressivo rafforzamento dei rapporti tra la Russia e i principali Paesi europei (tra cui l’Italia) e la ben nota passione per il Bel Paese dei Russi e in generale dei cittadini ex-sovietici, e gli investimenti non hanno tardato a dare frutti. Oggi circa il 10% dei due milioni di turisti che ogni anno visitano San Marino viene dalla terra di Tolstoj, e per chi cerca lavoro nel turismo o nell’indotto la conoscenza della lingua di Puškin è ormai preferita a quella dell’idioma di Goethe, malgrado la Germania sia stata per anni la principale fucina di turisti stranieri della regione. Ciò ha dato vita anche a un indotto di servizi specializzati per turisti russi e a flussi di lavoratori, stagionali e non, dalla Russia e dagli altri Paesi ex-sovietici, al punto che oggi, per le strade di San Marino, non è strano imbattersi in camerieri o in commessi di madrelingua russa.

Negli ultimi due anni, però, i contraccolpi della crisi ucraina hanno raggiunto anche questa regione a cavallo tra l’Adriatico e i primi contrafforti dell’Appennino. La provincia di Rimini, nei primi otto mesi del 2015, ha visto i suoi arrivi dalla Russia diminuire del 52% (ben superiore al complessivo -11% di arrivi stranieri)vii, l’Aeroporto di Rimini – San Marino, che negli ultimi anni aveva puntato molto sui voli da Russia e Bielorussia, è rimasto fermo per diversi mesi rischiando la chiusura definitiva (e la sua posizione è messa ancora più a rischio dal recente acquisto dell’Aeroporto di Ancona da parte della società russa Novaportviii), e chi continua ad arrivare, complice la debolezza del rublo, fa vacanze più brevi e spende di meno, con buona pace di quegli operatori che parevano ormai piacevolmente assuefatti ai portafogli pieni dei Russi ricchi. E se la Riviera piange, il Titano non ride. A San Marino il turismo è di gran lunga meno legato all’elemento balneare rispetto alla pur vicina Riviera Romagnola, con tutti i benefici del caso (le località marittime, con l’eccezione di quelle di prestigio e di quelle situate in zone di particolare pregio naturalistico, trovano facilmente dei sostituti), e ciò le ha consentito di reggere molto meglio l’impatto della crisi, ma il calo è stato comunque vistoso: tra il 2013 e il 2014, infatti, gli arrivi dalla Russia hanno registrato un poco invidiabile -25,5%ix.

Per fortuna, però, c’è anche il rovescio della medaglia. Non aderendo alle sanzioni europee, San Marino può sfruttare sia le opportunità derivanti dall’aggiramento delle stesse (ad esempio per l’esportazione in Russia di alcune tecnologie per l’estrazione di petrolio e dei prodotti a doppio uso, di cui uno militare), sia quelle legate alla mancata applicazione dell’embargo alimentare russo adottato in risposta alle sanzioni occidentali. Sul primo fronte, tuttavia, le opportunità, almeno al momento, riguardano soprattutto alcuni territori d’oltremare dei Paesi europei, in primis le Isole Vergini Britannichex, mentre per San Marino le stesse sono piuttosto limitate, in quanto, non facendo parte del WTO, il Paese non beneficia della clausola della nazione più favorita, e dunque il trattamento daziario riservato alle merci sammarinesi non è il più basso tra quelli dei Paesi con cui non sono in vigore accordi di libero scambio o affinixi.

Ben diverso è il discorso valido per l’agricoltura e l’industria alimentare di San Marino, che ha potuto coprire alcune delle nicchie lasciate vuote dai prodotti europei messi al bando, in particolare nelle fasce medio-alte. Recentemente, ad esempio, le sammarinesi San Marino Salumi e SM Sales sono state le uniche società europee a partecipare alla fiera World Food, tenutasi a Mosca tra il 14 e il 17 settembre, che ha consentito loro di presentare i propri prodotti ai mercati dei Paesi dell’Unione Eurasiatica. Grazie all’esenzione dall’embargo alimentare, inoltre, il territorio di San Marino è stato usato anche per le riesportazioni in Russia dei prodotti europei soggetti allo stesso. Un’operazione, questa, che Mosca non vede di buon occhio, in quanto l’embargo alimentare, che colpisce soprattutto una categoria elettoralmente forte come gli agricoltori, è una delle maggiori armi di pressione della Russia nei confronti dell’Occidente. Si ricordi, sotto questo punto di vista, il ripristino dei controlli doganali al confine russo-bielorusso per frenare la riesportazione dei prodotti colpiti da embargo attraverso Minsk (che non aveva aderito allo stesso) mediante la semplice apposizione di un bollinoxii (celebre il caso del Parmigiano Reggiano made in Belarus…). San Marino, tuttavia, non è la Bielorussia, e non c’è da stupirsi se le logiche della politica internazionale spingano la Russia a tollerare queste triangolazioni finché il loro volume complessivo resta limitato.

Ciò rimanda nuovamente a un tema già affrontato in precedenza, ossia cosa significhi realmente essere un piccolo Stato in un panorama internazionale dominato dai grandi. Ed è proprio questo il tema al centro della seconda parte della conferenza La Russia e l’Europa: i problemi attuali del giornalismo internazionale moderno, tenutasi l’8 ottobre scorso presso l’Università di San Marino. Il Titano, come si è visto, occupa una posizione particolare all’interno del sistema politico internazionale: i suoi legami prioritari sono con Bruxelles, ma il Paese non fa parte dell’Unione Europea (e un recente referendum in tal senso, in cui il “sì” è riuscito a vincere solo grazie ai voti all’estero, è fallito per il mancato raggiungimento del quorumxiii), e quindi non è tenuta ad adottarne le direttive. Ciò assume un’importanza cruciale in momenti di tensione tra UE e Paesi terzi, come quello attuale con la Russia; e anche per questo, come ha affermato il Console Onorario di Russia in Emilia-Romagna Igor Pellicciari, “la sovranità di San Marino è più sentita a Mosca che a Roma”. Nelle relazioni economiche e in quelle internazionali, dopotutto, l’elemento umano e anche i sentimenti hanno un’importanza cruciale: Mosca, infatti, si è vista tagliata fuori dall’Occidente per un anno e mezzo, ossia tra il Referendum in Crimea del 16 marzo 2014 e il discorso di Putin alle Nazioni Unite del 28 settembre dell’anno in corso, e questo in un contesto in cui la Russia, erede de facto della Romanità d’Oriente, si percepisce, per così dire, come un Paese “diversamente occidentale”. E, anche per questo, è difficile che la gratitudine di Mosca verso San Marino si esaurisca nel chiudere un occhio sull’aggiramento (limitato) dell’embargo alimentare russo attraverso la Repubblica del Titano. Indicativi, sotto questo punto di vista, sono i rapporti con la Cina Popolare: San Marino, infatti, ha riconosciuto la Repubblica Popolare Cinese come unico rappresentante legittimo del fu Celeste Impero prima che questa assumesse il seggio all’ONU precedentemente occupato da Taiwan (o Repubblica di Cina), e oggi è l’unico Paese europeo i cui cittadini non hanno bisogno del visto turistico per visitare Pechino. E viceversa.

Cosa può fare, però, San Marino per risolvere la crisi in corso (seppure in fase di rientro) nel Paese di Gogol’? La risposta a questa domanda è arrivata da Michele Chiaruzzi, Ambasciatore di San Marino nella Bosnia-Erzegovina e Direttore del neonato Centro per le Relazioni Internazionali presso l’Università di San Marino. Un piccolo Stato, a detta di Chiaruzzi, “lavora affinché i canali siano costantemente aperti” e “afferma questa necessità da una posizione che nessun altro Stato ha, ossia quella di uno Stato ininfluente. Il piccolo Stato è neutrale per definizione, e quindi è al di sopra di ogni sospetto”. Va da sé che, come detto in precedenza, per San Marino una piena neutralità non sia completamente possibile: come ha affermato nel corso della stessa conferenza Epifanio Troina, Rappresentante di Ossezia del Sud e Abchazia presso San Marino, il Titano, pur mantenendo una politica economica e turistica multivettoriale, si caratterizza per una politica estera orientata sempre più in senso atlantista, pur affiancata da una politica economica e turistica multivettoriale. Una posizione che filtra leggendo alcuni degli articoli sulla crisi ucraina della TV di Stato di San Marino, più favorevoli a Kiev che a Mosca, le dichiarazioni di Valentini sul referendum in Crimea, non molto dissimili da quelle espresse da molti capi di Stato occidentali, o anche confrontando i rapporti di San Marino con il Kosovo da un lato e con Ossezia del Sud e Abchazia dall’altro: se nel primo caso abbiamo un riconoscimento formale, nei secondi soltanto relazioni informali. Ma, come si è già visto, l’economia mostra un’altra faccia della medaglia, non meno significativa, e il fatto che San Marino, al pari di Andorra e del Principato di Monaco e a differenza di Paesi quali Liechtenstein, Albania e Montenegro, abbia resistito alle pressioni occidentali sull’adozione delle sanzioni, è un chiaro indice del fatto che quella dei microstati che tengono aperti i canali non è solo retorica. Va ricordato, dopotutto, che anche dopo Rovereta il Titano si sia guardato bene dal rompere le relazioni con l’URSS instaurate dai precedenti governi social-comunisti per compiacere l’alleato di Oltreoceano, al punto che, nel 1979, il Cremlino e il Titano hanno sottoscritto un Accordo di Cooperazione Culturale tra i due Paesixiv. Il fatto che si parli di cooperazione “culturale” e non “politica” può essere interpretato come l’ennesima prova che quella di San Marino sia, di fatto, un’indipendenza “finlandese”; ma, come dimostra chiaramente l’esperienza della Finlandia nel Secondo Dopoguerra, ciò non è necessariamente qualcosa di negativo.

*Giuseppe Cappelluti è un assiduo collaboratore di Eurasia.

Quest’articolo utilizza il materiale della IV Conferenza Internazionale “La Russia e l’Europa: i problemi del giornalismo internazionale contemporaneo”, tenutasi a San Marino l’8 ottobre 2015.

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LA “GUERRA CIVILE” ISLAMICA

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Il direttore di “Eurasia” ha rilasciato al giornale informatico “Il Primato Nazionale” l’intervista che riproduciamo qui di seguito.

 

D. L’ultimo editoriale di “Eurasia”, la rivista di geopolitica che lei dirige, si intitola“La guerra civile islamica”. Chi sono gli attori di questo conflitto interno alla religione musulmana e qual è la posta in gioco?

R. L’espressione “guerra civile islamica” usata nell’editoriale del trentanovesimo numero di “Eurasia” deve essere intesa lato sensu, poiché quello attualmente in corso non è propriamente un conflitto in cui si scontrano i cittadini di un medesimo Stato, anche se non mancano casi di vera e propria guerra civile; trattandosi invece di un conflitto che contrappone Stati, istituzioni, correnti, gruppi appartenenti al mondo musulmano, sarebbe più esatto parlare di “guerra intraislamica”. Lo scontro in questione deve essere fatto risalire al tentativo, messo in atto da forze storicamente complici dell’Occidente britannico e statunitense, di instaurare la loro egemonia nel mondo musulmano. Grazie anche ai petrodollari di cui possono disporre, queste forze, che sul piano ideologico si esprimono (soprattutto ma non soltanto) nelle deviazioni wahhabita e salafita, esercitano la loro influenza su una parte considerevole della comunità dei credenti. Questo tentativo egemonico, oltre ad incontrare le renitenze dell’Islam tradizionale, ha suscitato a lungo la forte opposizione del nasserismo (fino a Gheddafi) e delle correnti rivoluzionarie. Oggi il suo ostacolo principale è rappresentato dall’Islam sciita. Di qui il feroce settarismo antisciita che anima le correnti eterodosse e che, purtroppo, si è esteso anche ad ambienti dell’Islam che in teoria dovevano restarne esenti.

 

D. L’intervento russo in Siria sembra aver cambiato le sorti del conflitto. Crede che sia possibile, per Assad, tornare alla situazione pre-bellica o ormai una quota del suo potere e della sua sovranità può dirsi comunque persa per sempre?

R. Il governo siriano, che tutti davano ormai per spacciato, è riuscito a sopravvivere ad un’aggressione e ad una guerra civile durate più di quattro anni. L’alleanza eurasiatica di Siria, Iran, Hezbollah e Russia ha prevalso sullo schieramento occidentale e sul sedicente “Stato Islamico” che quest’ultimo ha ideato, finanziato, armato e addestrato. Si tratta della prima sconfitta geopolitica inflitta agli Stati Uniti ed ai loro satelliti dopo la fine della guerra fredda. In questo contesto, non credo che Assad debba temere una perdita del proprio potere, tant’è vero che il presidente siriano si dichiara pronto ad affrontare nuove elezioni presidenziali. Alcuni giorni fa, il 23 ottobre, dopo l’incontro con John Kerry e i ministri degli Esteri turco e saudita, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha smentito nel modo più categorico che durante i negoziati sulla crisi siriana i partecipanti abbiano affrontato il tema delle dimissioni del Presidente Assad. Poco prima, Dmitrij Trenin, direttore del Carnegie Center di Mosca, aveva detto che per Putin “Assad non è una vacca sacra” e che il suo unico interesse consiste nel “salvare lo Stato siriano, evitando che si smembri come è avvenuto in Libia o in Yemen”. Tuttavia un fatto è certo: la Russia ha considerevoli interessi geostrategici in Siria, un paese che da oltre quarant’anni è suo alleato ed ospita a Tartus l’unica base mediterranea della Marina russa. Non solo, ma i Russi hanno costruito una base aerea ad Al-Ladhiqiyah (Laodicea), che è una roccaforte di Assad. Non credo perciò che la Russia voglia creare a Damasco le condizioni per un vuoto di potere, che darebbe modo agli alleati degli USA di soffiare nuovamente sul fuoco del terrorismo.

 

D. In questi giorni la situazione sta tornando calda anche nei territori palestinesi. Perché proprio ora si torna sull’orlo di una “terza Intifada”? È un fenomeno che può in qualche modo essere inquadrato nello sconvolgimento generale dell’area?

R. La “terza Intifada”, la cosiddetta “Intifada dei coltelli”, è una grande occasione per l’asse russo-iraniano, la cui linea strategica può aprire prospettive di vittoria alla causa palestinese. Spazzando via la mostruosità rappresentata dal sedicente “Stato Islamico” e garantendo la sicurezza della Repubblica Araba di Siria, l’asse russo-iraniano otterrà infatti il risultato di modificare radicalmente la situazione del Vicino Oriente. In conseguenza di ciò, il ruolo degli Stati Uniti nella regione risulterà fortemente ridimensionato e quindi anche l’egemonia dell’entità sionista sarà messa in discussione. Se l’alleanza russo-iraniana vorrà spingere fino in fondo l’azione svolta fino a questo momento, essa dovrà sostenere in maniera decisiva la lotta del popolo palestinese; ma i dirigenti palestinesi dovranno a loro volta rescindere i legami con quei governi della regione che sostengono la presenza statunitense e sono complici del regime d’occupazione sionista.

 

D. Qual è il rapporto delle correnti wahhabite e salafite con la religione islamica? Ne rappresentano un’estremizzazione o un pervertimento? E quale, invece, il loro legame con l’Occidente anglo-americano?

R. I movimenti wahhabita e salafita, benché nati in luoghi e in circostanze storiche differenti, dichiarano entrambi di lottare per uno scopo sostanzialmente identico: riportare l’Islam a quello che esso era, almeno secondo l’immaginazione dei loro seguaci, all’epoca delle prime generazioni di musulmani. Queste correnti respingono sia il magistero spirituale esercitato dai maestri delle confraternite sufiche, sia le norme della Legge sacra (sciaria) elaborate dalle scuole giuridiche tradizionali (sunnite e sciite). La loro interpretazione del Corano e della Sunna profetica (uniche fonti di dottrina che esse riconoscono) è caratterizzata da un ottuso letteralismo antispirituale che non rifugge nemmeno dall’antropomorfismo.

Fin dai loro esordi, questi movimenti eterodossi e settari hanno agito in connivenza con la Gran Bretagna, rendendosi strumenti dei suoi piani di dominio nel mondo musulmano. Il fondatore del movimento salafita, Al-Afghani, iniziato alla massoneria in una loggia di rito scozzese del Cairo, fece entrare nell’organizzazione liberomuratoria gl’intellettuali della sua cerchia, tra cui Muhammad ‘Abduh, che nel 1899 diventò muftì dell’Egitto col placet degl’Inglesi. Lord Cromer, uno dei principali artefici dell’imperialismo britannico, definì i seguaci di Muhammad ‘Abduh come “i naturali alleati del riformatore occidentale”.

Quanto ai wahhabiti, Ibn Sa‘ud venne patrocinato dalla Gran Bretagna, che nel 1915 fu l’unico Stato al mondo ad instaurare relazioni ufficiali col Sultanato wahhabita del Nagd e nel 1927 riconobbe il nuovo regno wahhabita del Hegiaz e del Nagd. Consigliere di Ibn Sa‘ud fu Harry Philby, l’organizzatore della rivolta araba antiottomana, il medesimo che caldeggiò presso Churchill, il barone Rothschild e Weizmann il progetto di una monarchia saudita incaricata di controllare per conto dell’Inghilterra la via delle Indie. Al patrocinio britannico si sostituì poi quello statunitense; se già nel 1933 la monarchia saudita aveva dato in concessione alla Standard Oil il monopolio dello sfruttamento petrolifero e nel 1934 aveva concesso a un’altra compagnia americana il monopolio dell’estrazione dell’oro, il 1 marzo 1945 il re wahhabita sigillò la nuova alleanza con gli USA incontrando Roosevelt a bordo della Quincy.

 

D. I due recenti premi Nobel per la Pace e per la Letteratura hanno notevoli implicazioni geopolitiche. Può dirci un suo commento?

R. Occorre tener presente che il Premio Nobel non è affatto un’istituzione neutrale e libera da condizionamenti politici. Il Nobel per la Pace, in particolare, è stato più volte assegnato a personalità della politica, della cultura e anche della religione che hanno servito gl’interessi degli Stati Uniti d’America o del regime sionista, magari mediante la sovversione, la propaganda menzognera, l’azione terroristica e l’aggressione militare contro altri paesi. Mi limito a citare alcuni nomi, sui quali non è necessario fare alcun commento: Woodrow Wilson, Henry Kissinger, Menachem Begin, Lech Walesa, Elie Wiesel, il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, Gorbacev, Aung San Suu Kyi, Shimon Peres, Yitzhak Rabin, Barack Obama. Quest’anno il Nobel per la Pace è stato assegnato al cosiddetto Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, come riconoscimento del suo “decisivo contributo alla costruzione di una democrazia pluralista in Tunisia sulla scia della Rivoluzione dei Gelsomini del 2011”. Insomma, è stata premiata la cosiddetta “Primavera araba”, ossia il vasto movimento di destabilizzazione che la “strategia del caos” ha favorito sulle sponde meridionale ed orientale del Mediterraneo. Significato analogo riveste anche la decisione di assegnare il Nobel per la Letteratura ad una giornalista su cui grava l’accusa infamante di essere un’agente della CIA.

 

26 Ottobre 2015

 

http://www.ilprimatonazionale.it/cultura/mutti-nellislam-ce-una-guerra-e-gli-estremisti-fanno-il-gioco-degli-usa-32945/

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Vasile Gherasim şi Eurasia spirituală

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În cultura română, până în anii din urmă, „eurasianismul” a fost un concept aproape necunoscut, urmare a lipsei cvasicomplete a curentului cultural, politic, ideologic sau geopolitic corespunzător. E adevărat, lucrurile s-au schimbat în ultimii ani, din păcate mai ales prin publicitatea de ordin politic şi de sens uneori negativ.

Este cu atât mai interesant să constatăm că, deşi foarte slab reprezentat, eurasianismul (ca preocupare culturală) a existat totuşi în România, anume în perioada interbelică şi, lucru interesant, în aria culturală bucovineană, care, aşa cum bine ştim, era marcată de relaţii strânse cu spaţiul filosofic german. Autorul despre care vom vorbi aici, pe scurt, nu este geopolitician, ci filosof, iar cartea sa, cu titlul incitant Eurasia spirituală, a apărut la Cernăuţi în 1931[1]. De altfel, subtitlul acestui eseu de mici dimensiuni lămureşte lucrurile: este vorba despre un „studiu de filosofie comparată”, însă, trebuie să spunem din capul locului că Vasile Gherasim va atinge, şi nu superficial, problematica geopolitică.

Vasile Gherasim s-a născut în 1893 în comuna Marginea din judeţul Suceava. După ce termină liceul în Suceava, din 1915 îşi începe studiile superioare la Viena. Bursier al universităţii vieneze, Gherasim este în relaţie în acea perioadă cu alţi doi viitori reprezentaţi de seamă ai filosofiei româneşti, aflaţi şi ei la studii la Viena, Lucian Blaga şi D.D. Roşca. Din cauza războiului, este nevoit să se întoarcă acasă în 1918, apoi, după un an, îşi dă doctoratul cu o teză despre „Principiile eticii” a lui Friedrich Jodl. După 1927, odată cu plecarea la Graz a profesorului Carl Sigel, Gherasim ocupă catedra de Istoria filosofiei şi Estetică a Universităţii din Cernăuţi, Facultatea de Filosofie şi Istorie[2].

Vasile Gherasim a avut atât preocupări de filosofie, cât şi de teorie şi estetică literară. Apreciat în mod deosebit de către Traian Brăileanu, Gherasim va avea o viaţă scurtă, stingându-se din viaţă la 10 februarie 1933, la numai patruzeci de ani.

Eurasia spirituală este un soi de analiză spectrală a Eurasiei, preponderent din perspectivă filosofică. Cu toate acestea, Vasile Gherasim abordează materialul de studiu şi prin metoda geografică, ceea ce îl face un apropiat al demersurilor de ordin geopolitic. De altfel, tradiţia geopolitică germană de la vârf, în care îl includem în primul rând pe Karl Haushofer, nu făcea un lucru mult diferit atunci când, referindu-se la Japonia, de exemplu, studia atât geografia, cât şi filosofia spaţiului japonez pentru a extrage o legătură semnificativă între spaţiu şi manifestările politice ale poporului japonez[3].

La rândul său, Vasile Gherasim îşi începe expozeul asupra Eurasiei printr-o observaţie de geografie pură: limitele geografice ale continentului european sunt imposibil de stabilit cu certitudine în raport cu continentul asiatic:
„Cel ce a învăţat puţină geografie va şti că Asia şi Europa sunt două noţiuni diferite, că ele însemnează două continente, deci două lumi. Dacă însă aruncăm neinfluenţaţi privirea asupra globului pământesc, noi nu putem găsi dintr-odată hotarul dintre cele două lumi, sau cel puţin nu o putem face cu acea repeziciune şi uşurinţă ca la alte continente”[4].

Observaţia geografică este însă condiţionată şi deformată de concepţia politică. Lucrul acesta, remarcă Gherasim, are legătură nu cu raporturile dintre Europa şi Asia (ca fenomene umane totale, adică geografice şi spirituale), ci dintre Europa şi Rusia. Acest raport, politic, va duce la o ruptură inexplicabilă, neîntemeiată, falsă dintre cele două continente aflate, aşa cum am văzut, în raport de continuitate:

„Adesea chiar s-au exprimat proteste împotriva acestei împărţiri arbitrare: ar trebui numai să amintesc de concepţia rusească despre ’Rusia şi Europa’, desigur fără să se fi spus unde ar trebui fixat hotarul dintre Rusia şi Europa. Nici nu e nevoie de explicat mai de-aproape că această numire de ’Rusia şi Europa’ avea caracter politic şi ca atare dânsa nu voia şi nu putea să exprime un adevăr”[5].

Din punct de vedere filosofic, continuă Gherasim, această împărţire avea semnificaţia unei deosebiri, a unei diferenţe care s-ar manifesta între gândirea, voinţa şi simţirea rusească, pe de o parte, şi gândirea, voinţa şi simţirea „celeilalte Europe”, sau, şi mai mult, faptul că poporul rus, ca unitate sufletească, s-ar putea cu greu ataşa Apusului Europei. În acelaşi timp însă, unii gânditori de marcă ai Apusului, cum ar fi Oswald Spengler, credeau tocmai pe dos, observă autorul român, anume faptul că ruşii şi tocmai ei ar avea de împlinit o misiune esenţială în viaţa Europei.

Suntem aici într-un punct de cotitură: avem, pe de o parte, o vizibilă, inatacabilă continuitate spaţială între ceea ce se numeşte Europa şi ceea ce se numeşte Asia, iar pe de altă parte, în ciuda acestei unităţi spaţiale, avem două concepţii opuse cu privire la raporturile dintre Vestul acestui mare bloc continental şi partea centrală şi estică a lui. În miezul „politic” al dezbaterii se află Rusia, fie că este privită din afară ca fiind incompatibilă cu spiritul Vestului european, fie că este privită dinăuntru, adică dinspre ea însăşi, în acelaşi mod. Pe de altă parte, unii gânditori occidentali sunt de părere că Rusia, iată, ar completa, prin misiunea ei aparte, destinul Europei.

