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Channel: Alassane Ouattara – Pagina 8 – eurasia-rivista.org
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SUL “MANCATO ARRESTO” DEL PRESIDENTE SUDANESE

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Ha destato sorpresa e sconcerto nei vari ambienti dell’atlantismo il mancato arresto del presidente sudanese Omar al-Bashir durante il suo soggiorno in Sud Africa dove si trovava per partecipare al XXV vertice dell’Unione Africana.

Sulla sua testa pendono infatti due mandati d’arresto, spiccati dalla Corte Penale Internazionale nel 2009 e nel 2010, che il Sud Africa, in quanto firmatario dello Statuto di Roma (in vigore dal 2002), avrebbe dovuto far rispettare mettendo le manette ai polsi dell’illustre ospite giunto da Khartoum.

La rivista di geopolitica Limes, particolarmente avversa al “regime sudanese”, è arrivata a sostenere che Il mancato arresto di Bashir crea un precedente.

E sarà anche così, ma perché mai – riflettiamo un attimo – un capo di Stato dovrebbe essere arrestato all’estero perché una “corte internazionale” lo ritiene responsabile di “crimini di guerra”?

Oltretutto, di questa altisonante “istituzione” cui aderiscono centoventitré paesi non sono membri gli Stati Uniti e il cosiddetto “Stato d’Israele”, che non hanno mai ratificato il suddetto Statuto.

Che questi due soggetti si guardino bene dal darsi la zappa sui piedi lo si comprende fin troppo bene. Gli Stati Uniti sono praticamente sempre in guerra contro qualcuno causando immani stragi e distruzioni, mentre “Israele” trova assolutamente giustificabile la perpetua mattanza dei palestinesi. Sono, a tutti gli effetti, dei “criminali di guerra”, dagli albori della loro breve storia.

Sia Washington che Tel Aviv sono però in prima fila nel pretendere la testa del “boia di Khartoum”, e per giungere allo scopo non lesinano gli sforzi, da quelli consueti militari e d’intelligence a quelli più subdoli come le campagne di “sensibilizzazione” assegnate a divi di Hollywood.

A noi però l’ipocrisia e la manipolazione non piacciono per niente, quindi pensiamo che piuttosto che ricorrere a simili metodi ammantati di “legalità” sarebbe più onesto avere il coraggio di andarselo a prendere a casa sua, il “criminale”. Spiegando per filo e per segno a tutti che lo si va a prendere perché ci sta antipatico e perché non si piega ai nostri ordini.

Oltre a ciò, se proprio di “criminale” si tratta – e per giunta circondato, nel consesso delle nazioni africane, da perfette mammolette immacolate e, guarda caso, alleate dell’Occidente… – sarà il popolo del Sudan a doversene sbarazzare.

Ma – commenteranno i fautori ad oltranza (ma a geometria variabile) del “diritto internazionale” – è proprio contro la popolazione sudanese (quella del Darfur) che Omar al-Bashir ha scatenato tutta la sua efferatezza.

Qui, però, onestà intellettuale vorrebbe che si riconoscesse la posizione strategica del Sudan stesso, che difatti ha dovuto sopportare la secessione del sud, voluta fermamente dagli occidentali quando solo poco prima,a Nairobi, le parti in conflitto erano pervenute ad uno storico (e scomodo, per l’Occidente) accordo.

Il Sudan, posto praticamente al crocevia dell’Africa occidentale e di quella australe, il cui controllo determina anche quello dell’Egitto (per non parlare delle ricchezze minerarie e di quelle idriche), è una preda ambitissima da chi aspira al dominio planetario.

Che per essere raggiunto deve passare per quello, intermedio, da imporre a livello macroregionale, eliminando negli specifici contesti tutti quei soggetti refrattari ad una “normalizzazione” e all’appiattimento su un’unica “alleanza” che, automaticamente, ne esclude altre.

In altre parole, se al Sudan conviene e parecchio l’alleanza strategica con la Cina, la quale investe e garantisce prosperità ai suoi partner, non si capisce che cosa abbia da guadagnare da un allineamento all’America e ai suoi diktat, tanto più che con il potenziamento del dispositivo Africom non mostra alcuna intenzione di portare pace e benessere nel Continente Nero.

Ne sa qualcosa Gheddafi, che nell’Africa credeva molto: anch’egli nelle mire di queste ipocrite “istituzioni internazionali” che come tutte le altre rappresentano il paravento di chi, non avendo il coraggio di esplicitare le proprie intenzioni bellicose, ha l’esigenza di rivestirle di “nobili intenzioni”.

E a proposito di “precedenti”, non sarebbe forse il caso che qualche autorevole analista cominciasse a chiedersi se l’ignobile e proditorio attacco alla Jamahiriyya non ne abbia per l’appunto creato uno davvero sbalorditivo ed insopportabile?

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LE RADICI “MODERNE” DEL FANATISMO RELIGIOSO IN TUNISIA

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C’è una domanda che da qualche tempo è in attesa di una risposta.

Come mai la Tunisia è il paese arabo che fornisce il maggior numero di effettivi combattenti nelle file dell’ISIS?

Considerando le caratteristiche salienti del paese nordafricano, con una popolazione di soli undici milioni di abitanti (ed una consolidata “identità nazionale” che origina da una storia di svariati secoli), molti analisti non riescono a darsi conto di questa “stranezza”. E non si capacitano come mai, proprio dove la “Primavera araba” – con le sue domande di “democrazia” e di “libertà” – avrebbe avuto un certo successo, così tanti giovani si fanatizzino ad un punto tale da sparare addosso ad inermi turisti.

C’è poi chi cerca di spiegare un’elevata percentuale di aderenti alle ideologie islamiche che convergono nel “Califfato” rilevando la povertà, l’esclusione sociale, e la rabbia e la frustrazione che quelle si portano dietro. Ma altri sottolineano al contrario la “contraddizione” tra un relativo benessere, un discreto livello d’istruzione (se paragonato con quello di altri paesi arabi) e l’infatuazione per ideologie “totalizzanti”.
Ma girano tutti a vuoto e non verranno mai a capo del “problema”.
Questo perché sono innamorati delle loro idee fisse. Delle loro fisime “moderne”.