Observaţia geografică mai arată un fenomen, subliniază Gherasim, anume discrepanţa dintre mărimea Asiei şi cea a Europei, în favoarea primeia, observaţie ce s-a făcut de atâtea ori şi care se traduce în impresia că, din punct de vedere asiatic, Europa este abia o peninsulă, chiar dacă cea mai mare, a Asiei. În plus, ţinând cont de dimensiunile mici ale statelor europene şi de dimensiunile mari sau foarte mari ale statelor asiatice, am putea concluziona că cele două părţi ale Eurasiei sunt total diferite în manifestările sufleteşti şi politice. Ceea ce nu este adevărat. Vasile Gherasim nu ezită să afirme deschis că Eurasia este un continent unitar („Dacă – în ciuda unităţii Eurasiei (numele este cunoscut!) pe care am amintit-o mai înainte…”), cu toate deosebirile fireşti dintre partea europeană şi cea asiatică a ceea ce azi numim Marele Continent: „E însă adevărat că nu e permis a exagera acele deosebiri şi diferenţe. Ştiut e că exagerările silesc privirea să devieze de la adevăratele realităţi. De aceea nu cred că am exprima adevărul, dacă am întrebuinţa cuvintele haos asiat – şi ordine europeană!, sau cealaltă formulă despre Asia haotică, deci lipsită de ordine, Asia instinctivă şi primitivă pe de o parte, – şi Europa cuminte, civilizată şi ordonată pe de altă parte[6].

Primitivitatea şi barbaria îşi pot avea patria lor şi în Europa chiar: să ne gândim numai la Războiul de 30 de ani, sau la cel mondial, la revoluţia franceză sau cea rusească (…) Că, dimpotrivă, e cu putinţă, în Asia, o aristocraţie spirituală şi că acolo supraomul poate trăi mai nestingherit decât la noi, aceasta ne-o dovedesc marii gânditori şi reformatori ai omenirii ca Zarathustra, Buddha, Kung-fu-tse, Hristos şi toţi aceia care au trăit în sensul învăţăturilor lor umane şi au fost activi în acest sens”[7].

Pasajul de mai sus este relevant pentru tipul de demers al lui Vasile Gherasim. Putem spune că el merge exact în direcţia în care va merge critica lui Julius Evola la adresa lui Jünger în studiul despre Nodul gordian. Ideilor superficiale despre diferenţele dintre Europa şi Asia Gherasim le va opune o teorie a unităţii de substrat de natură spirituală, realmente spirituală, în sensul cel mai tradiţionalist cu putinţă, în sensul unui René Guénon sau Julius Evola, ca să-i cităm pe, probabil, cei mai importanţi reprezentanţi ai curentului tradiţionalist în cultura europeană din ultima vreme. Nu întâmplător, aceştia doi au fost apărători ai Asiei (spirituale) în raport cu Europa…

Unitatea Eurasiei este întrezărită nu numai la nivel geografic şi geopolitic, dar, lucru esenţial, la nivelul determinaţiilor ultime spirituale, acelea care furnizează legăturile cele mai trainice ale civilizaţiilor, legăturile culturale şi spirituale ultime, forţele transindividuale şi cele ale „aristocraţiei spirituale” de care vorbeşte Vasile Gherasim. Rezumând extrem, am putea spune că unitatea Eurasiei este, în concepţia autorului român, asigurată de aristocraţia spirituală a Marelui Continent, de modelul spiritual fundamental al acesteia, reprezentat de numele deja amintite, de marii reformatori şi de cei care, mai puţin cunoscuţi, au fost urmaşii lor pe aceeaşi cale de îmbunătăţire spirituală.

Înainte de a merge mai departe cu prezentarea ideilor lui Vasile Gherasim, să mai facem o remarcă: subtitlul lucrării sale vorbeşte despre un studiu de „filosofie comparată”. Totuşi, lectura acesteia nu va întârzia să semnalizeze cititorului avizat faptul că nu este vorba despre o „filosofie” în sensul actual, scolastic şi individualist-raţionalist. Filosofia pe care o convoacă Vasile Gherasim la baza unităţii Eurasiei este philosophia perennis, sau măcar o ilustrare parţială a ei. Chiar şi când vorbeşte despre filosofi moderni, cum ar fi Schopenhauer, Nietzsche sau Spinoza, el utilizează ideile acestora în sensul în care orice filosofie tradiţională trebuie înţeleasă: ca mod de viaţă asumat, riscat, în conformitate cu o iniţiere anterioară şi cu o Tradiţie care se naşte nu în contul indivizilor, ci prin ei şi, adesea, împotriva voinţei lor egoiste[8].

O parte consistentă a opusculului despre care vorbim este dedicată analizei comparative a trăsăturilor esenţiale ale filosofiei budiste şi ale celei creştine sau a dezvoltărilor ulterioare ale ideilor filosofice europene. Uneori, în ciuda diferenţelor, autorul găseşte apropieri de substanţă între cele două arii culturale: „Când începe dar Nirvana? Acea stare de supremă fericire nu e cu putinţă abia după moarte. Ba chiar e logic şi sigur ca intrarea în Nirvana să se petreacă în timpul vieţii acesteia: în momentul când cel iluminat a dobândit ca mai înaltă cunoaştere. Că această stare este înrudită cu ’suprema cunoaştere’ a lui Spinoza, e mai mult decât sigur”[9].

În ce măsură budismul este impregnat de pesimism (şi cu el, întreaga filosofie asiatică, cum am putea crede în grabă)? Din nou avem un punct de contact spiritual între filosofia europeană şi cea asiatică, devreme ce Vasile Gherasim spune textual: „Această concepţie (budismul – n. n) culminează în cunoaşterea celui mai adânc adevăr şi duce la acea linişte sufletească, la acea seninătate fericită a înţeleptului, care se află desigur mai presus de nivelul vieţii comune. E atâta optimism în această învăţătură cum numai europeanul Nietzsche îl putea avea şi exprima”[10]. Un budism european sau un filosof european (Nietzsche) asiatic? Nimic altceva decât o unitate spirituală mai adâncă, dincolo de exprimările de şcoală care pot învălui în mister această unitate.

Dualismul persan este şi el analizat din aceeaşi perspectivă a posibilelor puncte de contact cu tradiţia filosofică europeană. Pentru dualismul persan, viaţa este identică cu lupta dintre cele două tendinţe opuse, dintre Ormuzd şi Ahriman, dintre creatorul vieţii şi cel al morţii. Dar această luptă între tendinţele opuse este sinonimă cu războiul lui Heraclit, ca tată al tuturor lucrurilor. Biruinţa finală a luminii, a binelui este exprimată de Zarathustra în concordanţă cu ideile ulterioare ale tradiţiei creştine europene.

Filosofia şi tradiţia chineză, la care se referă în continuare, îi par lui Vasile Gherasim mai degrabă „prozaice” şi „seci” din punct de vedere formal. Ele se referă destul de strict la chestiuni care ţin de modul de organizare a binelui în comunitate, în societate. Ideea de ordine stă deasupra tuturor manifestărilor lumii chinezeşti. Un aforism chinezesc al lui Lao-Zi (care predică păstrarea liniştii demnităţii omului activ dincolo de orice limitare) îi sugerează lui Gherasim o tonalitate nietzscheeană, iar altul îl trimite cu gândul la Etica lui Spinoza, ba chiar la o poezie a lui Giordano Bruno![11]

Apropierile dintre spiritul european şi cel asiatic sunt subliniate de fiecare dată metodic. Finalmente, filosofia germană modernă este adusă în proximitatea unei filosofii a vieţii care se manifestă non-dualist, în spirit „asiatic”. Numai o etichetare şi o „învăţare” neconformă cu adevăratul, tradiţionalul spirit filosofic poate să rateze această apropiere de fond dintre „speculaţia” europeană şi filosofia marelui continent asiatic:

„Se poate deci spune că ’raţiunea practică’ a lui Kant a inaugurat filosofia faptei. În sensul acesta, Fichte cu filosofia Eului activ, Hegel cu speculaţia sa filosofică asupra istoriei, Schopenhauer cu morala pesimistă şi (…) Nietzsche cu doctrina sa despre supraomul moral, nu pot fi altfel consideraţi decât ca traducători ai filosofiei lui Kant în domeniul vieţii. Filosofia deveni astfel un fel de organizatoare a vieţii omeneşti (s. n.). Desigur, prin faptul că cei ce o învăţau căutau să pătrundă cu spiritul lor până la temelia vieţii. Aceasta o poate însă face numai acela ce se identifică cu viaţa”[12]. Dar această filosofie a vieţii este sinonimă cu cea a unui mare indian, Rabindranath Tagore, pe care Vasile Gherasim îl citează după o ediţie de opere traduse în limba germană: „Acelaşi fluviu al vieţii ce curge zi şi noapte’n vinele albastre ale mele – curge şi în lume şi-n ritmice cadenţe saltă. Aceeaşi viaţă e care străbate praful încântat al pământescului, în miriadele de ierburi şi se revarsă-n valuri zgomotoase din frunze şi din flori… Aceeaşi viaţă e care-i legănată în leagănul oceanului născării şi al morţii – al fluxului şi al refluxului”[13].

Spre final, concepţia spiritualistă a lui Gherasim se va clarifica într-un registru aproape mistic, care face cu atât mai curajos şi mai atractiv demersul său:
„Schimburile de idei care se fac între Europa şi Asia (…) sunt realităţi concrete; ele nu se pot nega. Desigur, mult mai interesante şi aproape mistice (s. n.) sunt acele înrudiri spirituale care se manifestă însă inconştient, deci neintenţionat şi fără vreo tendinţă oarecare. Existenţa lor întăreşte în mine convingerea că avem de-a face cu o Eurasie, nu numai geografică, ci şi cu una spirituală (s. a.). Şi sunt încredinţat că aceasta este mai reală decât cea dintâi…”[14].

Ideea centrală a acestei sinteze comparativiste (de mici dimensiuni totuşi) este un „vitalism tradiţionalist”[15], tentativă interesantă, din păcate prea puţin urmată ulterior în cultura română. Desigur, originalitatea acestei filosofii a vieţii nu trebuie exagerată, în condiţiile în care Vasile Gherasim este la curent cu sistemul filosofic al lui Dilthey sau cu cel al lui Bergson. Totuşi, chiar beneficiind de deschiderea „asiatică” a culturii germane (el îl citează adesea pe Paul Deussen), în contextul cultural românesc eseul lui Vasile Gherasim trebuie salutat ca fiind absolut merituos. Probabil, dacă ar fi depăşit vârsta mult prea nedreaptă a celor numai patru decenii de viaţă, ideile lui Vasile Gherasim s-ar fi nuanţat şi s-ar fi îmbogăţit, iar literatura noastră filosofică ar fi sporit cu o direcţie de gândire foarte rodnică, cu un comparativism de scară amplă, cu ambiţii pe măsură. Eurasianismul filosofic şi spiritualist al lui Vasile Gherasim e un semnal din trecut pe care cultura română actuală trebuie să-l recepteze şi să-l aşeze în galeria ideilor înnoitoare ale sale. Din punct de vedere cultural general, asumându-ne poate riscul unor comentarii negative, vom spune că unul dintre urmaşii cei mai importanţi ai lui Vasile Gherasim este Mircea Eliade. Ceea ce nu s-a putut constitui pe planul strict al filosofiei de şcoală s-a cristalizat în filosofia profundă, cu accente eurasianiste, a marelui istoric al religiilor[16].

NOTE

[1] Eurasia spirituală. Studiu de filosofie comparată, Cernăuţi, Institutul de Arte Grafice şi Editură “Glasul Bucovinei”, 1931.
[2] Pentru aceste informaţii biografice, am consultat articolul lui Adrian Michiduţă, Vasile Gherasim, teoreticianul filosofiei comparate (http://www.revista-mozaicul.ro/adrian.michiduta513.html).
[3] În 1933 (anul morţii lui Gherasim) Haushofer publica Japonia şi japonezii (Japan und die Japaner), în care celebrul geopolitician german scria: „Acest eseu nu poate fi un expozeu complet de japonologie; este vorba numai despre a prezenta cea mai veche putere, astăzi renovată, a planetei, aşa cum apare ea ca organism viu pe fundamentul condiţiilor sale geografice (…). Această judecată trebuie să derive din ceea ce caracterizează mobilurile permanente ale vieţii poporului, din configuraţia teritoriului, din forma solului, din apele care-l scaldă, din climă şi condiţiile ecologice astfel constituite pentru plante, animale şi oameni (…). Ştim bine că o puternică voinţă umană poate smulge momentan statele şi popoarele din condiţiile lor naturale, dar, cu timpul, aceste condiţii îşi impun din nou dominaţia.” (Am tradus după varianta în franceză a cărţii lui Haushofer, Le Japon et les japonaises, Payot, Paris, 1937, pp. 14-15). Contrar a ceea ce ar părea un determinism geografic nemilos, după părerea noastră în acest pasaj avem mai degrabă un model de gândire, să spunem, de ordin simfonic între condiţiile naturale ale vieţii unui popor şi manifestările sale politice, culturale şi, finalmente, geopolitice.
[4] Vasile Gherasim, Eurasia spirituală, p. 3.
[5] Ibidem, p. 3.
[6] O dihotomie şi mai bine instaurată în vulgata europenismului limitat este aceea dintre libertatea europeană şi lipsa de libertate asiatică. Împotriva acestei false reguli civilizaţionale, a se vedea studiul lui Julius Evola Nodul gordian, în care, criticând viziunea schematică a lui Ernst Jünger despre libertatea europeană şi lipsa de libertate, despotismul şi naturalismul nelimitat asiatic, va scrie, în răspăr cu filosoful german: „Dacă există o civilizaţie care nu doar că a formulat noţiunea de libertate absolută, libertate atât de mare încât tărâmul cerului şi tărâmul Fiinţelor pure apare că o formă de robie, şi care de asemenea a cunoscut o tradiţie tehnică definitivă de a realiza acel ideal, o astfel de civilizaţie este cu siguranţă cea a Estului”. (http://www.estica.eu/article/nodul-gordian/).
[7] Eurasia spirituală, p. 4.
[8] Pierre Hadot a arătat foarte convingător diferenţele dintre modul în care era practicată filosofia în antichitate (ca opţiune de viaţă predeterminată ce condiţiona şi viziunea filosofică în sens de speculaţie teoretică) şi modul în care a fost înţeleasă ea începând din Evul Mediu ca activitate pur speculativă. Despre filosofia actuală, nu cred că mai este nevoie să spunem că este atât de puţin o opţiune de viaţă, încât ea a devenit nu numai necredibilă, dar şi perfect „inutilă” în sens fundamental şi nu doar restrâns pragmatic (căci inutilitatea ei pragmatică ar putea fi semnul unei consistenţe în plan fundamental, de opţiune de viaţă). A se vedea Pierre Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, Gallimard, 1995, în special Cuvântul înainte (Avant-propos).
[9] Eurasia spirituală, p. 19.
[10] Ibidem, p. 20.
[11] Merită încercată această provocare a comparaţiei. Iată aforismul 25 al lui Lao-Zi, citat după lucrarea lui Gherasim: „E o singură putere elementară ordonatoare/ Cauza întregii deveniri, / Neschimbată, pururea aceeaşi, Neapariţiune – / Sieşi cauză, veşnic identică cu sine însăşi / Tendinţa fundamentală prea bună, / Formă a vieţii din care toate îşi iau fiinţă… / Fiindcă nu se poate defini – omul o numeşte cale…”. Versurile lui Giordano Bruno (care nu-l cunoştea pe Lao-Zi) sunt următoarele: „E unul singur cauză din etern; / Din ea tresar mişcare, viaţă – toate / Ce mintea-n cer şi pe pământ socoate: / El Unicul străbate raiu şi infern…” (Eurasia spirituală, p. 26).
[12] Eurasia spirituală, p. 35.
[13] Ibidem, p. 35.
[14] Ibidem, p. 39.
[15] Acest „vitalism tradiţionalist” (sintagmă pe care o considerăm potrivită filosofiei generale a autorului de care vorbim) este afirmat destul de clar, şi nu odată, în lucrarea lui Gherasim. Iată un exemplu: „Filosofia – atât în Asia cât şi în Europa – îşi are cea mai adâncă rădăcină înfiptă şi ramificată în viaţă; şi prin asta dânsa este hrănită de sucurile înviorătoare ale vieţii, tocmai prin faptul înrudirii atât de strânse dintre dânsa şi viaţă” (p. 36).
[16] Catalogarea lui Mircea Eliade ca autor „eurasianist” este unul dintre pariurile (reuşite, spunem noi) pe care Claudio Mutti le-a pus cu cultura română, pe care o cunoaşte atât de bine. Pentru tema propriu-zisă, trimitem cititorul la articolul lui despre Mircea Eliade şi unitatea Eurasiei: http://www.eurasia-rivista.org/mircea-eliade-si-unitatea-eurasiei/7677/.

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LE ELEZIONI IN TURCHIA: UN COMMENTO

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La ripetizione delle elezioni politiche generali ha sancito (si veda la tabella riassuntiva dell’esito elettorale riportata alla fine dell’articolo) un notevole successo del partito di governo AKP, un mantenimento delle posizioni del repubblicano/progressista CHP e un arretramento del nazionalista MHP e del progressista/filocurdo HDP (questi due ultimi partiti però a giugno avevano registrato un consistente incremento dei voti, per cui l’elezione di novembre può rappresentate una sorta di assestamento, e comunque il superamento della soglia del 10 % utile per la rappresentanza in Parlamento).

Non si è trattato della “vittoria di Erdogan” come continuamente i media occidentali ripetono – con quell’abitudine alla personalizzazione dello scontro politico diffusa soprattutto quando si vuole accentuare il lato critico/polemico del commento – quanto soprattutto la vittoria di un governo che – a torto o a ragione – è visto dalla gran parte dei turchi come il più sicuro garante di un ordinato sviluppo e del rispetto di valori tradizionali. La presenza ad esempio di un partito come lo SP (Saadet PartisI), altrettanto attento alla salvaguardia del profilo islamico della società ma con un approccio geopolitico molto più avanzato e coerente, è stata trascurata dagli elettori, fermandosi il movimento di Kamalak allo 0,7 %.

Il tema geopolitico e della posizione internazionale della Turchia non ha avuto pertanto rilievo nella consultazione elettorale, e tutti i problemi suscitati da una sciagurata superficialità nell’affrontare la situazione siriana – vero epicentro della grave crisi vicinorientale – rimangono inalterati.

Quello che gli elettori hanno voluto riaffermare è piuttosto il radicamento in un tipo di società che l’opposizione “laica” non vuole riconoscere, affidandosi spesso a miti occidentali che sono importati ed estranei al sentire comune; in questo senso l’appartenenza religiosa rimane fondamentale e non può essere ridotta a mera scelta individuale – si tratta di una dimensione comunitaria valoriale che una mentalità globalizzata e globalizzante vive con fastidio.

Un voto che in positivo tende dunque a conservare, a mantenere la costituzione profonda di una società, e che in negativo perpetua una gestione della politica internazionale disastrosa e controproducente, sulla quale occorrerebbe una decisa virata di tendenza.

Primo novembre 2015 – I numeri definitivi:

AKP 49,41 % (a giugno 2015: 40,9)
CHP 25,38 % (a giugno 2015: 25,0)
MHP 11,93 % (a giugno 2015: 16,3)
HDP 10,70 % (a giugno 2015: 13,1)
SP 0,7 %
BBP 0,6 %
VATAN 0,3 %
HAK-PAR 0,2 %
HKP 0,2 %
DP 0,2 %
BTP 0,1 %

Risultati a Istanbul: AKP 48,8 % CHP 30,2 HDP 10,2 MHP 8,6
Risultati ad Ankara: AKP 48,9 % CHP 30,5 MHP 14,1 HDP 4,3
Risultati a Izmir: CHP 46,2 % AKP 31,5 MHP 11,3 HDP 8,8 %
Risultati a Diyarbakır: HDP 71,6 % AKP 22,0 % CHP 1,9 MHP 0,8

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L’ARCHIVIO DI “EURASIA”: CINA E IRAN

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CINA

Tiberio Graziani, L’equilibrio del pianeta passa per Pechino, 1/2006, pp. 5-10
Claudio Mutti, Pound contra Huntington, 1/2006, pp. 17-25
Yves Bataille, La Cina e la guerra ventura, 1/2006, pp. 43-54
Aldo Braccio, Panoramica sulla Cina, 1/2006, pp. 55-57
Massimiliano Carminati, La “via cinese al socialismo”, 1/2006, pp. 59-72
Tahir de la Nive, L’Islam e il Tao, 1/2006, p. 73-76
Luca Donadei, L’Impero di Mezzo è già in Italia, 1/2006, pp. 77-84
Enrico Galoppini, Il Celeste Impero e la Mezzaluna, 1/2006, pp. 85-101
Hu Yeping, Dialogo di civiltà fra India e Cina, 1/2006, pp. 103-112
Costanzo Preve, Ritorno a Confucio?, 1/2006, pp. 113-130
Serge Thion, Spazio della Cina e Cina dello spazio, 1/2006, pp. 141-156
Antonio Venier, Il potenziale militare cinese, 1/2006, pp. 157-163
Stefano Vernole, La “spina” tibetana, 1/2006, pp. 165-175
Andrea Chiovenda, Intervista al Gen. Fabio Mini, 1/2006, pp. 185-190
Tiberio Graziani, Intervista a Sergio Romano, 1/2006, pp. 191-195
Dichiarazione di Russia e Cina sull’ordine internazionale del XXI secolo, 1/2006, pp. 247-251
Dichiarazione congiunta della Repubblica Indiana e della Repubblica Popolare Cinese, 2/2006, pp. 239-245
Spartaco Alfredo Puttini, Il Patto di Shanghai, 3/2006, pp. 77-82
Daniele Scalea, Quindici Giugno a Shanghai, 3/2006, pp. 83-90
Stefano Vernole, L’Armata Popolare cinese: un nuovo modello di esercito, 3/2006, pp. 91-98
Aldo Monti, Su François Jullien. Ritornare dalla Cina e ancora… dimenticare, 4/2006, pp. 201-204
Vincenzo Maddaloni, Gli Ayatollah e il Dragone d’Oriente, 1/2008, pp. 165-176
Fabio Mini, L’eredità cinese della guerra fredda: una collana di perle, 2/2008, pp. 167-181
Mauro Minieri, Ai Cinesi piace la creatività, 2/2008, pp. 183-188
F. William Engdahl, L’Africom, la Cina e le guerre congolesi, 3/2009, pp. 103-108
Roman Tomberg, Africa e Cina: presente e futuro, problemi e prospettive, 3/2009, pp. 213-220
Tania Colantone, Cina-Corea del Nord: un’alleanza in declino, 1/2010, pp. 185-203
Augusto Marsigliante, I rapporti sino-africani, 2/2010, pp. 207-211
Konstantin Zavinovskij, Cina e Russia in mezzo agli altri mattoni, 3/2011, pp. 31-37
Marco Marinuzzi, Le relazioni tra i paesi lusofoni e la Cina, 3/2011, pp. 123-132
Andrea Fais, Cina-USA: l’alba di una nuova guerra fredda, 4/2012, pp. 231-238
Luca Favilli, Cina e Africa, 4/2012, pp. 239-252
Andrea Fais, Il Partito Comunista Cinese alla riscoperta del Celeste Impero, 1/2013, pp. 111-124
Ye Feng, L’esercito cinese: una forza di pace, 2/2013, pp. 139-142
Claudio Mutti, Il secolo cinese?, 4/2013, pp. 5-7
Redazione, La Repubblica Popolare Cinese: profilo e risorse, 4/2013, pp. 41-44
Qi Han, La nuova Via della Seta, 4/2013, pp. 45-46
Giuseppe Cappelluti, Ritorno alla Via della Seta, 4/2013, pp. 47-52
Spartaco A. Puttini, La Cina per un ordine multipolare, 4/2013, pp. 53-65
Andrea Fais, La seconda portaerei cinese, 4/2013, pp. 67-77
Alessandro Lattanzio, La triade nucleare della Repubblica Popolare Cinese, 4/2013, pp. 79-85
Giovanni Armillotta, Gli altri partiti politici nella Cina popolare, 4/2013, pp. 87-98
Sara Nardi, La quinta generazione al potere, 4/2013, pp. 99-107
Maria Francesca Staiano, Hukou. La residenza in Cina, 4/2013, pp. 109-115
Stefano Vernole, Myanmar: una partita ancora aperta?, 4/2013, pp. 117-124
Luca Bistolfi, La Cina in Romania, 4/2013, pp. 125-128
Ornella Colandrea, Il turismo cinese del XXI secolo, 4/2013, pp. 129-132
Elena Premoli, Il turismo cinese in Italia, 4/2013, pp. 133-139
Davide Ragnolini, La ricezione di Carl Schmitt in Cina, 4/2013, pp. 141-149
Li Hongwei (intervista), “Global Times”: uno strumento di dialogo, 4/2013, pp. 233-235
Spartaco A. Puttini, Il socialismo dalle caratteristiche cinesi, 2/2015, pp. 11-26
Davide Ragnolini, L’Organizzazione di Shanghai: strumento per un mondo “armonioso”, 2/2015, pp. 27-39
Sara Nardi, “Un’unica Cina, diverse interpretazioni”, 2/2015, pp. 41-47
Sara Nardi, Nuova fase a Hong Kong, 2/2015, pp. 49-53
Marco Costa, Tradizioni culturali e spirituali della regione del Tibet-Xizang, 2/2015, pp. 55-66
Claudio Mutti, Gli Uiguri fra Impero e separatismo, 2/2015, pp. 67-73
Giacomo Gabellini, Xinjiang. La “nuova frontiera”, 2/2015, pp. 75-78
Reg Little, La storia non detta dell’ascesa cinese, 2/2015, pp. 79-87
Reg Little, Il comunismo di Mao, 2/2015, pp. 89-91
Lorenzo Salimbeni, Le nuove vie della seta, 2/2015, pp. 93-103
Vanessa Baselli, Il ruolo della Cina nell’ASEAN, 2/2015, pp. 105-110
Alessandro Gatti, L’accordo sul gas tra Cina e Russia, 2/2015, pp. 111-114
Giuseppe Cappelluti, Come aggirare le sanzioni antirusse attraverso la Cina, 2/2015, pp. 115-128
Stefano Vernole, La Cina e la banca dei BRICS, 2/2015, pp. 129-135
Carmen Nigro, La banca d’investimenti cinese, 2/2015, pp. 137-139
Saro Capozzoli, La muraglia cinese non crolla, 2/2015, pp. 141-144
Loredana Orlando, Le relazioni bilaterali tra Cina e Italia, 2/2015, pp. 145-152
Renata Dalfiume, Il turismo cinese in Italia, 2/2015, pp. 153-156
Uff. Inf. Consiglio di Stato della RPC, La situazione della sicurezza internazionale, 2/2015, pp. 159-163
Uff. Inf. Consiglio di Stato della RPC, Lo scopo della “via mediana” è di spaccare la Cina, 2/2015, pp. 165-174
Uff. Inf. Consiglio di Stato della RPC, Tutela e sviluppo delle culture delle minoranze etniche, 2/2015, pp. 175-180
Uff. Inf. Consiglio di Stato della RPC, Taiwan, parte inalienabile della Cina, 2/2015, pp. 181-184
Uff. Inf. Consiglio di Stato della RPC, Le attuali condizioni della religione in Cina, 2/2015, pp. 185-187
Ugo Spirito, La nuova Cina, 2/2015, pp. 189-191
Chang Hsin-hai, Il professor Arnold J. Toynbee e la “guerra di razza”, 2/2015, pp. 193-198
Giuseppe Tucci, Preistoria tibetana, 2/2015, pp. 199-202

IRAN
Marco Ranuzzi de’ Bianchi, Iran: lo Stato canaglia e il grande satana, 1/2005, pp. 117-126
Gabriele Garibaldi, L’Iran, Il nodo gordiano del Rimland eurasiatico, 2/2005, pp. 17-46
Pejman Abdolmohammadi, La Repubblica Islamica dell’Iran: il principio della Guida Suprema, 3/2005, pp. 9-17
Mahmud Ahmadinejad, Discorso alla Conferenza “Un mondo senza sionismo”, 1/2006, pp. 253-256
Ali Khamenei, L’ayatollah Khamenei condanna il crimine di Samarra, 2/2006, pp. 237-238
Mahmud Ahmadinejad, Lettera del presidente dell’Iran al presidente degli Stati Uniti, 3/2006, pp. 239-247
Vinod Saighal, Lo scontro sulla questione del nucleare iraniano, 4/2006, pp. 219-225
Mahmud Ahmadinejad, Discorso alla 61a assemblea dell’ONU, 4/2006, pp. 249-255
Dagoberto H. Bellucci, Intervista all’ambasciatore iraniano Abolfazl Zohrevand, 1/2007, pp. 219-224
Tiberio Graziani, La funzione eurasiatica dell’Iran, 1/2008, pp. 5-14
Côme Carpenter de Gourdon, Iran, regno ariano e impero universale, 1/2008, pp. 17-32
Claudio Mutti, L’Iran in Europa, 1/2008, pp. 33-50
Pejman Abdolmohammadi, L’Iran tra Reza Shah e Mosaddegh: modernizzazione, nazionalismo e colpo di Stato, 1/2008, pp. 63-79
Roberto Albicini, Il conflitto economico americano con l’Iran. La grande occasione russa, 1/2008, pp. 81-87
Giovanni Armillotta, Iran. Sport ai massimi livelli e riscatto per le donne musulmane, 1/2008, pp. 89-98
Aldo Braccio, La Repubblica Islamica: dati e situazione, 1/2008, pp. 99-101
Aldo Braccio, Spigolature fra Teheran e Ankara, 1/2008, pp. 103-105
Michele Gaietta, La profezia che si autoavvera? Nuclearizzazione del conflitto tra Iran e USA, 1/2008, pp. 107-126
Vladimir Jurtaev, Iran: geopolitica e strategia di sviluppo, 1/2008, pp. 127-134
Alessandro Lattanzio, Lo scudo sciita, 1/2008, pp. 135-151
Filippo Romeo, La borsa del petrolio, 1/2008, pp. 153-156
Filippo Romeo, Geopolitica del petrolio e del gas in Iran, 1/2008, pp. 157-164
Vincenzo Maddaloni, Gli ayatollah e il Dragone d’Oriente, 1/2008, pp. 165-176
Mohamed Fadhel Troudi, Le relazioni russo-iraniane. Un approccio storico, 1/2010, pp. 47-62
Spartaco Alfredo Puttini, La rivoluzione islamica dell’Iran, 1/2010, pp. 249-262
Ali Akbar Naseri, L’Iran e la pace nel mondo, 2/2010, pp. 31-37
Ali Reza Jalali, Che cosa vuol dire Repubblica Islamica?, 2/2012, pp. 117-123
Claudio Mutti, La funzione geopolitica dell’Iran, 2/2012, pp. 175-180

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SIRIA: LA RUSSIA ATTACCA

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A fine settembre sono iniziati i bombardamenti russi contro il “Califfato” e le milizie jihadiste. L’aviazione russa ha colpito caserme e postazioni militari, fabbriche e depositi di munizioni, centri di comando e campi di addestramento. La Russia impiega in Siria il meglio della propria tecnologia militare: dalla base militare di Tartus (Siria), partono i 36 aerei da combattimento della Sukhoi (12 Su-24, 12 Su-25, 6 Su-34 e 6 Su-30) e 12 elicotteri d’attacco (MI 24); a questi si aggiungono i missili da crociera Kalibr, lanciati dalle navi da guerra presenti nel Mar Caspio, che dopo aver sorvolato l’Iran e l’Iraq entrano in Siria e colpiscono gli obbiettivi. L’ambasciatore siriano a Mosca, Riyad Haddad, ha dichiarato che in una settimana di bombardamenti le forze armate russe hanno distrutto circa il 40% delle infrastrutture del sedicente “Stato Islamico” e ucciso centinaia di gihadisti. (1)

Come in tutte le guerre, le sole operazioni aeree non consentono la conquista o la liberazione di un territorio, ma è sempre necessaria un’offensiva terrestre. Per questo motivo l’esercito siriano, appoggiato dalle milizie iraniane e dagli Hezbollah libanesi, sta conducendo un’offensiva terrestre contro le zone occupate dal “Califfato” e dalle milizie takfiriste. Lo scopo dell’offensiva russo – siriana è quello di chiudere il confine turco dal lato siriano, dove arrivano i rifornimenti ai ribelli (ISIS incluso). Tale offensiva sarà più efficace se avrà il sostegno dell’esercito iracheno e dei Curdi.

L’uso di missili da crociera lanciati da navi militari dimostra che l’esercito russo ha le armi e la preparazione che gli consente di sfidare la Nato. I Russi non avevano mai effettuato un attacco missilistico di quella portata dalle loro navi da guerra; mentre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno impiegato in più occasioni i missili da crociera Tomahawk per colpire le truppe serbe nel 1995 e nel 1999, l’Iraq tra il 1991 e il 2003, l’Afghanistan nel 1998 e nel 2001, la Libia nel 2011 e l’ISIS all’inizio della campagna militare della Coalizione.

L’efficacia degli attacchi aerei russi è legata alla stretta collaborazione con l’esercito siriano, che da terra trasmette le coordinate degli obbiettivi da colpire. In questo modo la popolazione è risparmiata; sempre che i terroristi non usino i civili come scudi umani. Gli Stati Uniti adottano una tattica irresponsabile e criminale: l’uso massiccio dei droni e di bombardamenti non supportati da un efficace servizio d’informazione. Per questo motivo i loro bombardamenti hanno provocato migliaia di vittime tra la popolazione civile. L’ultimo “incidente” è del 3 ottobre: l’aviazione americana ha colpito l’ospedale di Kunduz (Afghanistan), provocando la morte di 22 persone, tre delle quali erano bambini. L’intervento russo, pur essendo diverso da quello americano, sta provocando la fuga di migliaia di persone dalle zone di guerra e non è escluso che provochi vittime civili. Questi sono i costi della guerra e per questo dobbiamo evitarla.

L’intervento russo è stato chiesto da Damasco per porre fine a un conflitto che da oltre quattro anni affligge la Siria: 215.000 morti (quasi un terzo civili), circa 3.800.000 profughi (molti arrivano in Europa), danni incalcolabili al patrimonio artistico del Paese, 13 milioni di Siriani ridotti in povertà. (2)
Guerre imperialiste camuffate da crociate umanitarie sono le campagne militari guidate dagli Stati Uniti: Balcani, Afghanistan, Iraq, Libia e Siria. Interventi militari compiuti senza ottenere l’assenso delle nazioni coinvolte, oltre il mandato dell’ONU (la protezione della popolazione civile e la difesa del diritto internazionale) e con lo scopo di abbattere governi ostili agli interessi statunitensi o a quelli dei loro alleati.

La Russia è un Paese serio, non si nasconde dietro la maschera della “crociata umanitaria”. Il suo intervento in Siria persegue obiettivi chiari e precisi: sostenere un Paese alleato fin dai tempi dell’Unione Sovietica; difendere la base Tartus, minacciata dall’avanzata delle milizie gihadiste (punto strategico per assicurare alla Russia il controllo del Medio Oriente e del Mediterraneo); colpire il salafismo armato (migliaia di volontari caucasici combattono in Siria al fianco dell’ISIS e delle altre formazioni analoghe); dimostrare al mondo che la Russia è ancora una superpotenza capace di determinare gli equilibri internazionali. Infatti, in Siria come in Ucraina, si confrontano la Russia e la Nato, affiancate dai rispettivi alleati; la posta in gioco è il controllo dell’Eurasia e la creazione di un nuovo ordine mondiale sulla “grande scacchiera” di Brzezinski (1997).

In Siria la politica degli Stati Uniti è stata un fallimento. La coalizione anti ISIS (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Turchia, Arabia Saudita e Qatar), dopo oltre un anno di bombardamenti e di operazioni militari, non è riuscita a sconfiggere l’ISIS e le altre formazioni armate.

Oggi l’ISIS controlla metà della Siria e un terzo dell’Iraq: un territorio di circa 95.000 chilometri quadrati (poco più grande dell’Ungheria); le sue roccaforti sono Deir al Zour e Raqqa (la capitale) e tiene sotto assedio le città di siriane di Hasakeh, Aleppo, Homs e Hama. (3) In Siria e in tutto il Vicino Oriente, gli Stati uniti e i loro alleati hanno favorito l’ascesa del “Califfato” e delle milizie takfiriste. Come questo sia avvenuto è bene ricordarlo.

– Gli Stati Uniti e i loro alleati sono intervenuti militarmente e politicamente in Iraq, in Libia e in Siria, determinando la caduta dei precedenti governi; il vuoto di potere che si è creato ha aperto le porte all’ascesa dell’estremismo settario.

– Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno finto di combattere le truppe gihadiste e il “Califfato”. Nella guerra contro la Serbia, in due mesi e mezzo, il numero di attacchi aerei degli Stati Uniti, furono sei volte superiori a quelli compiuti in oltre un anno in Siria e Iraq contro il “Califfato” (4).

– Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno fornito armi, munizioni e addestramento militare alle formazioni ostili a Bashar al Assad, senza preoccuparsi di che cosa fossero e cosa volessero. A dicembre 2014 il Presidente Obama aveva richiesto e ottenuto dal Congresso 500 milioni di dollari per addestrare ed equipaggiare 3000 ribelli “moderati” per combattere l’ISIS. Otto mesi dopo, dei 3.000 previsti per il 2015 solo 54 ribelli erano pronti a combattere. Attaccati da Jabhat al-Nusra, furono fatti prigionieri e ora combattono con al-Nusra. I 75 elementi del secondo gruppo si arresero spontaneamente ad al-Nusra, fornendo a quest’ultima sei camion di armi e di munizioni (5). I miliziani dei gruppi salafiti, qaedisti e dei Fratelli Musulmani che militano nell’Esercito della Conquista sono sostenuti dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e dal Qatar. (6) Con l’inizio dei bombardamenti russi gli Stati Uniti non hanno cercato di cooperare con Mosca, ma hanno armato i ribelli anti Assad, con cinquanta tonnellate di munizioni e missili anticarro TOW, destinati a fermare l’offensiva di Damasco e coinvolgere la Russia in un conflitto estenuante come fu quello afghano (7). La coalizione a guida statunitense ha la forza per cancellare il Califfato e tutta la canaglia settaria; ma non vuole farlo, perché il suo obbiettivo è la sconfitta del regime di Damasco.

– La Turchia ha permesso che attraverso i suoi confini passassero migliaia di volontari destinati a ingrossare le truppe del “Califfato” e le milizie settarie; oppure, che prosperasse il contrabbando di petrolio e di reperti archeologici, con i quali l’ISIS si finanzia.

– La Siria, alleata di Mosca e dell’Iran, impedisce agli Stati Uniti di ottenere il controllo del Vicino Oriente.

– La Siria ostacola le ambizioni di potenza regionale della Turchia (la politica “neottomana” di Ahmet Davutoglu).

– La Siria è schierata con la Repubblica Islamica dell’Iran e quindi ostacola il tentativo dell’Arabia Saudita e
del Qatar di imporre l’egemonia wahhabita nel mondo mussulmano.

– La Siria rifiuta il progetto del Qatar di portare in Turchia il gas proveniente dal giacimento South Pars/North Dome (il più grande giacimento di gas del mondo condiviso tra Iran e Qatar). Damasco, in accordo con la Russia e con l’Iran, vuole che lo sbocco del gasdotto sia la costa siriana e dal fondo del Mediterraneo raggiunga l’Europa attraverso la Grecia (8). Questo permette alla Siria di occupare una posizione di forza nel flusso del gas che alimenta l’Europa e di escludere la nemica Turchia dal passaggio del gasdotto.

Ankara, oltre che abbattere il regime di Damasco, vuole impedire la nascita di uno Stato curdo (Kurdistan) tra Turchia, Siria, Iraq e Iran; per questo motivo l’aviazione turca, teoricamente impiegata nella lotta al “Califfato”, bombarda i Curdi.

Israele ha approfittato della crisi siriana per colpire le postazioni di Hezbollah sul Golan; ma non ha voluto farsi coinvolgere in una guerra che potrebbe costargli cara. Per Israele, il “Califfato” e l’eterogenea galassia del terrorismo settario non sono certo un pericolo, ma un sostegno nella guerra contro l’Asse della resistenza e il regime di Damasco. Infatti, i principali nemici di Israele rimangono Hamas, Hezbollah e l’Iran, come dimostra l’attuale intifada palestinese. Discorso analogo vale per il “Califfato” e l’eterogenea galassia del terrorismo (al-Qaida compresa); il loro nemico non è Israele, che ancora non hanno ancora colpito, ma l’Islam ortodosso (sunnita e sciita), i governi “laici” dell’Africa e dell’Asia, le minoranze religiose presenti nei Paesi musulmani e infine l’Europa, che vorrebbero destabilizzare con attentati terroristici e con rivolte.

L’intervento russo ha colto di sorpresa il mondo intero. Le dichiarazioni degli Stati Uniti e dei loro alleati superano i limiti del buon senso e della decenza. Feroci pagliacci che fingendo di combattere il terrorismo e la dittatura, hanno creato il caos nel Vicino Oriente e in Libia. Non soddisfatti di tutto questo, criticano la Russia che il terrorismo lo combatte veramente.

Dichiara Michael Fallon ministro della difesa britannico: «La Russia sta rendendo molto più pericolosa una situazione già molto seria» (9). Sulla stessa linea l’Arabia Saudita, i cui ministri Mohammed bin Salman (Difesa) e Adel al-Jubeir (Esteri) avvertono che l’intervento russo: «avrà conseguenze pericolose», un allargamento del conflitto in tutto il Vicino Oriente (10). In verità, a compromettere la pace nel Vicino Oriente e nel Nordafrica non è stato l’intervento russo, ma la politica criminale e irresponsabile degli Stati Uniti e dei loro alleati.
Sostiene Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato: «La Russia deve cessare di sostenere il regime di Bashar al-Assad», perché l’intervento russo in Siria «non è un contributo positivo alla pace a lungo termine» (11), Il regime di Assad non può essere un partner nella lotta contro il Daesh (acronimo arabo di ISIS). Questo è quanto si legge nelle conclusioni del Consiglio Ue dedicate alla situazione in Siria (12). Chi dovrebbe sostenere la Russia? I gruppi settari sostenuti e tollerati dagli Stati Uniti e dai loro alleati? L’insignificante Esercito Libero Siriano (Free Syrian Army), che combatte per cacciare Assad e non gli eversori settari?

L’FSI conta circa 6.500 uomini, una forza politica e militare incapace di abbattere il regime di Damasco o di garantire l’ordine in Siria. Oggi la caduta di Assad creerebbe un vuoto di potere che trascinerebbe la Siria nel caos e consegnerebbe il Paese al settarismo salafita e wahhabita, come accaduto in Iraq e in Libia (13). Infatti, i ribelli “moderati” non combattono per sconfiggere l’ISIS e le formazioni analoghe, ma per abbattere il regime di Assad. Questo è quanto ha dichiarato il colonnello Riad al-Assad, comandante e fondatore del FSI: «Se vogliono l’esercito libero siriano dalla loro parte, devono darci garanzie sulla deposizione del regime di Assad e su un piano che includa i principi della rivoluzione» (14). Più forti e determinate dell’FSI sono le milizie curde, un esercito di circa 25.000 uomini, che in Iraq e in Siria resiste con coraggio all’avanzata del “Califfato”.
Afferma il portavoce del Dipartimento di Stato americano, John Kirby: «Oltre il 90% dei bombardamenti russi in Siria non sono contro i gihadisti dello stato islamico o di al-Qaida, ma contro gli oppositori di Assad» (15). Di quale opposizione parla Kirby? L’opposizione siriana è una galassia eterogenea di movimenti simili al “Califfato”.

I miliziani che la compongono sono spesso stranieri: il Fronte Islamico è una coalizione di sette gruppi armati di ispirazione salafita, circa 60.000 uomini, in maggioranza Siriani, sostenuti dall’Arabia Saudita e dalla Turchia; l’ISIS conta circa 5.000 uomini, in maggioranza stranieri; il Fronte al-Nusra, l’Al-Qaeda siriana, conta circa 20.000 uomini, in prevalenza stranieri; circa 15.000 sono i miliziani della Brigata Ahfad al-Rasul, sostenuti dal Qatar (16).

Dichiara il ministro degli esteri Gentiloni: «La transizione politica per noi deve portare a un’uscita di Assad» (17). Il rappresentante di un governo privo di autorevolezza e di dignità può solo ripetere quanto deciso da governi stranieri (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) o da organismi sovranazionali come la Troika (B.C.E., F.M.I. e Commissione Europea). Politiche decise da “altri” che andranno a ripercuotersi negativamente sulla nostra situazione politica ed economica: la destabilizzazione della Libia, le sanzioni inflitte alla Russia, le politiche di austerità imposte dalla Troika, la caduta di Berlusconi decisa dalle agenzie di “rating” a suon di “spread”.

Sullo sfondo, una massa d’imbecilli che festeggia Halloween, s’ingozza nei “fast food” di Mc Donalds, insudicia la propria lingua con inutili anglicismi e il 25 aprile s’illude di essere “libera” e “sovrana”. I nostri marò rimangono in India perché un governo di amebe non riesce a garantir loro un giusto processo.

La Nato e i suoi alleati non ci spiegano chi governerà la Siria senza Assad; oggi l’unica forza pronta a sostituirlo sono i settari che lo combattono. Se a sostituire il “leone di Damasco” sarà questa canaglia, avremo una nuova Libia e un altro Iraq; il popolo siriano cadrà dalla padella alla brace. Per questo motivo, è necessario liberare il Paese dalla canaglia settaria e poi svolgere nuove elezioni, destinate a stabilire se Assad dovrà restare al potere o chi dovrà sostituirlo. Il futuro della Siria deve essere deciso solo dal popolo siriano e non da potenze straniere.

Gli Stati Uniti non hanno a cuore il destino della Siria e nemmeno vogliono sconfiggere i terroristi; la loro ossessione è sostituire Assad con un loro fantoccio. Putin sarà ricordato per i meriti di statista, Obama per il colore della pelle.

L’invio di truppe americane in Siria promesso da Obama e l’intensificarsi delle operazioni militari della coalizione avrà effetti disastrosi, se non sarà coordinato con il governo di Damasco e con il comando russo. Il rischio è che le truppe della coalizione si scontrino con quelle russe (vedi le violazioni dello spazio aereo turco da parte dell’aviazione russa) o che Damasco interpreti l’intervento della coalizione come un’invasione, visti i precedenti non avrebbe torto.

Gli Stati Uniti e i loro alleati combatteranno il “Califfato” e le milizie gihadiste solo quando queste metteranno in pericolo i loro interessi, la sicurezza o il prestigio internazionale (come sta accadendo con gli Stati Uniti in Siria); oppure trasformeranno la lotta all’ISIS in uno strumento di consenso elettorale (come ha fatto Sarkozy con la Libia). Fino allora la canaglia settaria sarà libera di massacrare, stuprare e schiavizzare Musulmani e Cristiani, Yazidi e Curdi, Siriani e Iracheni; di distruggere monumenti e reperti archeologici d’inestimabile valore, di portare il terrorismo in Europa.

Il 31 ottobre esplode sul cielo del Sinai un aereo civile russo, un Airbus A321 della compagnia russa Metrojet; le vittime sono 224, tra cui 17 bambini. L’ipotesi più probabile è che si tratti di un attentato dell’Isis, attuato da un terrorista suicida o tramite una valigia bomba. Questi sono i costi che la Russia sta pagando nell’eroica guerra contro la canaglia settaria. Una guerra di civiltà che gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno la dignità e la volontà di combattere.

NOTE

1) Sputnik news: In Siria raid russi efficaci, distrutto in pochi giorni il 40% del potenziale di ISIS”. In:http://it.sputniknews.com/ 7.10.2015.

2) Siria, quattro anni di guerra: 215 mila morti, 66 mila civili. Kerry: «Ora negoziare con Assad». In: http://www.repubblica.it/ 15.3.2015.

3) Daniele Mastrogiacomo e Alfonso Desiderio: Califfato e Kurdistan tra Iraq e Siria. Stato Islamico e curdi cancellano i confini. In: http://www.repubblica.it 25.6.2015

4) Mirko Molteni: Siria: Occidente incerto, la Russia prende il timone. In:http://it.sputniknews.com 4.10.2015

5) Pietro Orizio: Lo “RPG-gate” e il fallimento dei ribelli moderati siriani. In: http://www.analisidifesa.it 3.10.2015

6) I russi attaccano, dagli USA stop al training dei ribelli siriani, 10.10.2015. In: http://www.analisidifesa.it

7) Siria: Le truppe di Assad avanzano nel nord ovest. In: http://www.analisidifesa.it/ 13.10.2015.

8) F. William Engdahl: La Russia punta al petrolio della Siria nel Mediterraneo orientale. In https://aurorasito.wordpress.com 21.1.2014.

9) Siria, Nato pronta a schierare forze in Turchia se necessario. In: http://www.repubblica.it 8.10. 2015.

10) Raffaello Binelli: Dagli USA 50 tonnellate di munizioni anti Assad. In: http://www.ilgiornale.it/ 12.10.2015.

11) La Repubblica 8.10.15 In: http://www.repubblica.it/ultimora/24ore/nazionale/news-dettaglio/4603614

12) Siria, Nato pronta a schierare forze in Turchia se necessario. In: http://www.repubblica.it 8.10. 2015.

13) L’Atlante dell’Esercito Libero Siriano brigata per brigata. In: http://www.limesonline.it 4.5.2012.

14) ISIS, ribelli siriani: «Non entriamo nella coalizione se Usa non combattono Assad». In: http://www.ilfattoquotidiano.it/ 13.9.2014.

15) Siria, la Nato avverte la Russia: «Pronti a intervenire in difesa della Turchia». In: http://www.ilmessaggero.it/ 8.10.2015.