Lo si comprende bene quando alcuni che scrivono su giornali e riviste “autorevoli” restano sbalorditi dal fatto che nel paese arabo più “laico” possano venire su tutti questi “integralisti”.

Non lo volete capire che è proprio la laicizzazione, e cioè l’esclusione della religione da ogni ambito della vita pubblica, da tutto ciò che gli occidentali concepiscono come “profano”, a creare le premesse per il dramma in atto?

Intendo dire che in una società dove un famoso “padre della Nazione”, Habib Bourghiba, si compiacque addirittura di scolarsi pubblicamente un bicchier d’acqua in pieno Ramadan con la scusa della “guerra al sottosviluppo” (e fornito di regolare – si fa per dire – fatwa di un giurisperito cortigiano); e dove il successore, in mezzo ad un’innegabile “stabilità” e qualche successo economico, ha perseguito con tenacia e ferocia la cura “laicista” per la Tunisia; ecco, con simili premesse, non ci si può sorprendere se poi quando una parte della gioventù “torna” alla religione lo fa nella maniera sbagliata.

In poche parole, quando si fa tabula rasa della religione, riducendola al limite ad un fatto intimistico e escludendola assolutamente dall’ambito pubblico, accade che prima o poi una popolazione, alla ricerca di se stessa, pretende di “tornare” ad una pretesa “origine” inscenandone invece una parodia.
La disaffezione verso un Islam radicato nella tradizione locale a favore di quello dei telepredicatori e dei “mufti on line”, tra i quali abbondano i wahhabiti e i loro derivati, ha completato il disastro.

Si scorrano le biografie di tutti questi novelli “jihadisti”. Di questi “eroi” che sbarcano dal canotto per mitragliare famiglie sulla spiaggia.

Nessuno di loro che seguisse una guida spirituale autentica. Tutti mezze tacche, sfigati esistenziali che fino a un paio d’anni prima caricavano filmini patetici su YouTube scimmiottando i rapper o ballando la breakdance. “Religiosi” tanto quanto lo poteva essere un giovane occidentale infarcito di propaganda ideologica negli anni Settanta.

Esclusi (o autoesclusi) anche dalle moschee “normali” perché eccessivi, per non parlare dei centri spirituali, ancora attivi in Tunisia, nei quali operano ancora degli shaykh (guide spirituali) a favore di un Islam vivente e sostanziale. Centri preclusi per definizione a chi nella religione cerca solo la “lettera” e un pretesto per giustificare la propria agitazione.

Certo, non vogliamo nascondere che anche i “rappresentanti” di un Islam “quietista” portino le loro responsabilità, avendo sottaciuto e perciò avallato di fatto tante ingiustizie dei regimi impostisi nel Maghreb e nel Mashreq nel secondo dopoguerra. Ma quelli dovevano stare come tra l’incudine e il martello, tra le due false opposizioni del “laicismo” e del “fondamentalismo”, per cui hanno badato a salvare l’essenziale. Per questo, anche in Stati cosiddetti “laici”, la vita della maggioranza della gente, del “popolo”, scorre ancora in maniera abbastanza tradizionale.

Ma per tornare alla domanda dell’inizio, non escludendo a priori altri fattori concomitanti, per cominciare a capire qualcosa della cosiddetta “radicalizzazione” (meglio sarebbe dire “fanatizzazione” o “manipolazione”) di migliaia di tunisini si dovrebbe avere l’umiltà di capire che questo “mostro” che ci fa tanta paura nasce dal ventre della “modernità” e non dalla “tradizione”, come ancora qualche mestatore fornito di credenziali accademiche e/o giornalistiche intende far credere.

Non, dunque, con nuove campagne “democratizzanti” si dovrebbe procedere in quei contesti, bensì con un’azione pervasiva, dal basso e con l’appoggio delle istituzioni, per una riscoperta delle radici autentiche della propria tradizione religiosa.

Questo è un buon “radicamento”, mentre la “radicalizzazione” di cui cianciano certi “esperti” è solo un artificio lessicale per nascondere le responsabilità, in questa tragedia, di un “laicismo” che dietro di sé, oltre a stuoli di giovani assolutamente indifferenti alla religione, ha lasciato individui insoddisfatti in preda alle peggiori illusioni di una religiosità fai da te, appresa su internet o in televisione, che come quella del cosiddetto “fondamentalismo” ha molto più a che fare con la “modernità” di quanto possa averne con una “tradizione” vittima dell’attacco congiunto dei prodotti ideologici di quest’epoca di disordine e di falsità.

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USO OCIDENTAL DO ISLAMISMO

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Em seu famoso livro “O Choque de Civilizações” Samuel Huntington afirma que o verdadeiro problema do mundo ocidental não é o fundamentalismo islâmico, mas o Islã em si. O ideólogo americano explica que o Islã é um inimigo estratégico do Ocidente, porque o confronto entre os dois é um conflito existencial entre valores seculares e valores religiosos, direitos humanos e direito divino, democracia e teocracia. Portanto, enquanto o Islã permanecer o Islã e o Ocidente permanecer o Ocidente, o conflito marcará suas relações mútuas.

A afirmação de Huntington indica não apenas o inimigo estratégico do Ocidente, mas também seu aliado tático, que é o fundamentalismo islâmico. Porém em 1996, quando “O Choque de Civilizações e a Reconstrução da Ordem Mundial” foi publicado, tal aliança tática já existia.

Um ex-embaixador árabe, que já havia servido nos EUA e na Grã-Bretanha, escreve: “É um fato que os EUA tem estipulado alianças com a Fraternidade Muçulmana para expulsar os soviéticos do Afeganistão e que desde então os EUA tem cortejado a corrente islamista, apoiando sua propagação por todo o mundo muçulmano. Em relação aos islamistas, a maioria dos governos ocidentais tem seguido o exemplo de seu principal aliado e tem adotado uma atitude que vai da neutralidade benevolente à conivência resoluta”. (1)