16) Organizzazioni e gruppi armati nella guerra civile siriana. In:https://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazioni_e_gruppi_armati_nella_guerra_civile_siriana#Stato_Islamico_dell.27Iraq_e_Levante_.28ISIL.29 (ultima visita 22.10.2015)

17 ) http://www.firstonline.info/a/2015/10/30/siria-gentiloni-si-a-transizione-inevitabile-uscit/15e96597-e612-481e-a3fd-d5ec08e69ff1

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Alain De Benoist, La fine della sovranità, Arianna Editrice (trad. it.), Bologna 2014

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Alain De Benoist, La fine della sovranità, Arianna Editrice (trad. it.), Bologna 2014.

Il titolo dell’ultimo libro di Alain De Benoist mette sul chi va là chiunque vada in cerca di spiegazioni “facili” dell’attuale crisi in cui versano gli Stati europei. Tutto è da ricondurre al “peccato originale” di questa “Europa”: la fine della sovranità.

È pensabile, si chiede il pensatore francese autore di altri importanti saggi quali Visto da destra, Il male americano, Democrazia. Il problema, L’impero interiore ed altri ancora, un’Unione Europea senza un briciolo di sovranità?

No che non lo è, eppure essa è stata concepita e realizzata da chi, per togliere il potere ai popoli, ha inteso stabilire una ferrea dittatura del denaro.
Mi dispiace ripetermi, specie per chi ha in odio i dejà-vu, ma piuttosto che cercare l’originalità preferisco insistere su un punto essenziale: senza sovranità, tutto il resto è inutile. È una perdita di tempo ed un inganno. Dalla “lotta all’immigrazione” alle campagne per la “moralizzazione” della politica. Dalle battaglie sindacali alle varie trovate del giorno per contrastare la “crisi”.

Questa “crisi”, agita tramite strumenti per l’appunto finanziari, è essenzialmente deficit di sovranità, sotto ogni aspetto. A partire da quella monetaria, checché ne pensino coloro che appena sentono parlare di “moneta” corrono con l’immaginazione agli Ufo e ai Rettiliani, per poi tacciare chi evidenzia l’attuale aberrante politica monetaria occidentale di far parte della nutrita schiera dei “visionari” e “complottisti”.

Il complotto, al contrario, dati alla mano e risultati disastrosi sotto gli occhi di tutti, è proprio quello di ci ha ficcato nella “gabbia europeista”, perseguendo un disegno ideologico nel quale la finanziarizzazione dell’economia è cresciuta esponenzialmente a svantaggio dell’economia reale. Speculazione contro investimenti (p. 29). E produzione per l’esportazione, non per il mercato interno, per prima cosa, come dovrebbe essere in ogni ordinamento normale.

Il processo di globalizzazione nel quale le imprese transnazionali (non “multinazionali”) hanno fatto di tutto per rendere gli Stati impotenti, lungi dall’apportare quei benefici messianicamente decantati per anni dalle élite occidentali, si è tradotto nella trasformazione dello Stato stesso, senza più vera “autorità”, in una macchina tenuta in piedi al solo scopo gestire la repressione ed il controllo dei sottomessi, dissociandosi perciò sempre più dal popolo (pp. 33-34). Un popolo tenuto a credere alla favola del “debito pubblico”, che solo per restare al caso francese sta portando la voce “interessi sul debito” al primo posto tra quelle del bilancio dello Stato. Da qui sempre nuove tasse e nuovi tagli di spesa, in nome del mitico “abbattimento del debito”.

Tutti oramai sanno che “debito pubblico” non è sinonimo di “sacrifici necessari”. Si pensi al Giappone, che ha un debito stratosferico ma essenzialmente nelle mani dei giapponesi stessi. La catastrofe è, semmai, la globalizzazione del debito, cosicché quello negoziabile della Francia è finito in mano per il 68% a stranieri, i quali lo usano come arma di pressione e di ricatto. Con la “legge” – colmo dello scandalo – che proibisce di sapere chi sono per filo e per segno (p. 41)!

In nome di che cosa, e nell’interesse di chi, dunque, i francesi, come gli altri popoli europei, sarebbero chiamati a “tirare la cinghia”?
Con Stati, o meglio simulacri di Stati, ai quali è fatto assoluto divieto di procurarsi autonomamente le somme di denaro di cui hanno bisogno, non sorprende che le cosiddette “agenzie di rating” siano state fatte assurgere al rango di colui che dà la vita e dà la morte. I giornali, oggidì, pubblicano queste “quotazioni” manco fossero gli esami del sangue di entità per la verità dissanguate dalle stesse politiche di “rigore” e di “austerità” che, in una spirale infernale (pp. 59-60), conducono dritte alla fine della sovranità che dà il titolo a questo libro (pp. 44-45).

A suggello della capitolazione totale degli Stati europei, è poi stato architettato il MES – Meccanismo Europeo di Stabilità, ispirato al famigerato Fondo Monetario Internazionale: per non rovinare la sorpresa, s’invitano tutti coloro che si procureranno La fine della sovranità a leggere per prima la pagina 50, davvero sconvolgente.

Roba da togliere il sonno, eppure i “nostri” politici non mostrano segni di turbamento, tanto sono stati cooptati in questo crimine culminante nella svendita delle loro patrie.

Conseguenza logica dei maneggi della grande finanza è lo scippo di ogni politica economica e finanziaria ai singoli Stati (p. 56). Oggi non esiste più la Legge di Bilancio, ma un’anodina Legge di Stabilità.

In queste condizioni, la “marcia verso la miseria” è assicurata (pp. 62-63), con le popolazioni sottomesse a questa gogna che mentre riducono le loro pretese dovranno mostrarsi felici e raggianti per i “conti in ordine”, il “deficit zero”, le “leggi del mercato” ed altre parole d’ordine messe in circolazione da chi ha tutto l’interesse a far credere che esiste una “economia pura” (pp. 70-71).

Alla luce di quanto sta accadendo, si capisce definitivamente la lungimiranza di chi, già oltre un secolo fa, denunciava appassionatamente, inascoltato dai falsi profeti del “proletarismo”, i danni del “capitalismo finanziario”; estrema degenerazione di una tendenza già anormale ad anteporre le istanze economiche al di sopra di quelle politiche e spirituali.

Il tempo, tuttavia, è gentiluomo, quindi darà a tutti la possibilità di constatare come anche la “guerra del sangue contro l’oro” non fosse una trovata pubblicitaria, ma la sintesi di una battaglia metastorica che da sempre viene ingaggiata tra gli usurai, senza patria per definizione, e chi non è affatto disposto a vendersi per un punto di “spread”.

Il dramma, stando a quello che documenta De Benoist, è solo agli inizi, anche se gli autori del “complotto” (quello vero) hanno già portato a segno alcuni colpi decisivi. Il TTIP – Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, il quale è in fondo il frutto del fallimento dell’OMC – Organizzazione Mondiale del Commercio (p. 90), si staglia come l’incubo di una sorta di NATO economica, con l’Europa-mercato a detrimento di un’Europa-potenza. L’incubo finale è ben descritto a pag. 92: un’Unione Transatlantica che dovrebbe produrre un blocco politico-culturale dal Pacifico alla frontiera dell’area d’influenza russa.

Questa famosa “globalizzazione” o “mondializzazione”, si chiede l’Autore, non è forse sinonimo di “americanizzazione”?

Al di là delle definizioni, sempre inadatte a descrivere la complessità della realtà, resta il fatto che non si vede all’orizzonte, all’interno dello spazio euro-atlantico, un soggetto in grado di opporsi decisivamente a quest’esito catastrofico. I cosiddetti “altermondialisti” meno che mai, poiché, vittime dei loro tabù ideologici, “deplorano le conseguenze di cui continuano a coltivare le cause” (p. 112). La “società civile”, l’umanitarismo astratto, i “diritti umani”, “l’individuo”, già oggetto delle passate riflessioni critiche di De Benoist, rientrano nelle storture che andrebbero sanate, e non rappresentano alcuna alternativa praticabile con successo.

Qualche forma di resistenza alla “mondializzazione” può sorgere a livello “locale”, per esempio a livello alimentare, ma è sinceramente troppo poco quando la forza corruttiva del denaro è in grado d’imporre, sulla testa dei popoli, decisioni aberranti eppure osannate da tutto l’apparato politico-mediatico nazionale ed europeo.
Il pericolo della fagocitazione dell’Europa nell’Unione Transatlantica (ovviamente condotta nella massima omertà) mostrerà il suo volto più mostruoso quando l’allineamento normativo interesserà settori quali la giustizia, la sanità, il lavoro: le norme più “liberiste” saranno quelle che avranno la meglio.

E quando i servizi d’urgenza, l’acqua (malgrado gli esiti referendari), gli ospedali, il gas, l’energia elettrica e addirittura il patrimonio culturale (già affidato a “super manager” stranieri) sarà “liberalizzato”, in che mondo vivremo?

Che razza di follia è quella nella quale il “mercato” (cioè le banche) entra nella gestione dei Comuni, delle Provincie, delle Regioni e dello Stato?

Ma attenzione, perché gli Stati Uniti, che sarebbero al culmine di questa tendenza “mercatista”, in base ad una legge del 1933 (guarda caso), hanno solo il 30% dei loro settori pubblici aperti ad imprese estere. Mentre a noi predicano che il “protezionismo” è sbagliato… e che dovremmo “aprire” tutto a tutti.

Ecco, il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. E le bugie hanno le gambe corte. Questo libro di De Benoist è un potente strumento per metterle a nudo e da lì ripartire per riconquistare la nostra sovranità.

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DOPO PARIGI È “GUERRA” ALL’ISLAM? INTERVISTA AD ENRICO GALOPPINI

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Giovanna Canzano ha intervistato per il quotidiano “Rinascita” ed altre testate Enrico Galoppini, studioso del mondo arabo-islamico e redattore di “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”.

 

Parigi il giorno dopo. Il secondo attentato. Ma questa volta è guerra?

Per poter parlare di “guerra” bisogna sapere per prima cosa chi ce la sta dichiarando e a chi la si vuol fare. E qui cominciano i dolori. Perché a sentire le esternazioni dei politici (si noti che il primo in assoluto, prima ancora di Hollande, è stato Obama!) sembrerebbe una guerra dichiarataci dall’Isis, cioè dal “terrorismo islamico”. Ovvero da un generico “terrorismo” e… in definitiva, dall’Islam tout court!

Ora è chiaro che tutto questo rimestare in un minestrone di parole dal quale deve saltare fuori “l’Islam” come “nemico pubblico numero uno” è un inganno spaventoso, oltre che una cosa assurda. Vogliamo fare la “guerra all’Islam”? Ah sì, e allora facciamo la guerra ad oltre due miliardi di persone? Vogliamo dichiararla agli Stati che, ufficialmente, sono più “islamici” di altri? Ma quelli sono gli alleati di ferro dell’Occidente! Intendiamo allearci allora con quegli stati arabi (ed islamici) che combattono da anni il cosiddetto “terrorismo islamico”? Manco per idea, perché gli occidentali han fatto di tutto per sovvertire il governo siriano e gioivano quando in Egitto erano andati al potere i Fratelli Musulmani. Gli stessi inqualificabili e scellerati che hanno distrutto la Libia ed ora si atteggiano a vittime del “terrorismo islamico” e si mostrano disperati di fronte al numero incalcolabile di “profughi” in marcia dalle stesse regioni devastate!

Dunque, per parlar chiaro, non sarà “guerra” con nessuno, o, se lo sarà, si tratterà di una cosa che logicamente non avrà alcun nesso con la pretesa causa scatenante. Un po’ come per l’11 settembre 2001, quando per rispondere ad una “guerra” portata all’America da terroristi per lo più sauditi della famigerata al-Qa’ida (che nessuno ricorda più) è stato invaso l’Afghanistan!

Più verosimilmente ancora, mentre a parole si scateneranno nuove “crociate”, nei fatti avverrà che chi deve “capire” capirà. E si adeguerà al messaggio in stile mafioso portato da questa nuova strage di gente inerme. I cui familiari, sia chiaro, non riceveranno mai alcuna compensazione per il duro colpo subito, esattamente com’è successo a tutte le vittime del “terrorismo” negli anni della “strategia della tensione”… A tutte queste persone non potrà mai essere gabellata per “giustizia” una serie di bombardamenti massicci su chissà quale area del Medio Oriente, ma i nostri cosiddetti governanti, purtroppo, più di questo non sanno o non riescono a fare.

 

L’ISIS avanza in Europa?

L’Isis non avanza in alcun modo perché semplicemente non esiste così come ce lo raccontano. Questo spauracchio serve ad un sacco di cose, tra le quali – non ultima – un’esigenza estrema di tenere lontani gli occidentali dalla spiritualità tradizionale islamica. La quale, come si stanno sforzando di provare anche alcuni rari onesti commentatori che hanno accesso alla stampa più o meno ufficiale, è assolutamente inserita in quel filone sapienziale che origina dalla notte dei tempi e sul quale s’innestano tutte le tradizioni ortodosse. Tra queste ed ogni fenomeno modernista esiste un’inconciliabilità di fondo, perché ogni “riformismo” altro non è che concessione all’errore, anche se a questi sedicenti “fondamentalisti” piace tantissimo affibbiare ai musulmani tradizionali l’accusa di bid‘a (“innovazione”, cioè “eresia”), se non addirittura quella di kufr (“negazionismo”, ovvero il misconoscimento dei fondamentali dell’ortodossia).

L’Islam, nella sua accezione più ampia, ovvero quella di fenomeno anche politico e sociale, ha inoltre molto da insegnare agli occidentali per quanto riguarda problemi che li attanagliano e che non trovano soluzione. Penso a quelli della rappresentanza politica o della corruzione, per non parlare della politica monetaria e fiscale, dato che le indicazioni dottrinali al riguardo sono assai chiare sull’assenza di una moneta emessa “a debito” (o moneta-merce) e la tassazione dei soli patrimoni fermi anziché dei redditi. Gli occidentali, invece, vengono ammaestrati ad impietosirsi per il Charlie Hebdo, solo perché vengono raggirati di continuo e non sanno più distinguere quale abisso di degrado rappresenti certa “libertà di satira”, che peraltro prende di mira i simboli più sacri della tradizione religiosa cristiana. La quale, secondo una certa retorica “neo–crociata”, costituirebbe un caposaldo della “civiltà occidentale”!

In altre parole, gli europei devono smetterla di concepirsi “occidentali” se vogliono ritrovare se stessi e, diciamocelo chiaramente, vivere una vita meno disanimata e più a misura d’uomo. In questo, l’Islam può essere per l’Europa un esempio ed una valida fonte d’ispirazione. L’alternativa è quella di sprofondare nel nichilismo che travolge alla fine anche la stessa religione prevalente, mentre se gli europei riscoprissero una loro religiosità autentica non potrebbero essere stretti nella tenaglia dell’occidentalismo (americanismo) e del fondamentalismo islamico. I quali si affrontano sul ring ma si somigliano parecchio, mentre nel mezzo ci finiamo noi.

 

Quelli dell’ISIS sono strumenti di un ‘meccanismo’ ormai senza controllo?

No no, credo invece che, fatti salvi i sempre possibili “cani sciolti”, questi individui rispondano a precise catene di comando, altro che “fuori controllo”!

Affermare che gli attentatori sono elementi “fuori controllo” significa ammettere che essi colpiscono mossi unicamente dall’“odio per l’Occidente”, il che è esattamente ciò che vuol farci credere la propaganda occidentale stessa. Questi atti terroristici, che seminano morte tra persone intente nelle loro abituali attività, puntano al contrario ad obiettivi studiati molto freddamente. Sono, sotto un certo aspetto, atti di una guerra che, altrove, ha visto e vede ancora famiglie intere straziate da armi sofisticate che fanno meno orrore di una cintura esplosiva solo perché con la tecnologia i moderni hanno un rapporto che li ha resi insensibili ai suoi esiti più distruttivi. A Gaza o a Baghdad, a Kabul o a Beirut, le persone hanno fatto il callo alle bombe che dovevano portare la “democrazia” ed invece hanno solo ampliato i cimiteri ed aumentato il desiderio di vendetta di chi, poi, viene considerato “pazzo” se poi, un giorno, sceglie di fare il “terrorista”.

Il discorso non si esaurisce qui, ma anche questi sono aspetti che andrebbero considerati. Perché non è serio pubblicare prime pagine con titoli come “Israele ha fatto bene” mentre su Gaza piovono razzi da ogni parte e poi fare gli offesi con altri titoli “scandalosi” come l’ormai celebre “Bastardi islamici”. Poi si meravigliano se un giorno qualcuno, esasperato, fa una strage in redazione, ma sinceramente chi s’imbarca in una guerra, anche solo dell’informazione, quando l’informazione è un’arma che fa le sue vittime, deve prendersi le sue responsabilità.

Insomma, un conto è “Charlie Hebdo”, che in un certo senso – se è vero che s’è trattato di un “commando jihadista” eccetera – se l’è cercata, mentre ovviamente dei turisti o degli spettatori d’un concerto non hanno alcuna responsabilità, ed anzi tra essi si potrebbe trovare anche chi è molto critico nei confronti delle stesse dirigenze occidentali che questi “terroristi” vorrebbero punire (mentre ammazzano solo gente innocente).
Tutto questo, ovviamente, non tiene conto della possibilità che in alcuni casi si tratti di totale manipolazione e malafede, perché sotto un “jihadista” che colpisce in una città europea si può celare qualsiasi cosa, tra cui elementi eterodiretti che non sanno alla fine a quale mulino portano acqua e addirittura soggetti che di arabo ed islamico hanno ben poco, tanto nessun tele-suddito saprà mai nulla davvero sulla reale identità degli attentatori (l’11 settembre 2001, sotto quest’aspetto, è emblematico).

 

ISIS solo ‘braccio’ armato dell’Islam, oppure niente di questo?

Al riguardo dell’Isis come ultima incarnazione di una tendenza modernista ed antitradizionale mi sono già espresso in vari scritti, ai quali rimando il lettore di quest’intervista [Il “Grande Medio Oriente” e il momento islamico dello “scontro di civiltà” (il caso italiano); Da Bin Laden al “Califfo”. La guerra finale contro l’Islam (per colpire l’Eurasia); Chi manovra i “modernisti islamici”?]. Non è possibile comprendere questo fenomeno se non lo s’inquadra storicamente (specialmente dalla metà del XVIII secolo) e se non si fa lo sforzo di coglierne l’intima natura “sovversiva” di tutto ciò che è stato l’Islam tradizionale per oltre quattordici secoli. È una china che, con esiti in parte simili, ha vissuto anche il Cristianesimo, con la nascita della cosiddetta “Riforma”, in tutte le sue varie declinazioni. Ovunque essa s’è imposta, fin dall’inizio, ed ovunque si sono affacciati i prodromi di essa, i risultati sono stati “guerre di religione” e una concezione del sacro impoverita e ridotta ad un freddo moralismo, che nell’Islam, così come nel fondamentalismo ebraico, si associa ad un “legalismo” altrettanto freddo e sterile.

 

L’ISIS in Italia? Sono già presenti nel nostro territorio e pronti a tutto?
Questo non lo devo sapere io, ma gli apparati preposti alla sicurezza di tutti e che tra l’altro paghiamo per questo servizio. Con questo intendo anche dire che ogni volta che si verificano gravi attentati come quelli di Parigi sono innanzitutto i servizi di sicurezza e di spionaggio a fare una figura barbina. Capisco che è praticamente impossibile controllare tutto e tutti, ma proprio per questo sarebbe importante smetterla di fare le pulci a cosa scrive un pincopallino qualsiasi su Facebook e concentrarsi su chi, perché e per come entra in un paese. Mentre mi pare che al riguardo la situazione sia parecchio preoccupante, se è vero – com’è stato documentato – che entrano “siriani” con passaporti taroccati che anche dei giornalisti d’inchiesta si sono procurati con una cifra relativamente contenuta.

Quanto ai giovani di famiglie musulmane nati e cresciuti qua, il problema è irrisolvibile, perché ci sarà sempre chi tenderà ad autoghettizzarsi pensando di aver subito, a torto o a ragione, una grave ingiustizia, che risale al momento in cui i suoi genitori o i suoi nonni sono emigrati e che poi è proseguita con una storia di emarginazione e sradicamento. L’emigrazione, volenti o nolenti, si porta dietro anche percentuali di persone che, in un misto di rivalsa e frustrazione, assieme al desiderio di sentirsi finalmente “qualcuno”, abbracciano qualche ideologia – e ribadisco “ideologia” – nella quale la religione è un puro pretesto per sfogarsi.

Certi giornalisti si sbalordiscono nel constatare che un ex “rapper” possa dedicarsi al taglio di teste in nome di un delirante “islam” (la minuscola, qui, è voluta), ma ciò non è affatto strano perché è proprio l’aver reciso i ponti con la tradizione autentica che conduce a certi gravi fraintendimenti, sui quali andranno poi a lucrare gli apparati d’intelligence di mezzo mondo che non vedono l’ora di attivare un “attentato islamico”.

 

Quest’attentato è una svolta?
Non saprei proprio, ma di sicuro qualche decisione la Francia dovrà prenderla, perché non fare nulla significa dare il segnale sbagliato che le si può combinare di tutto. Vede, la Francia è un paese che non è del tutto “occidentale”, nel senso che non è affatto conquistata all’americanismo e al suo modello. Parigi è una “città globale”, e come tutte queste città rappresenta la vetrina nella quale inscenare la finzione di una “classe media globale” che vuole solo divertimenti e bella vita.

La Francia vera la si vedrà presto al voto, quando, se non interverranno manipolazioni e forzature, il Front National, che non è un partito “regionale” come la Lega Nord, sbaraglierà l’attuale pariglia d’inetti. La Francia vera non può digerire a cuor leggero un’abnormità come il TTIP, il trattato di “libero scambio” tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. La Francia vera si ribella contro i matrimoni omosessuali e la cancellazione, dall’alto, dell’identità sessuale.
O la Francia ritrova se stessa, rigetta l’occidentalismo, smette di omaggiare il “Charlie Hebdo” e si rimette ai suoi eroi come Giovanna D’arco, oppure merita di vagolare nell’angoscia indotta da questo “terrorismo” ufficialmente “islamico” ma in realtà senza volto perché così lo vuole chi l’ha coltivato e foraggiato.

Adesso pare di capire che la Francia s’impegnerà di più in Siria. Ma che vuol dire? È dall’inizio che la Francia è intenta a sovvertire la Siria, quindi? Vogliamo credere che questa famosa “terza guerra mondiale” nominata anche dal Papa vedrà da una parte l’Isis e dall’altra tutto il “mondo civile”? Suvvia, sarebbe come credere che una partita di calcio dal risultato incerto si giocasse tra una squadra di amatori e una selezione dei migliori campioni mondiali!
Allora si abbia il coraggio (e soprattutto la creanza) di parlar chiaro e si dica a chi si vuol fare la guerra. La si vuol fare ai paesi islamici che sostengono il cosiddetto “Stato islamico”? E come la vogliamo mettere quando questi stessi sponsor sono partner più che appetiti per fare affari? Per quanto tempo racconteranno la favola della “cellula” composta da “reduci della Siria”? E che atteggiamento vogliamo tenere con il famoso “grande alleato” a sua volta alleato dei finanziatori “islamici” dell’Isis?

 

Gli italiani convertiti all’Islam si sentono in qualche modo vicini all’ISIS?

“Convertiti italiani all’Islam” vuol dire ben poco. Ci sono italiani che si sono avvicinati alla religione islamica vedendovi un ideale di giustizia sociale, e questi sono quelli più “politicizzati”. Non dico che necessariamente debbano sviluppare una visione che conduce ad una simpatia per l’Isis, ed anzi bisogna riconoscere in costoro un forte impegno a migliorare le società nelle quali vivono. Fatto sta che in qualche caso ci sono quelli che tendono a fanatizzarsi ad un punto tale che tutto ciò che non è “islamico” (e cioè non collima con la loro particolare ideologia religiosa) è da sopprimere con la violenza. Tra questi possono allignare gli elementi oggettivamente pericolosi (in combutta con altri immigrati), ma credo che gli apparati di sicurezza li tengano già tutti d’occhio. Così come dovrebbero tenere d’occhio altri ambienti frequentati da teste calde, o, peggio ancora, che si dimostrano “amici” ed “alleati” e poi tramano per crearti continuamente problemi. Ripeto: o l’intelligence lavora nell’interesse del suo paese o è una burla che sta alle calcagna di qualche “imam fai da te” ma non vede che altrove si tessono trame assai pericolose per l’incolumità di tutti i cittadini.

Poi vi sono anche “convertiti italiani all’Islam” che hanno un atteggiamento alieno da ogni politicizzazione e pertanto vivono questa loro esperienza come un’occasione di rigenerazione spirituale. Senza voler dare patenti di “musulmano buono” o “cattivo”, credo di poter dire che quest’atteggiamento sia quello in grado di dare i migliori frutti, perché senza fare troppo clamore agisce come una provvidenziale influenza rettificatrice di un ambiente – quello occidentale – che ha un nemico più insidioso di ogni altro: il nichilismo, che tutti questi “nostri valori” per i quali dovremmo andare a combattere un fantomatico “califfo” non riescono in alcun modo a mascherare.

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I SIGNORI DELLE DUE CINE

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Si è aperto con una stretta di mano in territorio neutro lo storico incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo di Taiwan Ma Ying-jeou, lo scorso sabato 7 novembre. Erano 66 anni che i due fratelli di sponda opposta non si parlavano, da quando cioè le truppe nazionaliste di Chang Kai-shek sconfitte dall’esercito di liberazione popolare di Mao ripararono sull’isola di Formosa. Da allora Pechino considera Taiwan una provincia ribelle, parte integrante e irrinunciabile del territorio cinese. Un disgelo di valenza unicamente simbolica comunque, almeno per ciò che riguarda i temi politici: dall’incontro non emergono dichiarazioni di intesa per un eventuale trattato di pace o un accordo che spiani la strada alla riunificazione. La partita politica si gioca su altri campi. Per Taipei l’incontro è dettato dall’agenda elettorale. Le presidenziali che si terranno a Taiwan nel prossimo gennaio 2016 potrebbero vedere la vittoria del fronte indipendentista (e fortemente critico nei confronti di Pechino) guidato da Tsai Ing-wen, a scapito del Kuomintang, il partito di Ma attualmente al potere ma già notevolmente ridimensionato durante le ultime elezioni amministrative.

Il tentativo del Presidente Ma è chiaramente quello di riguadagnare consensi in patria, accreditandosi come il tutore dello status quo contro un avversario politico che rischierebbe di irritare non poco il gigante sulla terraferma. Dall’altra parte Xi – per il quale i popoli “delle due sponde sono una sola famiglia” – intende sperimentare una variante pacifica al tentativo di influenzare il risultato delle urne a Taipei: invece della vecchia prassi delle esercitazioni militari provocatorie, un incontro al vertice tra i “signori” delle due Cine, come i due uomini politici hanno deciso di chiamarsi reciprocamente evitando l’appellativo di “presidente”, un riconoscimento di sovranità che nessuna delle due parti è disposta ad ammettere.

Per Pechino la motivazione a margine dell’iniziativa diplomatica potrebbe poi riguardare la crescente tensione col principale antagonista alla supremazia cinese nella regione: gli Stati Uniti, i quali avrebbero mal tollerato pressioni militari sul proprio alleato strategico. Le rivendicazioni territoriali e marittime del Dragone Rosso a fronte della sua sete di risorse non lasciano ben sperare gli Stati Uniti. La Cina rivendica il 90% del Mar Cinese Meridionale in contrasto con altri attori regionali, molti dei quali storicamente ancorati a Washington. In caso di conflitto i paesi rivali potrebbero recuperare l’amicizia statunitense in chiave anticinese, sfruttando le rispettive posizioni geostrategiche per fortificare la “prima catena di isole”, una linea di territori, cioè, che si snoda dal sud del Giappone fino al braccio di mare compreso tra Vietnam e Filippine, passando per Taiwan.

Pechino rischia così un blocco navale praticamente invalicabile. Gli Stati Uniti, il più importante concorrente nella zona, avallerebbero una proposta del genere, essendo interessati a preservare il controllo degli spazi comuni (marittimi e aerei) funzionale alla loro supremazia. In un recente tesissimo episodio dell’ottobre scorso la Marina statunitense ha sfidato Pechino inviando un cacciatorpediniere nelle 12 miglia nautiche che la Cina considera acque territoriali intorno alle isole artificiali Spratley, un gruppo di scogli recentemente attrezzati per consentire l’approdo alle forze armate cinesi, ma rivendicati da altri cinque paesi della zona: Vietnam, Malesia, Brunei, Taiwan e Filippine. La soluzione cinese ad un simile scenario risiede naturalmente in primo luogo nella risposta militare.

Negli ultimi anni, se non nell’ultimo decennio, si è infatti registrato un salto qualitativo e quantitativo nella modernizzazione ed espansione delle Forze armate cinesi. In particolar modo il progresso ha riguardato la marina. Oltre allo sviluppo di una notevole flotta di sottomarini, destinata a contrastare la libertà di movimento americana nell’area, la Cina starebbe costruendo due nuove portaerei (attualmente ne ha una di fabbricazione sovietica). Il valore strategico delle portaerei consiste nella loro capacità di aumentare la proiezione della forza oltre le frontiere, elemento indispensabile se Pechino vuole difendere le proprie linee di comunicazione marittime anche in contesti lontani come l’Oceano Indiano. La modernizzazione ha riguardato anche l’arsenale missilistico, cioè missili balistici a medio raggio indirizzati contro le basi americane in Giappone e Corea e missili balistici antiportaerei.

Per il momento la RPC però non rappresenterebbe un concorrente in termini assoluti: nonostante sia la seconda potenza nell’elenco dei bilanci militari più cospicui, il bilancio della difesa cinese è 4 volte inferiore a quello americano, che da solo assorbe le cifre sommate degli otto paesi a seguire. Gli Stati Uniti godono del vantaggio di poter utilizzare basi fuori dalla portata del nemico ma relativamente vicine al teatro di conflitto, come la base di Okinawa o la base di Darwin, riattivata e potenziata proprio nel quadro della strategia del contenimento dell’aggressività cinese enunciata dall’amministrazione Obama nel 2009, il cosiddetto “Pivot to Asia”. Si aggiunga la schiacciante superiorità nel possesso di portaerei che consente alla potenza militare yankee una capacità di proiezione a copertura dell’intero globo. Un deterrente in grado di guadagnare il supporto degli alleati della regione in funzione anticinese, da utilizzare per un valido “southern tier”.

D’altra parte, riconoscendo la superiorità tecnologica dell’avversario, la strategia cinese è tutta orientata ad evitare lo scontro in campo aperto, mirando invece ad interrompere la catena di comando e danneggiando la struttura logistica del nemico preventivamente, praticamente negandogli lo spazio per la battaglia. Oltre a proporsi di raggiungere la superiorità nel cyberspazio, con attacchi all’infrastruttura informativa americana e ai sistemi di controllo satellitare, Pechino si affida all’unico modo che ha di sfidare gli Stati Uniti: sviluppare un’egemonia regionale, a contrasto di quella americana. Il tentativo di ostacolare il predominio americano nella regione, ha prodotto infatti negli ultimi anni un miglioramento delle relazioni sia economiche che politiche con i paesi limitrofi – tra questi Taiwan, per cui la Cina è il primo partner economico – attraverso negoziati commerciali, grandi investimenti e la creazione di una nuova istituzione finanziaria tutta asiatica.

Una distensione economica che ha dato vita al Free trade area of the Asia Pacific (Ftaap), un’area di libero scambio che copre metà del commercio e dell’economia globale, la risposta cinese cioè alla Trans-Pacific partnership (Tpp), la componente economica del “Pivot to Asia”. La versione cinese della politica di buon vicinato trova attuazione però prevalentemente in ambito economico, mentre a livello politico le dispute territoriali permangono a incrinare i rapporti con “l’estero vicino” e l’escalation militare rimane uno scenario contemplato.
Il processo di ricongiungimento di Taiwan alla madrepatria rimane uno degli assi principali della politica estera cinese. Dato il quadro generale e i molteplici interessi coinvolti nell’area, è difficile immaginare un cambiamento nei rapporti tra le due Cine senza che esso coinvolga prevedibilmente la reazione statunitense, motivo per il quale, nonostante storici eventi come quello del sabato scorso, la questione rimarrà per molti decenni a venire sostanzialmente insoluta. Da incontri di questo tipo sono volutamente esclusi temi di carattere politico: l’interesse è da una parte agitare lo spettro di Pechino per mantenere il potere sull’isola, dall’altra preservare l’attuale status quo in maniera da guadagnare tempo e riassorbire nella maniera più pacifica possibile l’isola.

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“SIAMO SOLO ALL’INIZIO” – INTERVISTA A PADRE JEAN MARIE BENJAMIN

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D. – Padre Benjamin, dopo aver analizzato la situazione del Vicino Oriente già nel 2002 con il suo primo libro “Obiettivo Iraq”, ora torna ad occuparsi dell’Iraq, che pare quasi dimenticato dai media occidentali, questa volta però con uno sguardo approfondito anche sull’Isis. Partendo dai tragici fatti di Parigi, dove nel giro di poche ore circolavano già indiscrezioni sui presunti autori che avrebbero fatto capo all’Isis, lei che idea si è fatto al riguardo di questo attacco avvenuto con modalità quasi militari?

JMB – In realtà Obiettivo Iraq è il secondo libro che ho pubblicato. Il primo è uscito nel 1999 ed era il primo libro pubblicato in Europa che denunciava l’utilizzo di armi all’uranio impoverito. Il terzo è stato pubblicato in Francia nel febbraio 2003 a un mese dell’intervento americano in Iraq. Quest’ultimo, Iraq – L’effetto boomerang è il quarto. Questo libro è uscito lo scorso aprile in Francia e a settembre ne è stata pubblicata l’edizione italiana da Editori Riuniti. Ho finito di scriverlo lo scorso gennaio e ho dedicato diverse pagine al rischio che avrebbe corso la Francia con la politica di François Hollande. Anzi, non ho esitato a parlare di futuri probabili eventi in prospettiva, che si sono tragicamente confermati la scorsa settimana a Parigi.
Mi chiede che idea mi faccio al riguardo degli eventi di Parigi di sabato scorso? Non mi faccio un’idea, constato, come dice il proverbio, che “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Fare tre milioni di morti in Iraq dal 1991 ad oggi, torturare migliaia di iracheni nelle prigioni, fare migliaia di vittime in Libia, mettere questi paesi nel caos e nelle mani degli islamisti e poi chiedersi perché sono arrabbiati contro di noi, è fantastico.

D. – L’Isis, punta di lancia della destabilizzazione nel Vicino Oriente e magari anche dell’Europa, oppure movimento integralista islamico? Come e perché è nato e chi ne muove le fila?

JMB – Abu Bakr al-Baghdadi. Nel 2003, all’indomani dell’occupazione americana, passa al gihad e adotta il suo primo nome di guerra, Abu Duaa, in seno ad un piccolo gruppo armato – Jaish al Sunna wal Jamaa – prima di raggiungere le file di Al-Qaeda, allora guidata dal giordano Abu Musab al-Zarqawi. Il 25 ottobre 2005 Abu Bakr al-Baghdadi è bersaglio di un attacco aereo americano avente come obiettivo un presunto covo di gihadisti vicino alla frontiera. Sfugge al bombardamento. Identificato con il nome di Abu Duaa, è descritto come uno dei più alti responsabili del ramo iracheno di Al-Qaeda. In particolare è incaricato dello spostamento in Iraq dei combattenti siriani e sauditi. Nello stesso anno, viene arrestato dalle forze americane in un’operazione congiunta con le forze irachene. Passa poco più di quattro anni nel campo di prigionia di Bucca – uno dei campi in Iraq in cui i soldati americani hanno sottoposto i prigionieri a terribili torture, come ad Abu Ghraib. Sorprendente: nel 2009 Abu Bakr al-Baghdadi viene rilasciato! Un comunicato del consiglio consultivo dello “Stato Islamico” d’Iraq annuncia la sua nomina al posto di Abu Omar al-Baghdadi, ucciso il 18 aprile 2010, in un’operazione congiunta delle forze di sicurezza americane. L’avvicendamento è assicurato. L’America non deve temere di ritrovarsi senza nemico. Alla fine del 2010 lo “Stato Islamico” d’Iraq, sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi intensifica gli attacchi contro bersagli del governo e delle forze di polizia irachene con una serie di attentati. Il 31 ottobre 2010, vigilia di Ognissanti, una presa d’ostaggi nella cattedrale di Baghdad si conclude nel sangue, provocando la morte di 46 fedeli, tra cui due sacerdoti e sette poliziotti. Il 3 novembre 2010, lo “Stato Islamico” d’Iraq rivendica la responsabilità del massacro. Il 9 maggio 2011, in un comunicato, Abu Bakr al-Baghdadi annuncia la sua alleanza con Ayman al-Zawahiri, il successore di Osama Bin Laden, ucciso il 2 maggio 2011 a Bilal, alla periferia di Abbottabad, in Pakistan. Al-Baghdadi conferma la fedeltà dello “Stato Islamico” d’Iraq alla direzione generale di Al-Qaeda, giurando vendetta per il suo capo. Abu Bakr al-Baghdadi è inserito nella lista dei terroristi più ricercati dal governo americano, che offre un premio di dieci milioni di dollari per la sua cattura (ufficialmente, visto che fine ad oggi lo sostengono con armi e soldi). È abbastanza singolare: prima lo si rilascia, e poi vengono offerti dieci milioni di dollari per riprenderlo, ma in realtà lo sostengono. Fino ad oggi, perché le cose fanno cambiare. Fonti provenienti dal Medio Oriente e dal Maghreb confermerebbero le rivelazioni dell’ex impiegato dell’Agenzia Nazionale di Sicurezza americana, Edward Snowden. Snowden aveva rivelato che i servizi di informazione britannico e americano, come anche il Mossad, avrebbero collaborato per la creazione dello “Stato Islamico in Iraq e nel Levante”. Snowden ha indicato che i servizi segreti di tre paesi, Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele, hanno collaborato con lo scopo di creare un’organizzazione terrorista che fosse in grado di attirare gli estremisti islamisti sparsi nel mondo verso un solo luogo: “l’unica soluzione per proteggere Israele è creare un nemico vicino alle sue frontiere”. L’operazione è chiamata “nido di calabroni”. Secondo Snowden, Abu Bakr al-Baghdadi avrebbe seguito una formazione militare intensiva, della durata di un anno, sotto la guida del Mossad. Questa versione assicurerebbe lo scenario di un film hollywoodiano, ma è molto probabile che in realtà il nostro futuro “califfo” sia stato semplicemente rilasciato per errore, e che il nostro uomo abbia senz’altro fatto il doppio gioco. Ora, quando commettono un errore, né la CIA né il governo americano lo dicono ad alta voce.

D. – Nel suo libro ne descrive l’organizzazione, il reclutamento, la logistica, nonché il motivo per cui dei giovani europei si arruolano nelle sue file. Ce ne può parlare?

JMB – Molti si chiedono come mai le popolazioni arabe sono “irritate” con l’Occidente. Irritate è una parola leggera. Io direi: sono indignate e disgustate dall’arroganza e dalla violenza degli interventi militari dell’Occidente. In Iraq, ad esempio, la popolazione è massacrata dalle bombe americane dal 1991, con centinaia di migliaia di vittime. A ciò si aggiungono le torture per le persone recalcitranti alla democrazia, e a tutto questo si aggiungono ancora centinaia di crimini commessi sul territorio iracheno dai soldati americani, gratuitamente, senza ragione (si possono vedere su Youtube soldati americani sparare da un elicottero su civili innocenti, o sparare su un’auto che passa e sterminare un’intera famiglia solo per divertirsi). Ci sono, poi, le “prodezze” della Blackwater (che ha proprio il nome giusto) e i crimini sulla coscienza dei suoi membri, soldati di una tale barbarie che in confronto a loro i tagliagole dello “Stato Islamico” fanno la figura dei chierichetti. Che non si capisca come mai le popolazioni arabe sono furiose contro di noi è abbastanza sconcertante. L’Occidente, che ha creato lo “Stato Islamico” e Al-Qaeda, non capisce come mai tanti giovani, da “casa nostra”, oggi, vogliano combattere al loro fianco. Leggo nella stampa un gran numero di articoli sugli aspiranti gihadisti in Francia e in Europa, giovani ragazzi e ragazze disposti psicologicamente e fisicamente ad andare a combattere per e con lo “Stato Islamico”. Ci si interroga su un fenomeno che non risparmia alcuno strato sociale. Non si comprende. Si parla persino di creare dei centri di deradicalizzazione per riportare questi giovani sul retto cammino. Per capire, bisogna arrendersi all’evidenza che in Francia e in Europa da qualche anno è in corso uno strappo, una frattura tra Stato e Nazione; una rottura tra una gran parte della gioventù, della popolazione in genere e le istituzioni. Bisogna comprendere che le popolazioni sono disgustate, stanche di essere prese in giro, di essere manipolate e ingannate dalle menzogne dei governi e degli uomini politici, dalle democrazie della guerra contro chi non è con noi. La democrazia è una maschera dietro cui viene nascosta la realtà di atti odiosi, la corruzione, la menzogna, la prevaricazione, l’arroganza della forza militare ed economica che vuole imporre la sua legge a chi non condivide la stessa ideologia né gli stessi interessi. In realtà, questi giovani arabi musulmani francesi (ma anche cristiani francesi) sono disgustati dal sentire i capi politici scandire discorsi con la dialettica della “libertà”, dei “diritti umani”, delle “guerre preventive” delle “guerre contro il terrorismo”, per giustificare i bombardamenti sulla popolazione dell’Iraq, della Siria o di Gaza, dove muoiono milioni di persone. Si ha un bel dire “giovane arabo con passaporto francese”, il DNA è rimasto arabo. Quando un giovane arabo francese, inglese, americano o olandese ha un genitore, un fratello o una sorella o anche un amico, che muore in Iraq, in Siria, in Libia o altrove sotto le bombe di George Bush, Tony Blair, François Hollande o David Cameron, non bisogna aspettarsi che venga a ringraziarci. Si può cercare di far cambiare una mentalità, ma non si possono cambiare il DNA e le radici nazionali. Per molti di questi giovani, l’Occidente, con le sue democrazie, corrisponde al diritto di dominare dei popoli, di colonizzarli o distruggerli nel caso non si sottomettano. Non sono i giovani che vogliono partire per il gihad che bisogna curare, ma la sindrome della menzogna, dell’inganno, della sufficienza e dell’ipocrisia degli uomini politici. Indubbiamente non è questo l’unico fattore che determina i giovani francesi o europei a schierarsi al fianco dell’Isis, ma è un fattore da non sottovalutare.

D. – Che ne pensa dell’intervento russo a fianco della Repubblica di Siria contro l’Isis?

JMB – Questa è la faccenda più straordinaria, unica nella storia dell’umanità. Sono quattro anni che il presidente francese François Hollande fa dichiarazioni settimanali contro Bashar al-Assad, il presidente siriano. Quando al-Assad dichiarava che stava facendo la guerra ai terroristi, Hollande e i suoi compagni alleati rispondevano che era propaganda, che non era vero, che il terribile dittatore massacrava il suo popolo ecc. Si sono messi al fianco dell’ISIS contro Assad. Risultato: oggi l’ISIS ha conquistato la metà della Siria. Francia, Inghilterra, America e altri alleati hanno appoggiato, direi anche corposamente sostenuto lo “Stato Islamico” di Abu Bakr al-Baghdadi, pensando che l’organizzazione del califfato avrebbe fatto fuori al-Assad. Dunque, pieno appoggio all’ISIS da parte dell’Occidente. Interviene allora un evento inaspettato: Vladimir Putin, dopo aver ricevuto una sberla dall’Europa e dagli Stati Uniti con l’embargo ed essere stato trattato da dittatore (e ben altro) dai media occidentali, organizza la sua piccola “rivincita” e manda le forze armate russe in Siria dicendo: “Volete, voi occidentali, liberarvi dell’ISIS che avete sostenuto fino adesso? Non preoccupatevi, ci penso io”. Risultato, oggi per l’America, Francia, Inghilterra e alleati non serve più sostenere l’ISIS, allora entrano in guerra al fianco di Bashar al-Assad e di Putin. Fantastico, no?! Credo che raramente la Francia abbia fatto una brutta figura simile con la sua politica estera. Prima a testa bassa contro al-Assad e Putin, oggi al loro fianco contro l’ISIS. Se fanno fuori i salafiti dell’ISIS sostenuti dall’Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati, l’Occidente comincerà ad avere seri problemi con questi paesi. Siamo solo all’inizio.

D. – Padre Benjamin, l’Iraq è una nazione cui Lei ha dedicato molte energie, raccogliendo innumerevoli dati per denunciare fin dalla prima Guerra del Golfo la tragedia del popolo iracheno e le sue innumerevoli sofferenze. Come e perché si è giunti al conflitto del 2003? Inoltre, prima di parlare della politica, vorremmo sapere quali sono oggi le condizioni di vita, economiche, culturali di quello che fu lo Stato guidato da Saddam Hussein.

JMB – Prima del marzo 2003, nell’Iraq di Saddam Hussein le donne che occupavano posti di responsabilità ai più alti livelli dello Stato erano in più alto numero che in qualsiasi altro paese arabo. Portare il velo non era obbligatorio. All’università di Baghdad, la maggior parte delle ragazze non lo portava, ho varie riprese che lo documentano. Le borse di studio erano per tutti, qualsiasi fosse l’origine sociale o la religione. L’accesso alla sanità era gratuito. Le autostrade erano le più belle e le più lunghe tra tutti i paesi arabi. I negozi cristiani potevano vendere alcool e non vi erano guerra né attentati tra sciiti e sunniti. I cristiani erano protetti e rispettati e il primo ministro Tareq Aziz era il solo primo ministro cristiano di un paese arabo. Oggi non ci sono praticamente più donne al governo o a capo di istituzioni. Devono di nuovo portare il velo e, nel sud, il velo integrale. Non c’è bisogno che l’accesso alla sanità sia gratuito, dal momento che non esiste praticamente più. Le autostrade non sono mantenute. I negozi cristiani sono stati obbligati a chiudere o comunque a non vendere più alcool; chi si è rifiutato ha subito attentati. La situazione tra sunniti e sciiti è odiosa. Infine non solo non c’è più un primo ministro cristiano al governo a Baghdad, ma i cristiani fuggono e abbandonano il paese. La distruzione della civiltà irachena è stata sistematicamente organizzata in modo da sradicare la memoria storica del paese, origine della nostra stessa civiltà, con la distruzione di uno dei musei più prestigiosi al mondo, quello di Baghdad – che custodiva pezzi unici datati più di 7000 anni -, l’incendio della Biblioteca Nazionale, la distruzione del sistema scientifico e culturale più avanzato di tutto il mondo arabo. Da marzo a settembre 2003, in soli 6 mesi, più di 310 scienziati iracheni sono stati uccisi. Per non parlare dell’Università di Medicina di Baghdad, che prima dell’occupazione americana era la più prestigiosa del Medio Oriente. Ho largamente descritto, nelle mie precedenti opere sull’Iraq, i disastri e i danni arrecati alla popolazione irachena dagli effetti delle armi all’uranio impoverito e delle armi chimiche utilizzate dalle forze anglo-americane, aventi come conseguenza l’esplosione di mostruose malformazioni infantili, l’aumento di cancri e patologie del sistema immunitario, che colpiscono un’importante parte di popolazione. Le democrazie occidentali, avvolte nei loro “diritti dell’uomo”, cancellano troppo facilmente la memoria storica di disastri, crimini e genocidi di cui sono responsabili. Dubito che nei libri di storia si insegni ai giovani studenti la verità su cosa era l’Iraq prima del 1990 e prima del 2003, su cosa questo paese è divenuto oggi e sulle responsabilità di questo disastro. Per parlare solo dell’Iraq. Si tratta di forgiare bene mentalità e coscienze, dalla più giovane età, a scuola, nell’indottrinamento al fondamentalismo laico e ai valori – e metodi – della Democracy Export.

D. – La popolazione, oltre alle innumerevoli perdite dovute agli scontri a fuoco, subisce ancor oggi quello che si potrebbe definire un lento sterminio di massa, dovuto all’uranio impoverito disperso nell’aria, nella terra e nell’acqua dalle esplosioni dei proiettili usati dalle nazioni della coalizione occidentale, al pari dei civili serbi, afghani, somali, bosniaci e dei tanti militari della Nato. Ci può parlare dei crimini di guerra commessi dalle forze statunitensi?

JMB – Ho dedicato numerose pagine del mio libro alla questione dei crimini di guerra degli americani in Iraq. Voglio solo ricordare questo: nel 1999 l’UNICEF ha pubblicato il suo rapporto annuale sulla situazione dei bambini nel mondo, questa volta interamente dedicato ai bambini in Iraq sottoposto all’embargo. Dal rapporto risulta che in Iraq l’embargo provoca la morte di un numero compreso tra i 5000 e i 6000 bambini al mese, circa 600.000 in undici anni. In occasione di una conferenza stampa, la Segretaria di Stato americana, Madeleine Albright, era stata interpellata da un giornalista: “L’UNICEF ha dichiarato che circa mezzo milione di bambini sono morti a causa dell’embargo. Si tratta di un numero di bimbi morti più elevato che a Hiroshima. È questo il prezzo da pagare?” Madeleine Albright ha risposto: “È una scelta difficile, ma ne vale la pena”. La morte di 600 000 bambini iracheni… certo, non sono bambini americani, ne vale la pena. Quando si sente il Segretario di Stato americano rilasciare dichiarazioni così orribili, mentre questa gente si riempie la bocca con parole quali “democrazia”, “diritti dell’uomo” e pretende di dare al mondo intero lezioni di morale, c’è di che restare irritati e indignati. Queste dichiarazioni non li turbano, ma li turba la barbarie dello “Stato Islamico” quando quest’ultimo viene a fare vittime a casa nostra. Circa la questione dell’uranio impoverito, sono intervenuto al riguardo due volte presso la Commissione dell’ONU per i Diritti umani, al parlamento inglese, presso la commissione Affari Esteri della Camera; nel 2000 Sergio Mattarella mi ascoltò a lungo, al ministero della Difesa, in relazione alla questione delle armi all’uranio impoverito. Inoltre, mi ha ultimamente inviato una lettera personale manoscritta, nella quale ricorda il nostro incontro. Anche Romano Prodi mi ha personalmente scritto di recente. Circa la questione degli effetti dell’uranio impoverito sulla popolazione irachena, l’argomento è troppo vasto per essere trattato qui. Propongo ai nostri lettori di consultare i miei libri e altri libri scritti da competenti autori, nonché di visitare il mio sito: www.jmbenjamin.org

D. – Chi governa attualmente l’Iraq e in che consiste la politica interna ed estera dello Stato iracheno?

JMB – Guardi che per rispondere a questa domanda si potrebbe scrivere un libro intero. Per sintetizzare, attualmente non c’è governo a Baghdad. Quello che chiamano il “governo di Baghdad” è stato messo dagli Stati Uniti, è un governo fantoccio. Chi governa quello che resta dell’Iraq sono i clan, le tribù, gli iraniani, gli americani, soprattutto dopo la firma dell’accordo con l’Iran.