O apoio ocidental ao dito integralismo ou fundamentalismo islâmico não começa no Afeganistão em 1979, onde seis meses antes da intervenção soviética a inteligência americana havia começado a ajudar a guerrilha afegã (como o ex-diretor da CIA Robert Gates escreve em seu livro “Desde as Sombras”). Esse apoio data dos anos 50 e 60 do último século quando Grã-Bretanha e EUA, considerando o Egito nasserista como o principal obstáculo para a hegemonia ocidental no Mediterrâneo, prestaram sua ajuda à Fraternidade Muçulmana. Um genro do fundador do movimento, Sa’id Ramadan, que criou um importante centro islâmico em Munique, recebeu dinheiro e instruções do agente da CIA Bob Dreher. Segundo o projeto explicado por Sa’id Ramadan a Arthur Schlesinger Jr.: “Quando o inimigo está armado com uma ideologia totalitária e é servido por regimentos de crentes devotos, aqueles com políticas opostas devem competir ao nível popular de ação e a essência de suas táticas deve ser a contra-fé e a contrarrevolução. Apenas forças populares, genuinamente envolvidas e genuinamente reativas por si próprias, podem confrontar a ameaça infiltradora do comunismo”. (2)

A exploração dos movimentos islamistas úteis à estratégia atlantista não terminou com o recuo do Exército Vermelho do Afeganistão. A ajuda fornecida pela administração Clinton ao separatismo bósnio e kosovar, o apoio americano e britânico ao terror wahhabi no Cáucaso, o apadrinhamento dado por Brzezinski a movimentos fundamentalistas na Ásia Central, a intervenção na Líbia e Síria, são episódios de uma guerra travada contra a Eurásia, na qual os norte-americanos e seus aliados se voltaram para a colaboração islamista.

Rachid Ghannouchi, que em 1991 recebeu elogios de George Bush pelo papel desempenhado na mediação do acordo entre facções afegãs, tentou justificar o colaboracionismo islamista, rascunhando uma imagem idílica das relações entre os EUA e o mundo muçulmano. Falando com um jornalista francês que lhe perguntou se ele considerava os norte-americanos mais conciliatórios em relação aos muçulmanos do que os europeus, o fundador da An-Nahda respondeu afirmativamente, porque “um colonialismo americano jamais existiu nos países muçulmanos; nenhuma Cruzada, nenhuma guerra, nenhuma história”; ademais, Ghannouchi relembrou a luta comum de norte-americanos, britânicos e islamistas contra o inimigo bolchevique (3).

A “Nobre Tradição Salafista”

Como um orientalista italiano escreve, a corrente islamista representada por Rachid Ghannouchi “remete à nobre tradição salafista de Muhammad Abduh e possui uma versão mais moderna no movimento da Fraternidade Muçulmana” (4).

Retornar ao Islã puro dos “pios antepassados” (as-salaf as-salihin) e fazer uma varredura da tradição originada pelo Corão e pela Sunnah do Profeta no curso dos séculos: esse é o programa da corrente reformista cujos iniciadores foram Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897) e Muhammad Abduh (1849-1905).

Al-Afghani, que em 1883 fundou a Sociedade Salafiyya, em 1878 havia sido iniciado em uma loja maçônica do rito escocês em Cairo. Ele introduziu seus discípulos na Maçonaria; entre eles, Muhammad Abduh se tornou o Mufti do Egito em 1899 com o consentimento das autoridades britânicas.

“Eles merecem todo encorajamento e apoio que possa ser dado. Eles são os aliados naturais do reformador ocidental” (5). Esse reconhecimento explícito do papel desempenhado pelos reformistas Muhammad Abduh e Si Sayyid Ahmad Khan (1817-1889) foi dado pelo Lorde Cromer (1841-1917), um dos principais arquitetos do imperialismo britânico no mundo muçulmano. De fato, Ahmad Khan afirmou que “a dominação britânica da Índia é a coisa mais bela já vista pelo mundo” e que “não é islamicamente legítimo se rebelar contra os ingleses até que eles respeitem o Islã e os muçulmanos tenham permissão de praticar sua religião”, enquanto Muhammad Abduh transmitiu as ideias racionalistas e cientificistas do Ocidente ao milieu islâmico. Segundo Abduh, na civilização moderna não há nada que contraste com o Islã (ele identificava os jinns com os micróbios e estava persuadido de que a teoria evolucionista de Darwin estava contida no Corão); daí a necessidade de revisar e corrigir a doutrina tradicional, submetendo-a ao juízo da razão e saudando as contribuições científicas e culturais do pensamento moderno.

Após Abduh, o líder da corrente salafista foi Rashid Rida, que após o fim do Califado Otomano planejava o nascimento de um “partido islâmico progressista” capaz de criar um novo Califado. Em 1897, Rashid Rida havia fundado uma revista, “Al Manar”, que foi difundida no mundo árabe e também por outros lugares; após a morte de Rida, seu editor foi outro representante do reformismo islâmico, Hasan al-Banna (1906-1949), o fundador da Fraternidade Muçulmana.

Enquanto Rashid Rida teorizava o nascimento de um novo e reformado Estado Islâmico, na Península Arábica nascida o Reino Saudita, governado por outra ideologia reformista: o wahhabismo.

A Seita Wahhabi

O nome da seita wahhabi vem do patronímico de Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1792), um seguidor da escola hanbali que se tornou entusiástico pelos textos da jurisprudência literalista de Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328). Um intérprete de símbolos corânicos desde uma perspectiva antropomórfica e inimigo mortal do sufismo, Ibn Taymiyya foi frequentemente acusado de heterodoxia e mereceu a definição de “pai dos movimentos salafistas” (6). Seguindo seus ensinamentos, Ibn Abd al-Wahhab e os wahhabis condenaram como politeísmo idólatra (shirk) a fé na intercessão de profetas e santos, de modo que eles consideravam como “politeístas” (mushrik) também o crente devoto invocando o Santo Profeta ou orando a Deus próximo ao altar de um sheik.

Os wahhabis atacaram as cidades sagradas dos xiitas, saqueando suas mesquitas; após tomarem posse de Meca e Medina, eles demoliram as tumbas dos Companheiros e mártires e até violaram o túmulo do Profeta Maomé; eles baniram as organizações iniciáticas e práticas dos sufis, aboliram a celebração do aniversário do Santo Profeta, extorquiram dinheiro dos peregrinos, suspenderam a Peregrinação à Santa Casa de Deus, emitiram as proibições mais bizarras e estranhas.

Após terem sido derrotados pelo exército otomano, os wahhabis se separaram apoiando duas dinastias rivais (Saud e Rashid) e durante um século suas guerras civis cobriram a Península Arábica com sangue, até que Ibn Saud (1882-1953) modificou a condição da seita. Sendo apoiado pela Grã-Bretanha, que em 1915 havia instaurado relações oficiais com ele e tornado o Sultanato de Najd um “semiprotetorado” (7), Ibn Saud ocupou Meca em 1924 e Medina em 1925. Dessa maneira ele se tornou “Rei do Hedjaz e Najd e suas dependências”, segundo o título deferido a ele pela Grã-Bretanha no Tratado de Jeddah em maio de 1927.

“Suas vitórias – disse um famoso orientalista – o tornaram o mais poderoso soberano na Arábia. Seus domínios alcançam o Iraque, Palestina, Síria, o Mar Vermelho e o Golfo Pérsico. Sua personalidade proeminente se impôs pela criação do Ikhwan, i.e. os Irmãos: uma fraternidade de ativistas wahhabis que o inglês Philby chamou de ‘uma nova maçonaria’.” (8)

O Philby mencionado era Harry St. John Bridger Philby (1885-1960), organizador da revolta árabe anti-otomana, que “na corte de Ibn Saud ocupava o assento do falecido Shakespeare” (9), como escreveu hiperbolicamente outro orientalista. Esse novo Shakespeare expôs seu projeto a Winston Churchill, Jorge V, o Barão Rothschild e Chaim Weizmann: um reino saudita usurpando a custódia dos Lugares Santos (tradicionalmente devido à dinastia hashemita) seria capaz de unificar a Península Arábica e controlar a via marítima Suez-Aden-Mumbai em nome da Inglaterra.

Após a Segunda Guerra Mundia, durante a qual a Arábia Saudita observou uma neutralidade pro-inglesa, o patronato britânico foi gradualmente substituído pelo norte-americano. Em 1 de março de 1945, a bordo do Quincy, Roosevelt teve um encontro histórico com Ibn Saud, que “sempre havia sido grande admirador da América, a qual ele preferia à Inglaterra” (10), como orgulhosamente observou um compatriota do presidente americano. De fato, desde 1933 a monarquia saudita havia entregue a concessão pra exploração de petróleo à Standard Oil Company da Califórnia e desde 1934 a companhia americana Saudi Arabian Mining Syndicate teve o monopólio da escavação e mineração de ouro.

A Fraternidade Muçulmana

Para conter o pan-arabismo nasseriano, o nacional-socialismo ba’athista e – após a revolução islâmica no Irã – a influência xiita, a nova família real de Saud precisava de uma “Internacional” como apoio para sua hegemonia no mundo muçulmano. Assim, a Fraternidade Muçulmana pôs à disposição de Riad sua rede de militantes, que foi fortalecida por financiamento saudita. “Após 1973 rendas melhores derivadas do mercado petrolífero são designadas para a África e para as comunidades muçulmanas no Ocidente, onde um Islã não muito bem estabelecido corre o risco de abrir as portas para a influência iraniana” (11). Porém, a sinergia entre a monarquia wahhabi e o movimento fundado por Hasan al-Banna (1906-1949) está baseada em um fundamento ideológico comum, porque a Fraternidade Muçulmana é “herdeira direta, ainda que nem sempre estritamente fiel, da salafiyyah de Muhammad Abduh” (12) e porta em seu DNA a tendência a aceitar a civilização ocidental moderna, com todas as devidas reservas.

Tariq Ramadan, neto de Hasan al-Banna e representante da intelligentsia reformista muçulmana, interpreta o pensamento do fundador do movimento: “Como todos os reformistas que o precederam, Hasan al-Banna nunca demonizou o ocidente. (…) O Ocidente permitiu à humanidade dar grandes passos desde o Renascimento, com o início de um amplo processo de secularização (uma contribuição positiva, considerando a especialidade da religião cristã e da instituição clerical” (13). O intelectual reformista lembra que seu avô, realizando a atividade de professor escolar, derivou inspiração nas teorias pedagógicas ocidentais mais recentes e reporta uma passagem significativa escrita por ele: “Das escolas ocidentais e seus programas devemos tomar o constante interesse pela educação moderna, seu método de lidar com demandas e a preparação para o aprendizado (…) Nós devemos tirar vantagem de tudo isso, sem timidez: a ciência é um direito de todos” (14).

A tal “Primavera Árabe” provou que a Fraternidade Muçulmana, apoiada pelos EUA na Líbia, Tunísia, Egito e Síria, está disposta a aceitar aqueles pontos ideológicos ocidentais fundamentais que – como Huntington ressaltou – conflitam com o Islã. O partido egípcio “Liberdade e Justiça”, nascido da iniciativa da Fraternidade e controlado por ela, apela aos direitos humanos, defende a doutrina democrática, apoia a economia capitalista, não recusa empréstimos das instituições usurocráticas internacionais. O irmão muçulmano tornado presidente egípcio estudou nos EUA, onde foi palestrante assistente na Universidade do Estado da Califórnia; dois de seus filhos são cidadãos americanos. Ele declarou imediatamente que o Egito observará todos os tratados estipulados com outros países (incluindo Israel); ele fez sua primeira visita oficial à Arábia Saudita e declarou sua vontade de fortalecer as relações egípcias com Riad; ele proclamou um “dever ético” de apoiar a oposição armada lutando contra o governo sírio.

Se a tese defendida por Huntington sobre o Islã e o islamismo precisa de uma prova, parece que ela foi dada pela Fraternidade Muçulmana. 

NOTE
1. Redha Malek, Tradition et revolution. L’enjeu de la modernité en Algérie et dans l’Islam, ANEP, Rouiba (Algeria) 2001, p.218.

2. http://www.american-buddha.com/lit.johnsonamosqueinmunich.12.htm

3. “Les Américains vous semblent-ils plus conciliants que les Européens? — A l’égard de l’islam, oui. Il n’y a pas de passé colonial entre les pays musulmans et l’Amérique, pas de croisades; pas de guerre, pas d’histoire… — Et vous aviez un ennemi commun: le communisme athée, qui a poussé les Américains а vous soutenir… — Sans doute, mais la Grande- Bretagne de Margaret Thatcher était aussi anticommuniste…“ (Tunisie: un leader islamiste veut rentrer, 22/01/2011; http:// plus.lefigaro.fr/article/tunisie-un-leader-islamiste-veut-rentrer-20110122-380767/commentaires).