D. – Lei pensa che si arriverà ad una normalizzazione nell’intera regione, prima o poi? E in che modo sarebbe possibile e auspicabile?

JMB – No. Oramai non potranno più fermare il mostro che hanno creato. Anche se riescono ad eliminare lo “Stato Islamico” in Siria e in Iraq, mi sa dire come faranno a eliminare l’ISIS, al-Qaeda, al-Nusra e altre circa 60 organizzazioni islamiste presenti in oltre 50 paesi, in Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco, Yemen, Mali, in Africa, in Oriente, in Asia e… in Europa?

* Jean-Marie Benjamin, francese, in Italia da oltre trent’anni, è stato ordinato sacerdote nel 1991. Già funzionario Onu, è presidente del “Benjamin Committee for Iraq”, membro della “Société des gens de Lettres de France” e segretario generale della Fondazione Beato Angelico. Impegnato dal 1997 nella denuncia della tragica situazione del popolo iracheno, ha realizzato tre documentari: Iraq: Genesi del Tempo(1988), Iraq: Viaggio nel regno proibito (1999) e Iraq: Il dossier nascosto (2002). Ha pubblicato Iraq, trincea d’Eurasia presso le Edizioni all’insegna del Veltro (2002).

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INTERJÚ VONA GÁBORRAL

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Az interjút az olasz „Eurasia. Rivista di studi geopolitici” című szemle igazgatója, Claudio Mutti, készítette a Jobbik Magyarországért Mozgalom elnökével. Az olasz fordítás “Eurasia”-ban meg fog jelenni.

Claudio Mutti – Az Ön által vezetett párt, vagyis a Mozgalom egy Jobbik Magyarországért, képezi a legfontosabb politikai erőt az aktuális kormánnyal szemben. És mégis a Jobbik támogatta Orbán Elnök Urat a migránsok és menekültek ügyében. Megmondaná-e, hogy mi a Jobbik párt legfőbb pozíciója ebben az ügyben és miben különbözik a kormány pozíciójával szemben?

Vona Gábor – Valóban a Jobbik Magyarországért Mozgalom jelenleg a legerősebb ellenzéki párt és minden jel arra mutat, hogy a 2018-as magyar parlamenti választásokkor mi leszünk a jelenleg kormányzó Fidesz legfőbb kihívói. Az elmúlt időszakban számos időközi választáson arattunk győzelmet a kormány jelöltjei fölött, illetve különösen nagy büszkeséggel tölt el, hogy pártom a jövőt jelentő 35 évnél fiatalabb szavazó állampolgárok és egyetemisták körében is a legnépszerűbb. Mindig büszkék voltunk arra, hogy képesek vagyunk függetleníteni magunkat a pártérdekektől, ha a haza helyzete azt kívánta. A migrációs krízis is egy ilyen súlyos probléma, ahol félre kell tenni a pártok közötti érdekellentéteket. Ha a kormány olyan lépéseket tesz az ügy megoldása érdekében, melyekkel a nemzet érdekeit szolgálja, akkor a Jobbik támogatni fogja. A kerítés kérdésében, az illegális határátlépés jogszabályi kereteinek szigorításában és a honvédség határhoz rendelésében mindannyiszor támogattuk a kormányt a Parlamentben. Mi sem bizonyítja jobban, hogy mi is ebben látjuk a megoldás kulcsát, hogy már ez év januárjában, amikor még senki se foglalkozott migránskérdéssel az egyik magyar – szerb határ menti városnak, Ásotthalomnak a jobbikos polgármestere, Toroczkai László javasolta elsőként a magyar-szerb határszakaszon a kerítés megépítését a közelgő veszélyre való tekintettel. A mi álláspontunk szerint mindenkit, aki illegálisan közelíti meg határainkat vissza kell fordítani, hiszen mindig is meg volt a legális módja a menekültkérelmek beadásának. Erre most is van lehetőség, megengedhetetlen, hogy emberek segítségért jönnek állítólag Európába és közben folyamatosan sárba tiporják törvényeinket, szabályainkat. Jelenleg a kormánnyal együtt elfogadhatatlannak tartjuk az egységes európai kvóta bevezetését, bár a Fidesz álláspontja annyiban eltér, hogy ők egy világkvótát tartanának megoldásnak. Számunkra ez is elfogadhatatlan, hiszen vigyék el a felelősséget azok a migráció miatt, akik destabilizálták a Közel-Keletet és Észak-Afrikát, illetve, akik felelőtlen politikájukkal behívták ide a jobb élet reményében útra kelt megélhetési bevándorlókat. Egy másik ennél erősebb különbség a mi és a kormány álláspontja között a migrációs kérdésben, hogy míg a kormány a határok védelmét a rendőrséggel és a honvédséggel végezteti el, mi szükségesnek látnánk, hogy visszaállítsuk az évekkel ezelőtt az Európai Unió nyomására megszüntetett határőrséget, hiszen minden rendvédelmi szervezetnek a maga kompetenciájába tartozó feladatokat kell ellátnia.

Claudio Mutti – A harvardi egyetemen készült egyik tanulmányban a szerző “mesterségesen felépített migrációk”-nak (coercive engineered migrations) nevezi azokat a népi mozgalmokat, amelyeket teljesen tudatosan teremtenek, illetve manipulálnak, hogy nyomást gyakoroljanak bizonyos államokra. Nem tartja-e valószínűnek, hogy ugyanebbe a kategóriába tartoznának az aktuális migrációs hullámok is?

Vona Gábor – Véleményem szerint a történések folyamatait tekintve egyértelmű, hogy a német politikai elit tudatosan invitálta be a bevándorlók sokaságát Európába, azon belül is főként Németországba. Ennek a magyarázata az, hogy a dinamikusan dübörgő német gazdaság komoly munkaerő hiánnyal küzd, melyet a tagállamokból bevándorolt európai migránsokkal már nem tud pótolni, ezért szüksége van nagy mennyiségű olcsó munkaerőre, ezt ők a közel-keleti és afrikai migránsoktól várják. A német érdekeket félretéve az is teljesen egyértelmű, hogy ez a népvándorlásba átcsapó folyamat Európa fennmaradását veszélyezteti, illetve komolyan gyengíti a világban betöltött szerepét. Sokak örömére szolgálhat, hogy gyengülésével párhuzamosan csökkenhet a gazdasági vetélytársi státusza a nagyhatalmakkal szemben.

Claudio Mutti – Ön szerint az Európai Unió miért nem támogatta Magyarországot, hogy megvédje saját határait, amelyek jó részben egybeesnek az úgynevezett schengeni térséggel?

Vona Gábor – Azt látni kell, hogy az Európai Unió vezetése és a nemzetállamok vezetései között, mint ahogy sok más kérdésben is, itt is hatalmas ellentét van. Magyarország migrációs politikáját nem szemlélte mindenki olyan kritikusan Európában, így a csehek, szlovákok, részben a britek és spanyolok is támogatták a magyar védekezési mechanizmust az illegális határátlépés megakadályozására. A magyar intézkedések még mindig egyedülállóak, bár sokan, akik korábban elképesztő negatív hangnemben beszéltek Magyarországról, most hasonló lépések bevezetéséről beszélnek, így Ausztria is, vagy éppen a skandináv országok. Ha az előző kérdésben kifejtett német gazdasági érdekeket vesszük alapul, akkor teljes mértékben érthető, hogy a Merkel vezette német kormány miért is ellenezte a magyar intézkedéseket, pedig mi jogszerűen jártunk el, hiszen a Schengeni külső határok megvédését jogszabály írja elő.

Claudio Mutti – Az Ön véleménye szerint milyen okokból kifolyólag támadták Magyarországot a liberális politikai körök és ezek legfontosabb médiái?

Vona Gábor – Magyarország az elmúlt években rendszeresen és immár törvényszerűen a liberális médiának és politikai elitnek a kereszttüzében van. Ennek oka, hogy országunk konzervatívabb és hagyománytisztelőbb értékrenddel bír, mint számos más nyugati ország. Ezt képviseli a jelenlegi magyar kormány is, amennyire azt neki Brüsszelből engedik, és ezt képviseljük teljes nyíltsággal mi is, az ország legerősebb ellenzéki pártja. Jelenleg nem is létezik életképes liberális párt Magyarországon, nincs rá társadalmi igény. A migrációs problematika tekintetében a liberálisok köztudottan a multikulturális, minden szinten globalista társadalmi szerkezetet támogatják, ennek állta útját Magyarország a kerítéssel.

Claudio Mutti – Mit ajánl a Jobbik a magyarországi határok megvédésének érdekében?

Vona Gábor – A Jobbik a határvédelem további határozott és következetes védelmét követeli a magyar kormánytól, s az ennek biztosításához szükséges feltételek megteremtését. Ilyen feltételek a honvédség és a rendőrség valódi kompetenciáinak visszaadása és a reguláris határőrség visszaállítása. E mellett az illegális határátlépés és a migrációs törvények tovább szigorítása és a kerítés fenntartása, esetleges bővítése szükséges. Nagyon fontos lenne, ha a többi tagállam is megértené a migrációs krízis Európa számára életveszélyes következményeit és ha nem is egységes migrációs politikával védekeznénk, de legalább nem akadályoznák egyes nemzetállamok törekvéseit abban, hogy megvédjék saját országukat, népességüket, nemzeti egyediségüket.

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CARLO TERRACCIANO E LA RUSSIA

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Il 20 novembre 2015, nel decennale della morte di Carlo Terracciano, l’associazione Caposaldo ha organizzato a Bergamo un convegno dal titolo “La Russia nello scacchiere geopolitico globale”. Il testo che pubblichiamo qui di seguito si riferisce all’intervento del direttore di “Eurasia” .

Conobbi Carlo Terracciano trentasei anni fa. Il nostro rapporto, abbastanza regolare, interrotto soltanto dai ritiri conventuali suoi e miei, è durato un quarto di secolo, nel corso del quale abbiamo condiviso diverse attività.
Tra i convegni ai quali prendemmo parte insieme, qui mi limiterò a rievocare il congresso che subito dopo il crollo dell’URSS venne organizzato a Mosca dalle forze politiche dell’opposizione cosiddetta “rosso-bruna”, sotto la presidenza onoraria della signora Sazhi Umalatova, presidentessa del parlamento sovietico disciolto da Eltsin.
Nel febbraio 1993 Carlo Terracciano, Marco Battarra ed io fummo invitati a partecipare al “Congresso dei Popoli Umiliati, contro il Nuovo Ordine Mondiale”, che si sarebbe svolto a Mosca il 2 marzo, nel salone del Palazzo della Stampa di Ulica Pravda. Il convegno era stato indetto dal Fronte di Salvezza Nazionale, all’epoca presieduto congiuntamente da Gennadij Zjuganov (Presidente del Comitato Esecutivo del C.C. del Partito Comunista Russo), dal giornalista Eduard Volodin (Copresidente del Consiglio di Coordinamento delle forze patriottiche) e dal romanziere Aleksandr Prochanov (Direttore del periodico “Den”).
La settimana che trascorremmo a Mosca cominciò lunedì 1 marzo con una visita alla moschea principale della capitale russa, subito seguita da un incontro con le rappresentanze diplomatiche dell’Iraq e dell’OLP. Poi, nei locali della sede del Partito della Rinascita Islamica, partecipammo ad una lunga riunione presieduta da Gejdar Džemal, dirigente del Partito, che per le Edizioni all’insegna del Veltro aveva appena pubblicato Tawhid. Prospettive dell’Islam nell’ex URSS.
Il giorno successivo ebbe luogo il Congresso dei Popoli Oltraggiati, al quale partecipavano numerosi delegati provenienti dai territori della Russia e dai paesi che avevano fatto parte dell’URSS, in rappresentanza di comunità nazionali, movimenti politici, associazioni, organi di stampa ecc. A presiedere era Aleksandr Dugin, direttore della rivista “Elementy” di cui ero redattore fin dal primo numero.
La serie degli interventi venne aperta da Aleksandr Prochanov, il quale identificò il “Nuovo Ordine Mondiale” preconizzato da Bush senior con la versione moderna della Torre di Babele e indicò nella lotta per la restaurazione dell’impero sovietico la fase decisiva nella guerra contro il Nuovo Ordine Mondiale.
Prese poi la parola Carlo Terracciano. “La nostra delegazione – esordì – viene da un paese che da decenni è sottoposto all’occupazione americana. Abbiamo un governo e un parlamento asserviti totalmente agli interessi stranieri: all’alta finanza internazionale, all’imperialismo americano, al sionismo cosmopolita, in una parola al mondialismo”. E proseguì: “Sionismo e imperialismo vogliono distruggere l’anima stessa dei popoli. E voi Russi oggi state provando sulla vostra carne viva la lama sanguinaria di questi criminali: miseria, fame, disonore, corruzione, droga, alcol e criminalità, odi e divisioni nel popolo, tradimento della Patria e abbandono dei popoli ieri amici”. Dopo aver richiamato la necessità di unire tutte le forze antimondialiste in una “grande internazionale dei popoli diseredati della terra, come li definì l’Imam Khomeini”, l’oratore italiano rivolse questo appello ai rappresentanti della nazione russa: “Noi, eredi senza più patria di un Impero che fece la storia civile del mondo antico, chiediamo al popolo che ha raccolto l’eredità storica e spirituale di Roma e di Bisanzio: aiutateci a riscattare insieme il nostro ed il vostro passato! Perché nella tradizione e nella memoria storica ed ancestrale dei popoli è la chiave che apre le porte dell’avvenire”.
Al discorso di Terracciano fece seguito quello di Eduard Volodin, capo redattore del quotidiano “Sovetskaja Rossija” e copresidente del Fronte di Salvezza Nazionale, il quale, individuando alle radici del conflitto interetnico jugoslavo la medesima ispirazione che aveva originato la distruzione dell’URSS, sottolineò la necessità di un impegno dei Russi a combattere in difesa dei popoli minacciati di asservimento dall’imperialismo statunitense.
Fu poi la volta del diplomatico iracheno Abd el Wahhab Hashshan, che citò l’esempio del proprio paese per illustrare la sorte incombente su quanti non accettano le direttive del Nuovo Ordine Mondiale e paventò per la Russia uno sviluppo della manovra già iniziata con la distruzione dell’URSS.
L’argomento fu ripreso dal professor Kobazov, capo della delegazione osseta, secondo il quale era necessario ricostituire in un modo o nell’altro una comunità di paesi analoga all’URSS, allo scopo di salvaguardare le identità dei popoli dell’area ex-sovietica contro le minacce del mondialismo.
Prese allora la parola l’estensore di queste righe, il quale, al termine di un’analisi geopolitica, formulò l’auspicio di un impegno della Russia nella lotta di liberazione del Continente. “Se vuole liberarsi dalle catene del Nuovo Ordine Mondiale – dissi –, la Russia deve aiutare il resto dell’Europa in questa liberazione, contribuendo con le sue possibilità, che rimangono tuttavia enormi, a questa impresa storica”. Nei giorni successivi, il discorso fu riportato integralmente sul “Kayhan” di Teheran.
Toccò poi a un redattore di Radio Tallinn, che illustrò la situazione dell’Estonia in seguito alla secessione dall’URSS: imposizione della russofobia come ideologia ufficiale del neonato staterello baltico e diffusione degli pseudovalori dell’Occidente.
Fu quindi la volta di Gejdar Džemal, il quale sostenne che un’alternativa globale al Nuovo Ordine Mondiale è rappresentata dall’Islam, il quale contrappone un’escatologia autentica alla parodistica concezione mondialista della “fine della storia”. Non solo, ma alla concezione della legge come opportunistico “contratto sociale”, concezione propria del fariseismo mondialista, l’Islam oppone la Legge sacra, nata dalla Rivelazione divina.
In assenza della delegazione serba, Aleksandr Dugin commentò lui stesso la situazione in Jugoslavia, esponendo le ragioni delle diverse parti in lotta (Serbi, Croati, Musulmani) ed auspicando un’intesa tra esse. La stessa impostazione emerse dal messaggio di cui diede lettura un rappresentante dell’Associazione d’Amicizia Russo-Serba. I firmatari del messaggio, il capo del Partito Radicale Šešelj e l’intellettuale tradizionalista belgradese Dragoš Kalajić avevano scritto: “Per lottare contro il programma mondialista, che si trova riassunto sulla stessa banconota stampata dagli USA, bisogna porre fine alle guerre interetniche. Il conflitto in Bosnia non può essere risolto con la vittoria di una parte sulle altre, ma con l’intesa tra le parti”.
L’ospite d’onore del Congresso, la signora Saži Umalatova, presidentessa del parlamento sovietico disciolto da Eltsin, ribadì che tale provvedimento era un fatto illegale e che la restaurazione dell’URSS doveva essere il primo passo verso l’eliminazione dell’influenza americana e sionista nel continente. Americani e sionisti, concluse la signora Umalatova, sono il nemico numero uno dei popoli liberi.
I sionisti, precisò subito dopo Sha’ban H. Sha’ban, redattore capo di un giornale russo-palestinese, “Al Kods”, devono essere combattuti dappertutto, perché non agiscono soltanto in Palestina, ma in tutto il mondo. Il pericolo sionista non minaccia solo i Palestinesi, disse Sha’ban, ma tutti i popoli. La parola d’ordine, dunque, deve essere: “Intifada dappertutto!”
A questo punto parlò il terzo delegato italiano, il redattore di “Orion” Marco Battarra, il quale illustrò i rapporti tra finanza, libero mercato e Stati facendo ricorso a uno studio di “Le Monde”.
Il rappresentante degli Abcazi, Jurij Ancabadze, denunciò il ruolo che Shevardnadze voleva fare svolgere alla Georgia nell’area caucasica. La Georgia, affermò il delegato abcazo, è un corridoio di influenza mondialista, perché la classe dirigente georgiana vuole essere l’avamposto dell’Occidente nella zona.
Dopo aver confermato che effettivamente molti georgiani sono stati agenti del mondialismo nella politica russa e dopo aver sollecitato il sostegno dei Russi ai musulmani dell’Abcazia, Aleksandr Dugin diede la parola a una delegata proveniente da Chişinău, la quale illustrò la situazione della comunità russa della Repubblica Moldava (Bessarabia) in seguito alla secessione.
Intervenne quindi l’ambasciatore dell’OLP, Musa Mubarak. Sionismo e americanismo, disse, sono i due lati del medesimo angolo. Ingerenza nelle faccende politiche altrui e pressione economica sono i due principi basilari dell’azione statunitense. Contro il Nuovo Ordine Mondiale, che si caratterizza in questa maniera, bisogna creare un vero Ordine Nuovo.
Apti Saralejev, delegato ceceno, denunciò la penetrazione sionista nella vita dei popoli caucasici e sostenne il progetto relativo a un’intensificazione degli studi sull’azione sionista.
Infine, Aleksandr Dugin diede lettura della risoluzione finale, cui vennero apportate alcune aggiunte e modifiche suggerite dall’assemblea. Fu creato un comitato permanente, nel quale vennero inseriti anche i delegati italiani.
Il Congresso ebbe ampia risonanza sulla stampa russa; i giornali “patriottici”, in particolare, riferirono per esteso gli interventi dei congressisti. Di una esemplare falsificazione, invece, fu autore il giornalista di Radio Svoboda (l’emittente finanziata dagli USA e nota fuori dalla Russia come Radio Free Europe), il quale nella sua corrispondenza attribuì a me e a Terracciano dichiarazioni che noi non avevamo mai fatte.
* * *

Mercoledì 3 marzo la nostra delegazione fu ricevuta da Šamil Sultanov, politologo e polemologo di fama e redattore di “Den”, che mi intervistò a lungo per il suo giornale.
Nel pomeriggio ci recammo nei locali di “Sovetskaja Rossija”, dove avemmo un lungo colloquio con Eduard Volodin, uno dei firmatari dell’Appello al Popolo dell’agosto 1991. L’incontro terminò con la decisione di istituire a Milano un ufficio stampa del Fronte di Salvezza Nazionale, di cui Volodin era copresidente. Il direttore di “Sovetskaja Rossija”, Valentin Čikin, sottolineò la fondamentale importanza della collaborazione fra tutte le forze antimondialiste. Il rapporto di collaborazione ebbe un ulteriore sviluppo in un documento firmato da Eduard Volodin, Aleksandr Prochanov e Gennadij Zjuganov: dato il nostro “esemplare contributo alla comprensione reciproca tra i popoli russo e italiano sia a livello politico che culturale”, il documento (riprodotto nell’originale e tradotto in italiano a pag. 8 del numero di “Orion” del luglio 1993) riconosceva in noi i rappresentanti politici dell’opposizione russa al governo di Eltsin.
Nella giornata di giovedì ebbe luogo presso l’Associazione Ufficiali un lungo dibattito di natura geopolitica organizzato da Aleksandr Dugin e dal colonnello Evgenij Morozov. Tralascio gli interventi di Dugin e di Morozov ed il mio per riferire il passo culminante del discorso di Carlo Terracciano.
“Attualmente – disse quest’ultimo – la situazione è molto chiara. Nel mondo c’è soltanto un imperialismo: è l’imperialismo talassocratico degli Stati Uniti d’America. E’ il Nuovo Ordine Mondiale. Allora la Russia, la nuova Russia del futuro, deve presentarsi come il paese liberatore dell’Eurasia e del mondo intero contro questo imperialismo. E’ molto difficile, ma il mondialismo non è un blocco unico. Dopo la scomparsa del Patto di Varsavia, Europa e Giappone devono giocare un ruolo molto importante. Secondo la nostra visione, la base della rivincita si fonda sull’asse Berlino-Mosca-Pechino e/o Tokyo. L’importante è che le potenze terrestri non ripetano lo stesso errore del passato: di farsi la guerra tra loro. E’ interesse di tutta l’Eurasia di unificare le forze terrestri contro l’unica potenza talassocratica predominante. Per questo Mosca ha un ruolo essenziale. Dal Nord dell’Eurasia noi possiamo sollevare tutto il Sud del mondo contro l’Occidente americanocentrico”.
Passando a considerare l’area geopolitica mediterranea, Terracciano si soffermò sul “nodo di tutti i problemi” del Vicino Oriente. “Lo Stato sionista – disse – controlla attualmente tutta quest’area con la minaccia incombente della bomba atomica. E’ anche la vera causa degli attacchi americani prima contro l’Iran e poi contro l’Iraq. A questo proposito noi pensiamo che il futuro ‘nemico principale’ dell’America sarà, di nuovo, l’Iran. Per quanto poi riguarda tutto il centro-Asia musulmano, c’è un chiaro tentativo dell’America di spingere il Rimland contro il pivot centrale eurasiatico. Ma è un gioco molto pericoloso anche per gli americani”.
Terracciano concluse così il proprio intervento: “Per finire, consideriamo che sia interesse di tutte le piccole e grandi potenze dell’area unificare le proprie forze contro l’unico nemico del mondo: l’americanosionismo. Quando si potrà cacciare dal Medio Oriente la potenza sionista, avremo fatto un grosso passo per la liberazione di tutto il ‘Vecchio Mondo’. Ma questo per una potenza talassocratica sarebbe la fine. Quando ci sarà una Nuova Russia, però, noi saremo prossimi alla Terza Guerra Mondiale: sarà veramente la guerra definitiva per il controllo del mondo nel prossimo millennio”.
Nella serata Aleksandr Dugin ci accompagnò nello studio del pittore Evgenij Vidilanskij, autore di un incisivo ritratto di Ungern Khan che tutti fotografammo con cura e che fu successivamente riprodotto sulla copertina del numero di “Orion” del mese di aprile.
* * *

Venerdì 5 marzo, nel corso di una seconda visita alla redazione di “Den”, avemmo un incontro con Aleksandr Prochanov, il quale ci spiegò che il suo giornale rappresentava la sinergia delle diverse componenti politiche dell’opposizione, in quanto l’ideale della giustizia sociale e quello della sovranità dello Stato non potevano essere dissociati. Analogamente, proseguì, occorre respingere il tentativo americano di attizzare lotte di religione tra Ortodossi e Musulmani e proporsi come obiettivo finale la restaurazione dello spazio geopolitico eurasiatico, del quale Ortodossia e Islam sono componenti fondamentali.
Alla sera, accompagnati da Gejdar Džemal, accettammo l’invito a cena fattoci pervenire da un gruppo di mugiahidin del Tagikistan. Fu necessaria tutta una serie di precauzioni, poiché i Tagiki vivevano in clandestinità, in quanto erano ricercati dai servizi segreti di Eltsin. Terracciano rimase profondamente impressionato da quell’incontro, del quale riferì ampiamente sul numero di “Orion” del maggio 1993.
“Dopo la cena – scrisse rievocando quell’incontro – l’intervista, la discussione politica, le domande e risposte. Ci aspetteremmo odio, risentimento, furore, forse disperazione per quanto hanno subito. Ed invece eccoli descrivere gli orrori di una guerra civile tra le più cruente con una serenità d’animo, una virile accettazione del destino che lascia turbati noi, più che se inveissero o piangessero sulle loro disgrazie. La loro totale fede religiosa nell’Islàm è una corazza invincibile contro i colpi della sorte, accettata come volere e prova di Allah. (…) Un’altra caratteristica che ci stupisce è la loro profonda preparazione culturale e politica, la loro coscienza delle reali forze in campo, il loro determinato e cosciente impegno di lotta globale al Mondialismo (lo definiscono proprio così) e al Sionismo, ben presente anche in Tagikistan. Conoscono certo più loro la situazione occidentale ed italiana di quanto si sappia noi del Tagikistan!”
La giornata di sabato fu interamente dedicata alla manifestazione organizzata dal Fronte di Salvezza Nazionale nella sala del cinema Udarnik, dove tremila persone si affollarono per festeggiare i protagonisti del putsch di agosto, mentre altre duemila rimasero in piedi nel salone d’ingresso. (A titolo di cronaca: la stampa italiana del giorno successivo parlò, testualmente di “cinquecento persone”).
A margine della manifestazione Terracciano ed io potemmo incontrare alcuni esponenti dell’opposizione, i quali ci pregarono di diffondere il giorno successivo, appena rientrati in Italia, una serie di informazioni che secondo loro potevano servire a sventare il golpe progettato da Eltsin.
Fu così che il 7 marzo diffondemmo in Italia, Francia e Belgio un comunicato, firmato “Ufficio Stampa italiano del Fronte di Salvezza Nazionale”, che esordiva così: “Fonti altamente qualificate dell’opposizione al governo di Eltsin informano che è in preparazione una svolta autoritaria per esautorare il potere del Parlamento”. Il comunicato elencava una serie di informazioni riservate, relative a manovre militari in atto in quei giorni, che rendevano credibile la denuncia del golpe imminente.
Martedì 9 marzo, alla vigilia della riunione del Congresso dei Deputati del Popolo, il Ministro della Difesa, il generale Gracëv, comunicò che le previste manovre militari nella regione di Mosca erano momentaneamente sospese.
Carlo Terracciano fu sempre convinto che il nostro comunicato, divulgando fuori dalla Russia notizie tenute segrete dal governo di Mosca, avesse indotto quest’ultimo a cambiare i propri programmi o quanto meno a rinviarli. Infatti fu solo il 20 marzo che Eltsin ruppe gl’indugi e in un discorso televisivo annunciò la decisione di assumere poteri speciali.