4. Massimo Campanini, Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 137.

5. Quoted by Maryam Jameelah, Islam and Modernism, Mohammad Yusuf Khan, Srinagar-Lahore 1975, p. 153.

6. Henry Corbin, Storia della filosofia islamica, Adelphi, Milano 1989, p. 126.

7. Carlo Alfonso Nallino, Raccolta di scritti editi e inediti, Vol.I L’Arabia Sa’udiana, Istituto per l’Oriente, Roma 1939, p. 151.

8. Henri Lammens, L’Islаm. Credenze e istituzioni, Laterza, Bari 1948, p. 158.

9. Giulio Germanus, Sulle orme di Maometto, vol. I, Garzanti, Milano 1946, p. 142.

10. John Van Ess, Incontro con gli Arabi, Garzanti, Milano 1948, p. 108.

11. Alain Chouet, L’association des Frиres Musulmans, http://alain.chouet.free.fr/documents/fmuz2.htm.

12. Massimo Campanini, I Fratelli Musulmani nella seconda guerra mondiale: politica e ideologia, “Nuova rivista storica“,a. LXXVIII, fasc. 3, sett.-dic. 1994, p. 625.

13. Tariq Ramadan, Il riformismo islamico. Un secolo di rinnovamento musulmano, Cittа Aperta, Troina 2004, pp. 350-351.

14. Hassan al-Banna, Hal nusir fi madrasatina wara’ al-gharb, “Al-fath“, Sept. 19th 1929, quoted by Tariq Ramadan, Il riformismo islamico, p. 352.

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LA TATTICA DELLA “GUERRA SENZA RISCHI” CON L’UTILIZZO DEGLI UAV

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Gli investimenti programmati per l’implementazione dei sistemi d’arma, sono stanziati principalmente per la robotica ed i sistemi cibernetici. La finalità è ridurre il tempo che intercorre fra il rilevamento dell’obiettivo ed il suo ingaggio. La continua evoluzione dello spazio bellico e l’asimmetricità delle minacce, hanno consentito lo sviluppo ed il conseguente impiego di sistemi a controllo remoto, un mercato che vale 950 milioni di dollari, con un trend positivo che potrebbe raggiungere i 2 miliardi nei prossimi anni sino a raggiungere i 28 miliardi di dollari fra dieci anni. La strategia d’impiego dei velivoli a pilotaggio remoto segue la dottrina della “Guerra senza rischi”. Questo concetto è fondato sulla tattica di posizionare le proprie forze armate lontano dagli ambienti ad alta conflittualità e condurre le operazioni in aree prive di rischi. Ciò, però, costringe gli strateghi ad una riformulazione delle strategie militari ed a ridisegnare lo spazio bellico, dunque ad interpretare in maniera innovativa gli scenari di guerra e l’evoluzione dell’impiego delle forze terrestri. L’efficacia degli UAV, se paragonata ad altri sistemi d’arma, è particolarmente valida nelle operazioni convenzionali anti-terrorismo e come alternativa all’impiego delle truppe su vasta scala, infatti, l’obiettivo fissato è quello di ridurre numericamente l’impiego dei militari sul campo per lasciare il posto agli interventi mirati nelle missioni UAV, definite “uccisioni mirate”. Il massivo utilizzo dei droni armati nei conflitti contemporanei, ha restituito come prodotto l’azzeramento delle perdite dei piloti, confortando la dottrina del senza rischio, ma ha diminuito sostanzialmente l’accuratezza al bersaglio con il conseguente aumento di vittime civili, il cui numero non è precisabile in quanto molte operazioni con i velivoli a controllo remoto sono coperte dal segreto. Un aspetto che sta diventando centrale e controverso negli ambienti militari, è l’impatto psicologico sui piloti che combattono da consolle sistemate in aree protette. Tecnicamente è definito: “impersonalizzazione della battaglia”. L’effetto principale che produce è l’abbassamento della soglia operativa, pertanto l’estraneazione del pilota dal teatro delle operazioni con la risultanza di aumentare esponenzialmente i danni collaterali e la dipendenza dalla componente robotica. Il pilota potrebbe distaccarsi dalla missione stessa, una dissociazione che implicherebbe la completa estraneazione dalle sue azioni. È esplicativo il concetto espresso da Albert Camus, in base al quale non si può uccidere se non si è pronti a morire. La “ragion di guerra” giustifica solo l’uccisione di coloro che a ragione sono suscettibili di essere uccisi, ossia i soldati, i quali a differenza dei civili, sono consapevoli del pericolo di perdere la vita.

In base al diritto internazionale verrebbero ad essere lesi i principi di proporzionalità e discriminazione dei non combattenti. Come esposto da Michel Walzer, è necessario incentrare l’attenzione sulla dicotomia tra guerra ed autodifesa. Alla prima non si può assegnare l’idea metafisica di estremo, dove le operazioni belliche rappresenterebbero l’estrema ratio per risolvere una controversia, infatti l’estremo è irraggiungibile e nel caso della guerra è sempre possibile tentare di risolvere le dispute con la diplomazia. I belligeranti avrebbero l’obbligo di discernere i bersagli legittimi da quelli illegittimi, un principio regolato dalla natura del target. Inoltre, dovrebbe essere bilanciato il grado di violenza adoperato per distruggere il bersaglio, un concetto di proporzione che prevede una forza maggiore se l’obiettivo è strategico, od una minore se dovesse trattarsi di una entità di basso profilo. Come descritto dal giurista Carl Schmitt, la “justa causa”, non deve prescindere dallo “justus hostis”, ossia il nemico non è inumano e non può essere combattuto con ogni mezzo, perciò dovrà essere affrontato come un individuo dai pari diritti contro il quale è necessario limitare l’uso della forza. Inoltre, nella dottrina dello “jus in bello”, è contemplata la discriminazione degli obiettivi, in quanto ledere il commercio e l’economia dell’avversario coinvolge non solo l’Industria della Difesa, bensì i cittadini e non ultimo il Paese neutrale che intrattiene rapporti commerciali con il nemico.

Al fine di non abbassare la percezione della soglia di rischio dell’operatore, l’armamento dell’UAV a lui assegnato, dovrebbe essere di media letalità, ed il bersaglio meno fortificato e dunque facilmente violabile. In tal modo il pilota conserverebbe la coscienza di operare in un ambiente a bassa conflittualità, con la consapevolezza che non avrebbe corso il rischio di perdere la vita se si fosse trovato a bordo di un aeromobile. I droni sono costantemente in volo sui teatri delle operazioni e possono colpire qualsiasi target, sia civile che militare e questo ingenera un impatto sulla comunità civile che può essere fonte di ansia e traumi psicologici. Pertanto il pilota dalla sua postazione remota, in qualche modo trasferisce i suoi rischi verso altri soggetti, in quello che viene definito “trasferimento del rischio”, ed è tra gli effetti principali ingenerati dalla diminuzione della soglia di rischio dell’operatore. Una sorta di invincibilità ed inviolabilità che si traduce in azioni illegittime e contrarie al diritto internazionale.

I droni, oramai assorti a sistema d’arma fondamentale per la difesa, sono in continua evoluzione sia tecnologicamente che numericamente: La Russia dedicherà loro la base di Anadyr, nel Circolo Polare Artico, e diventerà quella più a nord dell’Equatore. Gli Stati Uniti hanno testato l’X-47B, in grado di decollare ed appontare su una portaerei, il cui impiego sarà concentrato verso obiettivi di matrice terroristica. Il vantaggio fondamentale nel disporre di un velivolo con tali peculiarità, è quella di non dover dipendere dalle autorizzazioni di Paesi terzi per utilizzare le loro basi. Sempre gli USA, stanno implementando il programma LOCUST, Low Cost UAV Swarming Technology, che consiste in un lancio multiplo di 30 piccoli droni. Saranno dei velivoli ad ala fissa lanciabili da tubi montati su unità di superficie o su mezzi terrestri mobili. Il vantaggio fondamentale sarà quello di costringere l’avversario ad ingaggiare bersagli multipli piuttosto che uno singolo. La filosofia costruttiva è imperniata sul basso costo, in quanto il piccolo UAV non sarà recuperabile, ed anche economicamente questa tattica avrà un vantaggio, soprattutto se paragonata all’eventuale perdita di un Reaper che vale oltre 15 milioni di dollari, o di un cacciabombardiere come l’F-35 il cui costo supera i 135 milioni di dollari. I test dei LOCUST sono in stadio avanzato e lo swarm dei 30 piccoli droni potrebbe essere operativo dal 2016. l’Europa ha in fase di sviluppo il progetto Medium Altitude Long Endurance, una partnership fra Airbus Defence and Space, Dassault Aviation ed Alenia Aermacchi. Il sistema aereo europeo a pilotaggio remoto per missioni a lunga durata a medie quote è la risposta ai requisiti delle forze armate continentali. Un progetto che definirà meglio il quadro delle alleanze strategiche nel contesto dell’UE, infatti sarà necessario ottimizzare la condivisione di fondi per la ricerca e lo sviluppo in un periodo di crisi economica. Il progetto MALE promuoverà le tecnologie avanzate sostenendo la catena del valore europeo e garantendo l’occupazione nell’Industria della Difesa in Europa. L’Airbus Defence and Space è il principale gruppo aerospaziale europeo e conta circa 40.000 dipendenti con un fatturato annuo di 14 miliardi di euro. La Dassault Aviation è una realtà a livello mondiale in termini di sviluppo e progettazione con commesse ricevute da oltre 80 diversi paesi. Gli introiti si sono attestati ad oltre 4,5 miliardi di euro che garantiscono l’occupazione ad oltre 11.000 addetti. L’Alenia, società del gruppo Finmeccanica, impiega oltre 11.000 dipendenti nella progettazione, produzione e supporto integrato dei velivoli civili e militari. Nel 2013 ha ottenuto ricavi pari ad oltre 3 miliardi di euro, ordini per quasi 4 miliardi con un portafoglio che raggiunge i 9 miliardi di euro. Nell’ambito del programma “smart defence” di cui fa parte l’Alliance Ground Surveillance, è stato coinvolto l’asset italiano di Sigonella, dove sono stati schierati 5 Global Hawk e 6 Predator. L’Aviation Industry Corp of China ha in programma la costruzione di droni low cost per competere sul mercato internazionale, entrando in un segmento dove vale l’interesse di tutti quei paesi che non possono accedere alla tecnologia più avanzata, ed ugualmente a quelli esclusi dall’Occidente. La vulnerabilità dei velivoli cinesi è notevole rispetto a quelli statunitensi od israeliani, ma la necessità di possedere questo sistema d’arma ha convinto Nigeria, Pakistan ed Egitto ad ordinarne alcuni esemplari. L’esportazione del sistema d’arma cinese, può avere implicazioni che travalicherebbero quelle puramente economiche. La tecnologia low cost applicata sugli UAV di Pechino, potrebbe essere integrata su piccoli jet, convertendoli in un sistema di attacco autonomo a servizio di entità terroristiche. Il know-how qualificato a tale mutazione non sarebbe così elevato da richiedere l’ausilio di tecnici specializzati, pertanto sarebbe di facile accessibilità a chiunque possieda i rudimenti di tale tecnologia. Il budget asiatico è stimabile ai 7 miliardi di dollari entro il 2020, con la Cina protagonista, la quale potrebbe attestarsi entro il 2023 come maggior produttore mondiale.

La proliferazione di questo sistema d’arma, le sue peculiarità e l’utilizzo indiscriminato, potrebbero ingenerare impatti negativi non solo sulla popolazione civile ma anche nelle attività economiche dei paesi bersaglio. Pertanto è possibile che nel medio e lungo termine diventi necessaria una regolamentazione sia per gli impieghi che per il numero degli esemplari costruiti.

 

Bibliografia
Stefano Borgiani, “L’impiego dei droni dopo Patreus”. Affari Internazionali, 2012
Stefano Orsi, “Locust, uno sciame di droni a protezione della marina militare americana”. Dronezine, 2015
Alessio Marchionna, “Tutto sui droni”. Il Post, 2013
Redazione, “Le industrie unite per un drone italo-franco.tedesco”. Analisi Difesa, 2014
Michele Perri, “La guerra della Cina agli Stati Uniti sul mercato dei droni militari”. Formiche, 2015

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DISCORSO DELLA GUIDA SUPREMA DELLA REP. ISL. DELL’IRAN IN OCCASIONE DELL’INTIFADA. 2011

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Col Nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso

Assalamu ‘alaykum

La Lode appartiene a Dio, il Signore dei mondi, e la preghiera e il saluto sia sul nostro maestro Muhammad, sulla sua pura Famiglia ed i suoi prescelti Compagni, e su coloro che li seguono fino al Giorno del Giudizio.