* * *

Carlo ha collaborato con la casa editrice da me fondata e diretta, le Edizioni all’insegna del Veltro, scrivendo saggi d’argomento geopolitico che sono apparsi come prefazioni e postfazioni ad alcuni testi di Karl Haushofer, Stefano Fabei e Jean-Marie Benjamin.
Sono stato testimone dell’impegno di Carlo nel periodo in cui egli approfondì lo studio delle dottrine geopolitiche, impegno che sfociò nella sua collaborazione ad “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”. Anzi, fu proprio lui a darmi l’idea di dar vita ad una rivista di studi geopolitici. La proposta me la fece il 29 maggio 2004, a Verona: “Tu sei un editore. Perché non pubblichi una rivista di studi geopolitici?” Tre mesi dopo uscì il primo numero di “Eurasia”. Purtroppo, soltanto nei primi quattro numeri, usciti tra il 2004 e il 2005, si trovano articoli a firma Carlo Terracciano. Si tratta di quattro articoli dei quali farò una sintesi obiettiva, esaminandoli uno per uno e riportandone i passi più significativi.
Dal primo articolo, Turchia, ponte d’Eurasia (“Eurasia” 1/2004, ott.-dic. 2004) traspare l’influenza di due autori particolarmente cari a Carlo: Julius Evola e Adriano Romualdi.
Da buon lettore di Evola, Carlo attribuisce al fattore mitico un’importanza fondamentale. Ricordo che in una conferenza tenuta a Brescia esordì richiamandosi al mito di Europa, la principessa fenicia che fu rapita da Zeus sulla spiaggia di Tiro. In questo articolo invece Carlo esordisce citando due miti d’origine relativi ai popoli turchi. Il primo è quello del bambino sopravvissuto alla strage dei T’u-küe (così venivano chiamati i Turchi nelle fonti cinesi) che, allattato da una lupa come Romolo e Remo, diede origine alle dieci tribù turche. Il secondo mito è quello famoso del lupo grigio che, attraverso deserti e montagne condusse una parte del popolo turco nella nuova patria anatolica.
All’inizio dell’articolo, viene fatto cenno al rapporto fra Prototurchi e Indoeuropei, popolazioni nomadi di cacciatori-allevatori che, scrive Carlo con quel certo pathos un po’ romantico che a volte caratterizza la sua prosa, “correvano libere nell’immenso spazio settentrionale dell’Eurasia, dalle gelate steppe siberiane agli aridi deserti del centro Asia, fino ai contrafforti del Pamir e dell’Altai”. Si intravede qui la lezione di Adriano Romualdi, che nel suo studio su Gli Indoeuropei (Ar, 2004, p. 82) aveva fatto notare come ancora nel sec. X un popolo indoeuropeo fosse presente nel Turkestan cinese.
Ma accanto all’influenza di Evola e di Romualdi, questo articolo sulla Turchia rivela anche altri debiti culturali. Carlo attinge le proprie nozioni sui Turchi dall’opera del grande turcologo Jean-Paul Roux, del quale riporta in esergo un brano che deve essergli sembrato particolarmente significativo. Il brano inizia così: “I Turchi hanno la vocazione imperiale. Essi sono per eccellenza i sovrani della terra”. (Dove il termine “terra” è da intendersi, ovviamente, in relazione a quel dualismo tipicamente geopolitico, “terra-mare”, che per Carlo è un concetto fondamentale). Il brano citato prosegue così: “I loro imperi (…) sono dei mosaici di popoli che essi tentano di far vivere insieme nell’armonia lasciando loro, sotto un potere fortemente centralizzato e dispotico, la loro identità, la loro lingua, la loro cultura, la loro religione, spesso i loro capi”. È facile capire che in questa caratterizzazione degli imperi turchi Carlo ha visto un profilo che si avvicina notevolmente a quello che egli riconosce come il modello ideale di impero.
L’articolo passa in rassegna le vicende storiche dei Turchi Ottomani, che secondo Carlo hanno ereditato la funzione imperiale di Bisanzio; arrivato ai giorni nostri, si sofferma sulla vexata quaestio dell’ingresso turco nell’UE. Secondo Carlo, “la chiusura alla Turchia su base religiosa” (vale a dire “sulla base di una presunta ‘unità cristiana’ dell’Europa”) “è ovviamente pretestuosa, se solo si consideri come l’Albania e la Bosnia (…) siano paesi (…) a grande maggioranza islamica” e che “forti minoranze musulmane (…) sono presenti in Stati come la Macedonia, la Bulgaria, la Moldova, la Serbia (…), per non parlare ovviamente della Federazione Russa. Senza considerare l’immigrazione (…) turco-curda (…) che, solo in Germania, conta un milione e mezzo di lavoratori con le loro famiglie”.
Parimenti pretestuosa è la chiusura alla Turchia fondata su criteri etnolinguistici, poiché, argomenta Carlo, “anche gli Ugrofinni hanno una base linguistica certo non indoeuropea e più vicina ai Turchi; eppure le nazioni moderne che nascono da queste migrazioni sono considerate europee a tutti gli effetti: Finlandia, Estonia, Ungheria”.
La Turchia, secondo Carlo, costituisce un vero e proprio ponte eurasiatico, poiché fonde in un unico Stato “la componente originaria turanica del centro dell’Asia, quella europea, retaggio di 500 anni di storia (ma anche di recenti migrazioni e future aspettative politiche) e la religione e cultura islamica. Sotto il profilo geostrategico la Turchia è “ponte d’Eurasia” per il fatto che costituisce un “anello di congiunzione tra l’Europa e l’area del Golfo Persico e del Vicino Oriente, così strategicamente importante e determinante anche per le economie mondiali, con i suoi giacimenti petroliferi”.
Applicando un criterio tipicamente geopolitico, Carlo afferma che il “destino della nuova Turchia” è, se non determinato, “segnato” dalla stessa collocazione geografica di questo paese. E il destino dell’Europa, aggiunge, “è a sua volta strettamente connesso a quello turco”. Sarà perciò “necessario, indispensabile per l’Europa come per la Turchia riannodare e rinsaldare l’alleanza dell’inizio del secolo scorso”, cioè quell’alleanza che con la Turchia era stata stabilita dagli imperi centrali: l’Austria-Ungheria e il Secondo Reich.
Oggi più che mai, conclude Carlo, la “fortezza turca” è una delle chiavi di volta dell’alleanza eurasiatica.

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Il secondo articolo, intitolato Il Libro, la spada, il deserto (“Eurasia” 1/2005, genn.-marzo 2005) riguarda la diffusione dell’Islam sul continente eurasiatico.
Anche qui troviamo in epigrafe un brano rivelatore del gusto un po’ romantico di Carlo; si tratta di un passo degli Eroi di Thomas Carlyle, nel quale viene sintetizzato il risultato storico dell’azione del Profeta Muhammad, uno dei personaggi scelti dallo scrittore scozzese per rappresentare l’Idealtypus dell’eroe. E il brano di Carlyle fa degnamente il paio con un altro brano celeberrimo, che Carlo riporta nel contesto dell’articolo: sono le parole della nostalgica ammirazione di Nietzsche per la civiltà moresca della Spagna, parole che Carlo qualifica come “struggenti”, perché ne condivide lo spirito, lui che in uno dei suoi numerosi viaggi ha visitato l’Alhambra di Granada.
Ed anche in questo articolo viene rievocato un episodio avvenuto, direbbe Eliade, in illo tempore, un episodio che, se non può essere propriamente definito “mitico”, appartiene tuttavia alla ierostoria: è la vicenda di Agar e di Ismail, ambientata nel luogo centrale della geografia sacra islamica.
Dovendo esaminare il fenomeno della nascita e della diffusione dell’Islam da un’angolatura geopolitica, che in quanto tale sottolinei lo stretto rapporto dell’evento spirituale, culturale e politico con l’ambito geografico, Carlo non poteva non citare la concezione riduzionista, tipica del positivismo ottocentesco, secondo la quale, mentre il politeismo sarebbe la “religione della foresta”, il monoteismo sarebbe invece la “religione del deserto” e l’area dell’espansione islamica coinciderebbe con quella in cui la media della piovosità annua è inferiore ai dieci pollici!
Per quanto propenso a rivolgere un’attenzione particolare al fattore geografico (lui stesso riferisce una definizione del deserto come luogo del risveglio, della luce, dell’impersonalità), Carlo respinge nettamente i luoghi comuni di matrice positivista che assolutizzano il fattore ambientale, giudicandoli frutto di un “determinismo geopolitico inadatto a spiegare grandi costruzioni storiche, politiche, militari e religiose ben più complesse e peraltro sviluppatesi in ambienti urbani”. E questa puntualizzazione mi pare piuttosto importante, perché smentisce quella bizzarra accusa di “marxismo geografico”, cioè di determinismo geografico, che è stata lanciata all’indirizzo del metodo geopolitico rappresentato dalla rivista “Eurasia”.
Ripercorrendo le vicende storiche che videro l’Islam unificare nel giro di poco più d’un secolo lo spazio compreso tra Gibilterra e l’Indo, Carlo mostra molto bene come lo stereotipo dell’Islam quale presunta “religione del deserto” non regga affatto al confronto con la complessità del fenomeno islamico. Ad esempio, egli sottolinea con notevole acume il fatto che “lo scontro fra l’idealizzato Islam meccano e medinese delle origini e quello oramai vittorioso e insediato nelle grandi capitali del Vicino Oriente”, quello scontro che potrebbe essere riduttivamente definito come “lo scontro fra il deserto e la terra fertile dei sistemi potamici irrigui”, abbia dato luogo all’opzione sciita dell’Iran: sarà proprio “la terra indoeuropea dello zoroastrismo”, osserva Carlo, a rivendicare “la linea diretta con il Profeta”, cioè l’eredità privilegiata dell’Islam originario!
L’articolo si conclude con una valutazione dell’importanza dell’Islam per l’Eurasia. L’area storicamente islamica, secondo Carlo, “rappresenta una cerniera, un collegamento ideale, una saldatura tra l’Eurasia a nord, cioè l’Europa con la Russia siberiana fino a Vladivostok, e le altre parti della massa eurasiatico-africana: l’Africa nera appunto, il subcontinente indiano, la stessa Cina, l’Indocina e l’Indonesia. Ovunque infatti, anche in questi territori più o meno estranei al fenomeno dell’esplosione islamica dei primi due secoli dell’Egira, sono presenti forti comunità musulmane. Un patrimonio per l’Eurasia e non certo un pericolo, come vorrebbe oggi la propaganda terroristica occidentalista, sullo stile dello ‘scontro di civiltà’ alla Huntington”.

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Nel terzo articolo, Europa-Russia-Eurasia: una geopolitica “orizzontale” (“Eurasia” 2/2005, apr.-giugno 2005), Carlo affronta alcuni concetti squisitamente geopolitici, instaurando un rapporto dialettico con le tesi esposte da Aleksandr Dugin in un lungo scritto intitolato L’idea eurasiatista e apparso sul primo numero di “Eurasia”.
Aleksandr Dugin prospetta l’Eurasia dei “tre grandi spazi vitali, integrati secondo la longitudine”, tre cinture eurasiatiche che si estendono da nord a sud, nel senso dei meridiani. Tale suddivisione secondo sfere d’influenza verticali, osserva Carlo, costituisce una ripresa delle pan-idee di Karl Haushofer, il quale teorizzava un emisfero orientale – il nostro emisfero – geopoliticamente diviso in uno spazio eurafricano, uno spazio panrusso esteso fino all’Oceano Indiano ma privo dello sbocco al Pacifico e, infine, uno spazio estremo-orientale comprendente Giappone, Cina, Sud-Est asiatico e Indonesia. A questo schema haushoferiano Dugin ha apportato alcune modifiche richieste dalla situazione internazionale odierna, assegnando alla seconda fascia anche il Vicino Oriente e la Siberia fino a Vladivostok.
Carlo, che giudica fondamentale il contributo dato da Dugin alla dottrina geopolitica e alla lotta di liberazione eurasiatica, ritiene necessario allargare la prospettiva dughiniana delle aree verticali, e scrive: “Alle pan-idee ‘verticali’ haushoferiane, che interpretate alla luce dell’assetto internazionale attuale assumono oggi vago sapore neocolonialista (l’esatto contrario delle posizioni anticoloniali del padre della geopolitica tedesca), noi sostituiamo la visione di una collaborazione paritaria e integrata fra realtà geopolitiche omogenee disposte a fasce orizzontali in Eurasia e in Africa”.
Che cosa sia la prospettiva geopolitica orizzontale, Carlo lo spiega fin dalle prime righe di questo studio. “L’Eurasia – egli esordisce – è un continente ‘orizzontale’, al contrario dell’America che è un continente ‘verticale’”. Anzi, tutta quanta la massa continentale dell’emisfero orientale è costituita di unità omogenee disposte in senso orizzontale: “È lo stesso senso di marcia – scrive – seguito dai Reitervölker, i ‘popoli cavalieri’ che corsero l’intera Eurasia fin dai più remoti tempi preistorici, i tempi dei miti e delle saghe dell’origine”.
Traducendo questa visione in termini geopolitici, Carlo prospetta “l’integrazione della grande pianura eurasiatica settentrionale dal canale della Manica allo stretto di Bering”. A questa prima fascia orizzontale si affiancano, in altre fasce orizzontali, le altre unità geopolitiche dell’Eurasia e dell’Africa: il grande spazio arabo del Nordafrica e del Vicino Oriente, il grande spazio trans-sahariano, il grande spazio islamico compreso fra il Caucaso e l’Indo eccetera.
In questa prospettiva, è naturale che l’Europa si integri in “una sfera di cooperazione economica, politica e militare con Mosca”, altrimenti “sarà usata nell’ambito NATO dagli americani come una pistola puntata su Mosca”. La Russia infatti non può pensare di fare a meno dell’Europa, anzi. Da un punto di vista russo “l’unica sicurezza per i secoli a venire non può esser rappresentata che dal controllo sotto qualsiasi forma delle coste della massa eurasiatica settentrionale, quelle coste che si affacciano sui due principali oceani mondiali, l’Atlantico e il Pacifico”.
La necessità dell’integrazione geopolitica di Europa e Russia impone sia agli Europei sia ai Russi la revisione definitiva di certe contrapposizioni. La “contrapposizione ‘razziale’ tra euro-germanici e slavi”, scrive Carlo, “fu uno dei grandi errori della Germania”. Ma anche i Russi devono eliminare i residui di quella eurofobia che, nata dalla giusta esigenza di rivalutare la loro componente turco-tatara, li ha indotti talvolta a contrapporre in maniera radicale la Russia all’Europa germanica e latina, magari confondendo quest’ultima con l’Occidente “atlantico” e, aggiunge Carlo, “con la mentalità razionalista, positivista e materialista propria degli ultimi secoli”.
Invece, incalza Carlo, “se ancora di Occidente ed Oriente si può e si deve parlare, la linea di demarcazione deve essere posta tra i due emisferi, tra le due masse continentali separate dai grandi oceani”, cosicché il vero Occidente, la terra del tramonto, risulterà essere l’America, mentre l’Oriente, la terra della luce, coinciderà col Continente antico: il blocco euroafroasiatico.

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Il canto del cigno di Carlo è un articolo di cinque o sei pagine intitolato I Mediterranei del mondo (“Eurasia”3/2005, ott.-dic. 2005). E’ il più breve tra gli articoli scritti da Carlo per “Eurasia”, ma non sfigurerebbe affatto in una eventuale antologia di scritti geopolitici.
Anche qui le citazioni epigrafiche iniziali sono ben rappresentative del pensiero di Carlo in generale e del contenuto di questo articolo in particolare. La prima citazione, infatti, è una frase di Schmitt relativa a quel dualismo terra-mare al quale Carlo si richiama costantemente, mentre le altre tre citazioni si riferiscono ad altrettanti miti (uno greco, uno giapponese e uno azteco) concernenti i tre “mediterranei del mondo”.
Oltre al Mediterraneo propriamente detto, la cui caratteristica consiste nel “penetrare a fondo nella massa euro-afro-asiatica nel senso orizzontale, quello dei paralleli”, esistono altri due mari che, in quanto situati “in mezzo alle terre”, potrebbero esser chiamati “mediterranei”: uno si trova in Asia, “tra la costa della massa continentale sino-indocinese e la collana di isole che si frappongono al grande Oceano Pacifico”, mentre l’altro è in America ed è formato dal Golfo del Messico e dal Mar dei Caraibi.
Carlo nota una caratteristica che li accomuna tutti e tre: “al centro di questi sistemi marittimi interni vi è sempre un’isola di grandi dimensioni che li divide in due metà pressappoco equivalenti”: rispettivamente la Sicilia, Taiwan, Cuba. Ciascuna di queste isole rappresenta la “chiave di volta” strategica per il controllo del sistema marittimo interno e ciascuna di esse ha rivestito e riveste una grande importanza nelle strategie delle potenze talassocratiche, si tratti dell’Inghilterra o degli Stati Uniti.
Per quanto concerne questa idea di altri mari analoghi al Mediterraneo, Carlo cita espressamente il Dictionnaire de Géopolitique di Yves Lacoste. In realtà, già Friedrich Ratzel aveva definito “mediterraneo” un mare che mette in comunicazione due oceani e aveva individuato, oltre a quello euro-africano, quello australe-asiatico e quello centroamericano. La mancanza di questo riferimento, così come la relativa brevità dell’articolo, sono probabilmente indizi dell’esaurimento delle energie dell’autore, il quale d’altronde si ripromette di sviluppare l’argomento, trattandolo in maniera più approfondita, nel numero di “Eurasia” dedicato alla Cina.
Purtroppo ciò non avverrà. Il medesimo numero di “Eurasia” che ospita l’articolo sui Mediterranei del mondo si conclude con due pagine in memoriam di Carlo delle quali voglio ripetere qui le parole finali, scritte in una lingua che lui amava e talvolta cercava di usare nella nostra corrispondenza: Vale, amice carissime, ave atque vale.

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“IL MONDO ISLAMICO OGGI”

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1/2005 Mondo islamico
2/2012 Il Mediterraneo tra l’Eurasia e l’Occidente
4/2012 L’islamismo contro l’Islam?
4/2014 Luoghi santi e “Stato Islamico”
3/2015 La guerra civile islamica

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ATTACCHI TERRORISTICI IN EUROPA: UN’ANALISI STRATEGICA

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I tragici fatti di Parigi hanno definitivamente portato alla ribalta il tema dell’insurrezione terrorista come problema veramente globale. La reazione delle classi dirigenti europee, siano esse politiche e culturali, deve tener conto di precisi elementi strategici. Non siamo di fronte ad un problema di ordine pubblico ma nemmeno ad un classico avversario militare. Le risposte sin qui approntate ed implementate – che vanno dall’aumento dell’attività di sorveglianza visibile nelle città e dal tentativo di sigillare le frontiere (a tragedia avvenuta) al lanciare contro il gruppo “Stato Islamico” bombardamenti di rappresaglia – rischiano pertanto di risultare completamente inefficaci.

Il problema: terrorismo e sicurezza.

Ci si conceda una metafora. Vi fu un’epoca in cui, nel codice penale italiano, lo stupro era considerato non reato contro la persona ma contro la morale. E’ ovvio che lo stupro sia anche un delitto che aggredisce il pubblico senso di moralità, ma è altrettanto chiaro che il primo bene giuridico da tutelare è l’incolumità fisica e psicologica della vittima e che quindi sia la violazione di questo interesse giuridico il principale effetto negativo da colpire. Si badi bene: siamo costretti a dire “colpire” e non “punire”, perché, in accordo con la costituzione italiana e le leggi dei paesi europei, la pena mira a recuperare e non solo a punire. Il tema della sicurezza si limita a sfiorare superficialmente i principi ispiratori del nostro ordinamento – e proprio su questo verterà il presente paragrafo. Col terrorismo è necessaria una traslazione concettuale: non possiamo trattare come problema di ordine pubblico quale una rapina a mano armata o una rissa da stadio quello che è un attacco militare. Il salto concettuale è quindi più impegnativo: non dobbiamo solo mutare la tipologia di interesse giuridico da tutelare (dalla morale pubblica all’integrità fisica di una persona, dal quieto vivere alla sicurezza ed integrità nazionale) ma anche il livello operativo preposto alla tutela. Le nostre leggi, come sopra si accennava, sono inadeguate come i sistemi preposti a sanzionarne la violazione. I sistemi giudiziari europei e le magistrature non sono concepiti per attuare prevenzione di simili tragedie ex ante e nemmeno per punirne gli autori ex post bensì per – sempre ex post – erogare ai colpevoli (nel caso in un lungo ed incerto processo siano riconosciuti come tali) una qualche forma di pena. Tutto ciò è quanto di più inadeguato ad affrontare il problema: non impedisce al terrorista di colpire. Non impedisce che veri e propri atti militari siano compiuti contro la nostra popolazione civile. La cronaca restituisce di frequente casi di individui sospetti – che poi si rivelano effettivi membri di aggregazioni terroristiche – liberati dalla magistratura per assenza di prove concrete dopo che le forze di polizia ne avevano richiesto l’arresto ed attuato il fermo. Concettualmente non potrebbe essere diversamente: la magistratura non condanna sulla base di pur fondati indizi di intelligence, ma solo sulla base di prove e a fronte di reati effettivamente compiuti.
Il terrorismo va riconosciuto come tema di natura militare ed affidato agli apparati militari e di intelligence concedendo a questi adeguata franchigia operativa rispetto al resto del sistema giuridico per quanto concerne le indagini, la raccolta informativa, gli arresti, gli interrogatori e le detenzioni dei terroristi. Bisogna sottrarre il terrorismo al normale sistema giurisdizionale.

Il terrorismo: un quadro strategico e geopolitico.

Stabilire che un problema è di natura militare ci tiene ancora distanti dalle cause del problema stesso. E’ necessaria una corretta eziologia del fenomeno del terrorismo sedicente gihadista. Alle origini della quasi totalità delle principali aggregazioni terroristiche di marca salafita vi è, storicamente, il finanziamento, la collaborazione logistica o quanto meno la benevola neutralità di:
Paesi ufficialmente alleati dell’Occidente (inteso come NATO). Parliamo di Qatar, Arabia Saudita, altre monarchie del Golfo, Pakistan. Questi paesi vengono insensatamente definiti “paesi islamici moderati” per il loro legame finanziario ed economico con l’Occidente nonché per la loro comune ostilità ai nemici strategici della NATO (principalmente Russia ed Iran).
Paesi membri della NATO: Turchia, Francia e Regno Unito. Questi paesi hanno giocato un ruolo assai ambiguo nel loro rapporto col terrorismo salafita. La Turchia non ha mai combattuto il Daesh e ha invece permesso a migliaia di volontari europei di raggiungerlo e all’organizzazione stessa di esportare il proprio petrolio, il tutto in funzione anticurda e anti–Assad. Francia e Regno Unito hanno chiuso gli occhi sui terroristi diretti verso la Siria, hanno fornito appoggio politico e forse anche armamenti a ribelli siriani (diversi dal Daesh ma la cui moderazione è, per essere eufemistici, più che dubbia). Il Regno Unito ospita da decenni salafiti radicali cui fornisce asilo politico anche quando ricercati dai loro governi, ed è stato molto probabilmente coinvolto nell’armamento e nel sostegno tanto ai talebani afghani quanto ai ribelli ceceni.
I due paesi cardine dell’Occidente nell’area del Vicino Oriente: USA e Israele. Che gli Stati Uniti abbiano contribuito in modo sostanziale all’insurrezione globale dell’estremismo salafita e wahhabita è tema definitivamente e irrevocabilmente sottratto al complottismo e consegnato all’oggettività storica. Quanto ad Israele, spesso si sottace non solo il reciproco ignorarsi tra Israele da un lato e Al Qaeda e “Stato Islamico” dall’altro, ma anche il ruolo che il regime sionista ha svolto nel sostegno alla guerriglia antirussa in Afghanistan. Soprattutto è utile ricordare che Israele e “Stato Islamico” non si combattono
perché hanno due nemici comuni: il nazionalismo palestinese e l’Islam sciita.
I governi europei non possono condannare e additare come nemico il terrorismo che colpisce i loro cittadini e continuare ad intrattenere forti legami politici e militari coi suoi finanziatori, creatori e protettori – isolando i governi arabi che lo subiscono come minaccia alla propria sopravvivenza e i governi iraniano e russo che sono impegnati contro il medesimo nemico. Il terrorismo potrà anche sembrare religioso nei suoi pretesti, ma è geopolitico nelle origini e negli scopi. Due domande sono da porre alle classi dirigenti europee: come mai si concede la rappresentanza del mondo sunnita a paesi autoritari come la Turchia o a monarchie oscurantiste come quelle del Golfo che hanno come capofila l’Arabia Saudita, cardine dell’eterodossia wahhabita? Come mai si alimenta dall’altro lato la retorica del settarismo – tragica profezia autoavverantesi del sedicente califfato? Non tutti i musulmani sunniti del Vicino Oriente appoggiano il sedicente “Stato Islamico”; anzi la maggior parte di loro ne sono vittime. I Palestinesi sognano ancora un loro Stato indipendente e sovrano, e molti di loro sono ancora animati da ideali secolari e di sinistra. Tra i sunniti siriani molti sono ancora coloro che appoggiano il governo baathista, preferendolo al Daesh. Il pur travagliato cammino della Tunisia, paese omogeneamente sunnita in cui i sentimenti repubblicani cercano di prevalere, dovrebbe essere la risposta definitiva a chi per ignoranza e malafede vorrebbe consegnare tutti gli Arabi sunniti all’estremismo wahhabita e salafita.

Il terrorismo: cos’è e cosa non è

In primis, abbiamo dunque inquadrato il terrorismo come fenomeno militare e non di ordine pubblico. In secundis abbiamo riconosciuto che le cause del terrorismo – non esclusive ma principali – afferiscono al contesto geopolitico più che a quello religioso. In terzo luogo sappiamo anche che una trattazione a parte meriterebbe il ruolo giocato dall’emarginazione sociale dei migranti e dei loro discendenti nei paesi europei; il tema è assai significativo e complesso, di sicuro più che non la religione in qualche modo professata o presentata come giustificazione del loro operato da parte dei terroristi (molti dei quali sono però dei piccolo-borghesi in cerca di identità e non proletari emarginati: da qui un ulteriore livello di riflessione sul nichilismo strisciante e sull’alienazione nella società liberaldemocratica). La recente letteratura riconosce il percorso di radicalizzazione come un percorso si conversione in sé e indipendente dalla precedente esperienza di pratica della religione islamica. Il percorso con cui si diventa jihadista è spesso scollegato dall’essere musulmano praticante o persino rigoroso. Molti terroristi sono europei convertiti, ex criminali e sbandati, emarginati sociali e appunto anche piccolo-borghesi. La radicalizzazione avviene spesso in carcere, attraverso la rete o la frequentazione di associazioni radicali, più che non nelle moschee. La conoscenza dell’Islam e delle sue tradizioni da parte dei terroristi è spesso superficiale, esteriore ed abbozzata. Purtroppo i nostri media continuano ad insistere sul tema del rapporto tra Occidente ed Islam come culture, il che è concettualmente fuorviante e spinge le opinioni pubbliche a credere che gli attentatori di Parigi rappresentino in qualche modo – monoliticamente – un miliardo e mezzo di musulmani nel mondo.

Conclusioni: il livello tattico e la visione geopolitica

Tutto questo ci conduce al culmine del nostro discorso: fare sicurezza a livello operativo e tattico. Il terrorista contemporaneo è sì un obiettivo militare, ma non un obiettivo militare classico che si possa colpire da un bombardiere con azioni di alto livello propagandistico ma di scarsa, nulla o controproducente efficacia effettiva. I terroristi contemporanei si radicalizzano spesso in modo “fai da te” e operano per cosiddetti “sciami” (nella letteratura anglosassone si parla di “swarming”) più che per “eserciti” o “cellule”. Si tratta di strutture non rigidamente gerarchiche o verticali ma nemmeno basate su cellule indipendenti o lupi solitari. Gli sciami sono strutture “network-centered”, cellule sì autosufficienti, ma inserite in reti di terroristi (networks) che condividono conoscenza, informazioni, tattiche e spesso logistica a livello orizzontale (il che le rende difficili da decapitare) e con un riferimento verticale a livello ideologico, di immagine, finanziario e di addestramento. Le reti sono famigliari, amicali o costruite sul campo nei combattimenti in Siria o negli altri teatri del fronte terrorista. Le aggregazioni di questo tipo garantiscono flessibilità, elasticità e segretezza superiori a quello delle strutture gerarchiche ma anche una capacità offensiva superiore a quello dei semplici “lupi solitari”. Il processo di radicalizzazione è destrutturato, individuale e più difficile da monitorare. Gli strumenti tecnologici di comunicazione garantiscono la possibilità tecnica di mantenere vivo il network e quelli mediatici di terrorizzare l’opinione pubblica. I livelli gerarchici superiori (cui chiaramente non si rinuncia) basati in Medio Oriente, garantiscono addestramento militare, riferimento ideale e contribuiscono al coordinamento del finanziamento.
Una guerra contro un simile nemico non si vince bombardando alcuni campi di addestramento in Siria e nemmeno ripetendosi che l’Islam sia una “religione cattiva”. Si può quantomeno provare a combattere aumentando il livello operativo dell’intelligence potenziando il coordinamento tra le agenzie europee, non confidando solo sulla tecnologia (fondamentale data la difficoltà di infiltrare gli “sciami” e alla quale non frapporre eccessivi limiti legali) bensì anche su un ritorno all’HUMINT (raccolta informativa basata su fattori ed operatori umani, sull’infiltrazione laddove possibile e sull’interrogatorio una volta catturati i terroristi, collaborazione con i paesi d’origine e con le altre intelligence: la tecnologia fornisce molte informazioni, ma quelle di origine HUMINT sono forse più significative, di certo più dirette, più facili da gestire per la minor mole e più interpretabili) e sottraendo la lotta al terrorismo allo schema concettuale della tutela dell’ordine pubblico e alla magistratura civile e consegnandolo invece al livello militare. Dare la caccia ai terroristi è fondamentale: vanno trasformati da predatori a prede. Aumentare il livello di sorveglianza passiva ha efficacia limitata. Rende forse più complesso attuare un attentato, non lo rende impossibile. E’ poi fondamentale mostrare assoluta inflessibilità con i paesi protettori o anche solo ambigui con il terrorismo. Inflessibilità con Turchia, con Qatar e Arabia Saudita (questi ultimi non certo gli unici produttori di idrocarburi al mondo), presa atto della diversità delle priorità della politica estera di Washington (interessata al contrasto strategico di Russia e Cina e non alla sicurezza dei cittadini europei) e di quella europea (che dovrebbe mirare alla sicurezza dei propri civili ed alla propria indipendenza strategica) nonché maggior solidarietà col popolo curdo e con quello palestinese, con paesi sunniti quali l’Algeria e la Tunisia, con l’Iran e con la Russia – impegnati in prima linea nel contrasto al terrorismo di matrice salafita e wahhabita: ecco i capisaldi di una vera risposta geopolitica ai fatti di Parigi.

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ENTREVISTA A CLAUDIO MUTTI: “LA GUERRA CIVIL ISLÁMICA”

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¿Un choque de civilización entre Occidente y el Islam? Qué va, el conflicto actualmente en curso es (sobre todo) interior al mismo mundo musulmán. De ello está convencido Claudio Mutti, director de la revista Eurasia, que dedica en su último número un dossier a “La guerra civil islámica”. Y en este choque las facciones aparentemente más aguerridas (salafistas y wahhabitas), son justo las que tienen vínculos históricos con las fuerzas de occidente.

Adriano Scianca – El último editorial de Eurasia, la revista de geopolítica que usted dirige, se titula “La guerra civil islámica”. ¿Quiénes son los actores de este conflicto dentro de la religión musulmana y qué es lo que está en juego?

Claudio Mutti – La expresión “guerra civil islámica” utilizada en el editorial del trigésimo noveno número de Eurasia debe entenderse en un sentido amplio, ya que el actualmente en curso no es propiamente un conflicto en el que se enfrentan los ciudadanos de un mismo Estado, incluso si no faltan casos de guerra civil real; tratándose en cambio de un conflicto que opone a Estados, instituciones, corrientes, grupos pertenecientes al mundo musulmán, sería más exacto hablar de “guerra intraislamica”. El enfrentamiento en cuestión debe remontarse a la tentativa puesta en práctica por fuerzas históricamente cómplices del Occidente británico y estadounidense, para instaurar su hegemonía en el mundo musulmán. Gracias además a los petrodólares de los que pueden disponer, estas fuerzas, que sobre el plano ideológico se expresan (sobre todo, pero no solamente) en las desviaciones wahhabita y salafista, ejercen su influencia sobre una parte considerable de la comunidad de creyentes. Esta tentativa hegemónica, además de encontrar las renuencias del Islam tradicional, ha suscitado durante mucho tiempo la fuerte oposición del nasserismo (hasta Gaddafi) y de las corrientes revolucionarias. Hoy su principal obstáculo está representado por el Islam chiíta. De ahí el feroz sectarismo anti-chií que anima a los corrientes heterodoxas y que, por desgracia, también se ha extendido a áreas del Islam que se suponía exentas de ello.

AS – La intervención rusa en Siria parece haber cambiado el rumbo del conflicto. ¿Cree que es posible, para Assad, volver a la situación pre-bélica o ya una porción de su poder y de su soberanía puede darse en todo caso por perdida para siempre?

CM – El gobierno sirio, que todos daban ya por desahuciado, logró sobrevivir a una agresión y a una guerra civil durante más de cuatro años. La alianza euroasiática de Siria, Irán, Hezbollah y Rusia ha prevalecido sobre la coalición occidental y sobre el sedicente “Estado islámico” que la primera ha diseñado, financiado, armado y entrenado. Se trata de la primera derrota geopolítica infligida a los Estados Unidos y sus satélites desde el fin de la Guerra Fría. En este contexto, no creo que Assad deba temer una pérdida del propio poder, tanto es así que el presidente sirio se ha declarado dispuesto a afrontar nuevas elecciones presidenciales. Hace unos días, el 23 de octubre, después de reunirse con John Kerry y los ministros de exteriores turco y saudí, el ministro de Asuntos Exteriores ruso, Sergei Lavrov, ha desmentido del modo más categórico que durante las negociaciones sobre la crisis siria los participantes hayan abordado la cuestión de la dimisión del presidente Assad. Algo antes, Dmitrij Trenin, director del Carnegie Center de Moscú, dijo que para Putin “Assad no es una vaca sagrada” y que su único interés es “salvar el estado sirio, evitando que se fragmente como ha sucedido en Libia o en Yemen”. Sin embargo, una cosa es cierta: Rusia tiene considerables intereses geoestratégicos en Siria, un país que durante más de cuarenta años es su aliado y que alberga en Tartus la única base mediterránea de la Armada rusa. No sólo eso, sino que los rusos han construido una base aérea en Al-Ladhiqiyah (Laodicea), que es un bastión de Assad. No creo, por tanto, que Rusia quiera crear en Damasco las condiciones de un vacío de poder que daría a los aliados de los EEUU la forma de soplar de nuevo sobre el fuego del terrorismo.

AS – En estos días la situación se está caldeando demasiado en los territorios palestinos. ¿Por qué precisamente ahora se vuelve al borde de una “tercera Intifada”? ¿Es un fenómeno que puede ser enmarcado de alguna manera en la convulsión general de la zona?

CM – La “tercera Intifada”, la denominada “Intifada de los cuchillos”, es una gran oportunidad para el eje ruso-iraní, cuya línea estratégica puede abrir perspectivas de victoria para la causa palestina. Acabando con la monstruosidad representada por el sedicente “Estado islámico” y garantizando la seguridad de la República Árabe de Siria, el eje ruso-iraní conseguirá en efecto el resultado de modificar radicalmente la situación en el Oriente Medio. Como consecuencia de ello, el papel de Estados Unidos en la región resultará fuertemente redimensionado, y por lo tanto también la hegemonía de la entidad sionista será puesta en tela de juicio. Si la alianza ruso-iraní quiere llevar hasta el final las medidas adoptadas hasta el momento, tendrá que sostener de manera decisiva la lucha del pueblo palestino; pero los líderes palestinos deberán a su vez romper los vínculos con aquellos gobiernos de la región que sustentan la presencia estadounidense y son cómplices del régimen de ocupación sionista.

AS – ¿Cuál es la relación de las corrientes wahhabita y salafista con la religión islámica? ¿No representan una exacerbación o una perversión? ¿Y cuáles son, en cambio, sus vínculos con el Occidente anglo-americano?

CM – Los movimientos wahhabitas y salafistas, aunque nacidos en lugares y circunstancias históricas diferentes, declaran ambos luchar por un objetivo esencialmente idéntico: reconducir el Islam a aquello que era, al menos en la imaginación de sus seguidores, en el momento de las primeras generaciones de musulmanes. Estas corrientes rechazan tanto el magisterio espiritual ejercido por los maestros de las hermandades sufíes, como las normas de la Ley sagrada (Sharia) elaborada por las escuelas jurídicas tradicionales (sunitas y chiítas). Su interpretación del Corán y de la Sunna Profética (únicas fuentes de la doctrina que ellos reconocen) se caracteriza por un obtuso literalismo anti-espiritual que no rehúye incluso el antropomorfismo.

Desde su creación, estos movimientos heterodoxos y sectarios han actuado en connivencia con Gran Bretaña, convirtiéndose en instrumentos de sus planes de dominio en el mundo musulmán. El fundador del movimiento salafista, Al-Afghani, iniciado en la masonería en una logia del rito escocés de El Cairo, hizo entrar en la organización masónica a los intelectuales de su círculo, entre ellos a Muhammad ‘Abduh, quien en 1899 se convirtió en Mufti de Egipto con el plácet de los ingleses. Lord Cromer, uno de los principales artífices del imperialismo británico, definió a los seguidores de Muhammad ‘Abduh como “los aliados naturales del reformador occidental”.

En cuanto a los wahhabitas, Ibn Saud fue patrocinado por Gran Bretaña, que en 1915 fue el único estado en el mundo en establecer relaciones oficiales con el Sultanato wahhabita del Nejd y en 1927 reconoció el nuevo reino wahhabita del Nejd y del Hiyaz. Consejero de Ibn Saud fue Harry Philby, el organizador de la revuelta árabe anti-otomana, el mismo que apoyó ante Churchill, el barón Rothschild y Weizmann el proyecto de una monarquía saudita encargada de controlar por cuenta de Inglaterra la ruta a la India. Al patrocinio británico lo sustituyó luego el estadounidense; si ya en 1933 la monarquía saudí había otorgado en concesión a la Standard Oil el monopolio de la explotación petrolífera, y en 1934 había concedido a otra compañía estadounidense el monopolio de la extracción de oro, el 01 de marzo de 1945 el rey wahhabita selló la nueva alianza con los EEUU reuniéndose con Roosevelt a bordo del Quincy.

AS – Los dos recientes premios Nobel de la Paz y de Literatura tiene notables implicaciones geopolíticas. ¿Puede darnos su comentario?

CM – Debe tenerse presente que el premio Nobel no es en absoluto una institución neutral y libre de condicionamientos políticos. El Premio Nobel de la Paz, en particular, ha sido concedido más veces a personalidades de la política, de la cultura e incluso de la religión que han servido a los intereses de los Estados Unidos de América o del régimen sionista, quizás a través de la subversión, la mentira propagandística, la acción terrorista y la agresión militar contra otros países. Me limito a mencionar algunos nombres, sobre los que no es necesario hacer ningún comentario: Woodrow Wilson, Henry Kissinger, Menachem Begin, Lech Walesa, Elie Wiesel, el XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, Gorbachov, Aung San Suu Kyi, Shimon Peres, Yitzhak Rabin, Barack Obama. Este año el Premio Nobel de la Paz ha sido concedido al llamado Cuarteto para el diálogo nacional tunecino, en reconocimiento a su “contribución decisiva para la construcción de una democracia plural en Túnez a raíz de la Revolución del Jazmín en 2011”. En resumen, ha sido premiada la llamada “Primavera árabe”, es decir, el vasto movimiento de desestabilización que la “estrategia del caos” ha favorecido en las costas meridional y oriental del Mediterráneo. Análogo significado reviste también la decisión de conceder el Nobel de Literatura a una periodista sobre la que recae la acusación infamante de ser un agente de la CIA.

26 de octubre 2015

(Traducción de Página transversal)

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LA GUERRA CIVIL ISLÁMICA

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“Omnia divina humanaque iura permiscentur” (César, De bello civili, I, 6).

La guerra civil propiamente es un conflicto armado de amplias proporciones, en el que las partes beligerantes se componen principalmente de ciudadanos de un mismo Estado; objetivo de cada una de las dos facciones en lucha es la destrucción total del adversario, física e ideológica. Sin embargo, tal definición se puede aplicar ampliamente: Ernst Nolte, por ejemplo, llama “guerra civil europea” al conflicto de las dos ideocracias que, en el período comprendido entre la Revolución de Octubre y la derrota del Tercer Reich, trataron de aniquilarse recíprocamente. Guerra civil, pero combatida a escala global, fue también según Nolte la Guerra Fría, un “choque político-ideológico entre dos universalismos militantes, cada uno de los cuales estaba en posesión de al menos un gran estado, un choque en el que lo que estaba en juego era la futura organización de un mundo unitario” [1].

En cierta medida, es posible extender la definición de “guerra civil” al conflicto político y militar que, en el mundo musulmán de hoy, contrapone Estados, instituciones, movimientos, grupos y facciones pertenecientes a la misma comunidad (umma). Un conflicto de tal naturaleza se indica por el léxico islámico a través del término árabe fitna, al cual recurre el Corán, en donde se afirma “la sedición es más violenta que la matanza” (al-fitnatu ashaddu min al-qatl [2].

La primera fitna en la historia del Islam es la que rompió la comunidad musulmana durante el califato del Imam Alí. Concluida la revuelta de los notables de la Meca con su derrota en la Batalla del Camello, la fitna explotó una vez más con la rebelión del gobernador de Siria, Muawiya ibn Abi Sufyan, que, después de haber enfrentado en Siffín al ejército califal y después de apoderarse de Egipto, Yemen y otros territorios, dio comienzo en el 661 a la dinastía omeya. Una segunda fitna opuso al califa omeya Yazid Ibn Muawiya y al nieto del profeta Mahoma, al-Husayn ibn Alí, que el 10 de octubre de 680 conoció el martirio en la batalla de Karbala. La tercera fitna fue el choque dentro de la familia Omeya, que allanó el camino a la victoria abasí. La cuarta fue la lucha fratricida entre el califa abasí al-Amin y su hermano al-Ma’mun.

La primera y la segunda fitna, lejos de resolverse en un mero hecho político, están en el origen de la división de la umma islámica en las variantes sunita y chiíta: dos variantes correspondientes a dos perspectivas de la misma doctrina y por lo tanto definibles como “dimensiones del Islam inherentes a ella no para destruir su unidad, sino para hacer participar a una mayor parte de la humanidad y de individuos de diferente espiritualidad” [3]. Ahora, mientras la mayoría de los árabes, de los turcos, de los pakistaníes es sunita, como sunita es igualmente Indonesia, que es el más populoso de los países musulmanes, el núcleo más compacto y numéricamente consistente del Islam chiíta es representado por el pueblo iraní. Esta estrecha relación de Irán con la Chía se utiliza ahora en un marco estratégico inspirado en la teoría del “choque de civilizaciones”: los regímenes del mundo musulmán aliados de los Estados Unidos y de Israel recurren instrumentalmente al dualismo “Sunna-Chía” con el fin de excitar el espíritu sectario y dirigir las pasiones de las masas contra la República Islámica de Irán, pintada como enemiga irreductible de los suníes y presentada como el núcleo estatal de la hegemonía regional “neosafávida” (fue bajo la dinastía safávida cuando en la Persia del siglo XVI la Chía se convirtió en la religión del estado).

El alimento ideológico del sectarismo anti-chií consiste principalmente, aunque no exclusivamente, en las corrientes wahabitas y salafistas, que desde su aparición han sido objeto de reprobación y condena por parte de la ortodoxia suní. Acerca de la relación histórica de solidaridad que une tales manifestaciones de heterodoxia al imperialismo británico y estadounidense, ya lo hemos visto en otro lugar [4]. Aquí será oportuno observar que el producto más reciente y virulento de estas corrientes, es decir, el autodenominado “Estado Islámico” (Daesh, Isis, Isil, etc.), abiertamente apoyado por Arabia Saudita, Qatar y Turquía, es el instrumento de una estrategia norteamericana destinada a asegurar al régimen sionista la hegemonía en el Medio Oriente y por lo tanto a impedir la formación de un bloque regional que, desde Irán, se extienda hasta el Mediterráneo.

También es necesario señalar la significativa similitud entre el caricaturesco y paródico “Califato” de al-Baghdadi y la petromonarquía saudita. Los feroces y bestiales actos de sadismo perpetrados por los secuaces del así llamado “Estado Islámico”, la destrucción sacrílega de lugares de culto tradicionales y la vandálica destrucción de los sitios de la memoria histórica en Siria e Irak, de hecho, representan otras tantas réplicas de análogos actos de barbarie cometidos por los wahabitas en la Península Arábiga [5]. El así llamado “Estado islámico”, como se ha demostrado ampliamente en las páginas de esta revista [6], no es sino una forma radical y paroxística de aquella particular heterodoxia que tiene su propio epónimo en Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab. Por otra parte, tanto la entidad saudita como su réplica denominada “Estado Islámico” deben ambas su nacimiento y su desarrollo a los intereses angloamericanos y a las decisiones operativas de la geopolítica atlántica.

La “guerra civil” islámica, la fitna que estalla en el mundo musulmán de hoy, tiene por lo tanto en su origen la acción combinada de una ideología sectaria y de una estrategia que sus propios diseñadores han llamado “la estrategia del caos.”

* Claudio Mutti es director de “Eurasia”.

Notas

[1] Ernst Nolte, Deutschland und der Kalte Krieg (2ª ed.), Klett-Cotta, Stuttgart 1985, p. 16.
[2] Corán, II, 191.
[3] Seyyed Hossein Nasr, Ideali e realtà dell’Islam, Rusconi, Milán.
[4] Claudio Mutti, L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. IX, n. 4, octubre-diciembre 2012, pp. 5-11.
[5] Carmela Crescenti, Lo scempio di Mecca, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, no. 4, octubre-diciembre 2014, pp. 61 a 70.
[6] Jean-Michel Vernochet, Le radici ideologiche dello “Stato Islamico”, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, no. 4, octubre-diciembre 2014, pp. 81 a 85.

(Traducción de Página transversal)

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