Disse Iddio il Saggio: “A coloro che sono stati aggrediti è data l’autorizzazione di difendersi, perché certamente sono stati oppressi e, in verità, Allah ha la potenza di soccorrerli; a coloro che senza colpa sono stati scacciati dalle loro case, solo perché dicevano: “Allah è il nostro Signore”. Se Allah non respingesse gli uni per mezzo degli altri, sarebbero ora distrutti monasteri e chiese, sinagoghe e moschee nei quali il Nome di Allah è spesso menzionato. Allah verrà in aiuto di coloro che sostengono la Sua religione. In verità, Allah è forte e possente”. (Sura al-Hajj, 39-40)

Diamo il benvenuto ai cari ospiti e a tutti i cari presenti. Tra tutti gli argomenti che meritano di essere discussi dalla élite religiosa e politica del mondo islamico, la questione della Palestina ricopre un’importanza speciale. La Palestina è la prima fra le molteplici questioni in comune tra tutti i paesi islamici. Questa questione possiede caratteristiche uniche.

La prima caratteristica è che un paese islamico è stato sottratto al suo popolo, è stata occupato ed è stato consegnato a stranieri radunati dai paesi più disparati, che hanno così formato una società falsa ed artificiale.

La seconda caratteristica è che questo evento, senza precedenti nella storia, è stato accompagnato costantemente da assassini, crimini, oppressione e umiliazione.

La terza caratteristica è che l’originaria Qiblah (direzione verso cui i musulmani si rivolgono per la Preghiera rituale, n.d.t.) dei musulmani e molti altri centri sacri che si trovano in questo paese sono minacciati dalla distruzione, dall’offesa e dal sacrilegio.

La quarta caratteristica è che quel falso governo e società, collocati nel punto più sensibile del mondo islamico, dall’inizio fino ad oggi hanno svolto il ruolo di base militare, di sicurezza e politica per i governi dell’Arroganza (Istikhbar). L’asse del colonialismo occidentale – che per diversi motivi si è opposto all’unità, allo sviluppo ed al progresso dei paesi islamici – li ha sempre usati come un pugnale da conficcare nel cuore della Ummah islamica.

La quinta caratteristica è che il sionismo – che costituisce una grande minaccia etica, politica ed economica per la comunità umana – ha usato questo luogo come strumento e trampolino di lancio per diffondere la sua influenza e dominio nel mondo.

Si potrebbero includere anche altre caratteristiche, come le alte perdite umane e materiali finora pagate dai paesi islamici; i problemi creati ai popoli ed ai governi musulmani; la sofferenza di milioni di profughi palestinesi, che per la maggior parte vivono ancora nei campi profughi dopo ben sessanta anni; l’interruzione della storia di uno degli importanti centri della civiltà nel mondo islamico.

Oggi può essere aggiunto un altro punto chiave a queste caratteristiche ed è costituito dal Risveglio Islamico che ha investito l’intera regione ed ha aperto un nuovo e determinante capitolo nella storia della Ummah islamica. Questo grande movimento – che indubbiamente può portare alla creazione di una potente, avanzata e coerente alleanza islamica in questa importante zona del globo, e mettere fine all’era di arretratezza, debolezza e umiliazione delle nazioni musulmane, affidandosi alla grazia divina ed alla ferma determinazione dei seguaci di questo movimento – ha tratto un’importante porzione della sua forza e coraggio dalla questione della Palestina.

La crescente oppressione ed arroganza del regime sionista e la complicità di alcuni governanti autocrati, corrotti e mercenari da una parte, ed il sollevamento della resistenza esemplare dei palestinesi e dei libanesi e le loro miracolose vittorie nelle guerre dei 33 giorni in Libano e dei 22 giorni a Gaza dall’altro lato, sono tra gli importanti fattori che hanno reso tempestoso l’oceano apparentemente calmo dei popoli di Egitto, Tunisia, Libia e di altri paesi della regione.

E’ un fatto, che il regime sionista, armato fino ai denti e che si riteneva invincibile, ha subito una decisiva ed umiliante sconfitta in Libano in una guerra impari contro il pugno chiuso dei credenti e coraggiosi combattenti (mujahidin). Successivamente ha sfoderato nuovamente la sua spada non più tagliente contro la resistenza ferrea dell’oppressa popolazione di Gaza, fallendo.

Seria attenzione deve essere riposta a questi punti quando si analizzano le condizioni correnti della regione, e la pertinenza di ogni decisione deve essere valutata alla luce di tutto ciò.

E’ quindi corretto dire che oggi la questione della Palestina riscuote maggiore importanza e priorità, e che il popolo della Palestina – nelle attuali condizioni della regione – ha il diritto di attendersi di più dai paesi musulmani.

Diamo uno sguardo al passato ed al presente e tracciamo una “Road Map” per il futuro. Toccherò alcune questioni al riguardo.

Sono trascorsi più di sei decenni dalla tragica occupazione della Palestina. Tutte le principali cause di questa sanguinosa tragedia sono state identificate e il governo colonialista inglese ne è la causa maggiore. Il potere politico, militare, economico, culturale, della sicurezza e delle armi del governo inglese e degli altri arroganti governi occidentali e orientali venne messo al servizio di questa grande oppressione. Sotto le grinfie degli occupanti senza pietà, il popolo indifeso della Palestina è stato massacrato ed espulso dalle proprie case. Fino ad oggi neanche l’un per cento della tragedia umana e civile – che è stata condotta a quel tempo dai pretesi portatori di civiltà ed etica – è stato appropriatamente presentato, e questa tragedia non ha il suo giusto spazio né nei media né nella cinematografia. I proprietari dei media e della cinematografia e la mafia dei film occidentali non hanno permesso che questo avvenisse. Un’intera nazione è stata massacrata e resa profuga nel silenzio.

Alcune posizioni di Resistenza emersero all’inizio, ma vennero soppresse in maniera dura e spietata. Dal di fuori dei confini della Palestina, e principalmente dall’Egitto, un numero di persone con ideali islamici realizzarono degli sforzi che non vennero sufficientemente supportati e che non hanno influenzato la scena.

Dopodichè fu il turno delle guerre classiche e su larga scala tra alcuni paesi arabi e l’esercito sionista. Egitto, Siria e Giordania mobilitarono le proprie forze militari, ma l’incondizionato, massiccio e crescente supporto finanziario e militare di USA, Gran Bretagna e Francia al regime sionista portò alla sconfitta degli eserciti arabi. Essi non solo fallirono nel sostenere la nazione palestinese, ma durante queste guerre persero anche una parte importante dei propri territori.

Dopo che si palesò la debolezza dei governi arabi limitrofi alla Palestina, si formarono gradualmente, sotto forma di gruppi armati palestinesi, cellule di Resistenza organizzata, e poco dopo la loro unione sfociò nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Era una scintilla di speranza che brillò, ma non durò a lungo. Questo fallimento può essere attribuito a vari fattori, ma quello essenziale era la loro separazione dalla popolazione e dal suo credo e fede nell’Islam. L’ideologia di sinistra o i meri sentimenti nazionalisti non erano ciò che richiedeva la questione complessa e difficoltosa della Palestina. Islam, Jihad e martirio sono i fattori che avrebbero potuto incoraggiare un’intera nazione ad entrare nell’alveo della Resistenza e trasformarla in una forza invincibile. Essi non lo compresero. Durante i primi mesi successivi alla vittoria della grande Rivoluzione Islamica, quando i capi dell’OLP avevano trovato un nuovo spirito e visitavano Tehran ripetutamente, chiesi ad uno dei pilastri dell’organizzazione: “Perchè non innalzate la bandiera dell’Islam per guidare la vostra giusta lotta?” La sua risposta fu che vi erano anche dei cristiani tra loro. Successivamente questa persona venne assassinata dai sionisti in un paese arabo e prego Iddio Altissimo di avere misericordia di lui. Ma il suo ragionamento era carente ed incompleto. Io credo che un credente cristiano che combatta al fianco di un gruppo di mujahidin pronti al sacrificio – che compiono il Jihad sinceramente con fede in Dio, nel Giorno del Giudizio e nel sostegno divino – sarà più motivato nel combattere di un cristiano che deve lottare al fianco di un gruppo di persone prive di fede, che si affidano a sentimenti instabili e mancano del supporto leale del popolo.

La mancanza di una salda fede e la separazione dalla gente li ha resi gradualmente neutrali e inefficaci. Ovviamente tra loro vi erano persone nobili, motivate e di valore, ma l’organizzazione intraprese un corso differente. La sua deviazione ha danneggiato gli interessi della Palestina. Come certi governi arabi traditori, hanno voltato le spalle all’ideale della Resistenza, che è l’unica via di salvezza della Palestina. E in realtà non hanno danneggiato soltanto la Palestina, ma anche loro stessi. Come scrisse un poeta arabo cristiano:

“Se perderete la Palestina, la vostra vita sarà solo un lungo dolore”

Trentadue anni di vita miserevoli sono trascorsi in questo modo, ma all’improvviso la mano potente di Dio cambiò la situazione. La vittoria della Rivoluzione Islamica dell’Iran nel 1979 mutò completamente le condizioni della regione ed aprì una nuova pagina. Tra gli sbalorditivi effetti globali di questa Rivoluzione e i colpi inferti ai progetti dell’Arroganza, quello al governo sionista fu chiaro e immediato. Le dichiarazioni dei dirigenti di quel regime durante quei giorni sono interessanti da leggere e mostrano quanto fossero afflitti e angosciati. Durante le prime settimane dopo la vittoria, l’ambasciata israeliana a Tehran venne chiusa e il personale espulso. La sede diplomatica venne ufficialmente concessa all’OLP, i cui rappresentanti sono lì ancora oggi. Il nostro grande Imam (Khomeyni, n.d.t.) affermò che uno degli obiettivi della Rivoluzione era liberare la Palestina e rimuovere il tumore cancerogeno, Israele. Le potenti onde di questa Rivoluzione, che a quel tempo si diffondevano in tutto il mondo, trasmisero questo messaggio ovunque giunsero: “La Palestina deve essere liberata”. Anche i ripetuti e grandi problemi che i nemici della Rivoluzione imposero all’Iran Islamico fallirono nello scoraggiare la Repubblica Islamica dal difendere la Palestina. Un esempio dei problemi causati fu la guerra di otto anni imposta all’Iran da Saddam Hussein, il quale era stato aizzato dagli USA e dall’Inghilterra e supportato dai governi arabi reazionari.

Quindi nuovo sangue venne iniettato nella vene della Palestina. Gruppi combattenti (mujahidin) iniziarono ad emergere. La Resistenza libanese costituì un nuovo e potente fronte di lotta contro il nemico ed i suoi sostenitori. Invece di affidarsi ai governi arabi e cercare l’aiuto delle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, complici delle potenze arroganti, la Palestina iniziò a porre fiducia in sé stessa, nei suoi giovani, nella sua profonda fede islamica e nei suoi uomini e donne pronti al sacrificio. Questa è la chiave di tutti i successi!

Negli ultimi tre decenni si è visto questo fronte crescere quotidianamente. L’umiliante sconfitta del regime sionista in Libano nel 2006, il cuocente fallimento dell’arrogante esercito sionista a Gaza nel 2008, la fuga del regime sionista dal sud del Libano e il ritiro da Gaza, la formazione di un governo resistente a Gaza e, in breve, la trasformazione della nazione palestinese da un gruppo di persone prive di speranza e aiuto in una nazione fiduciosa, speranzosa e resistente: sono queste le caratteristiche eminenti degli ultimi trenta anni.

Questo specchio generale verrà rischiarato qualora i tentativi di compromesso e tradimento – il cui obiettivo è di fiaccare la Resistenza e ottenere il riconoscimento di Israele da parte dei gruppi palestinesi e dei governi arabi – verranno riflessi nel modo appropriato.

Questa tendenza, iniziata con gli accordi di Camp David dal traditore e indegno successore di Gamal Abdul Nasser, ha sempre avuto come obiettivo quello di corrodere l’inflessibile determinazione delle forze della Resistenza. Fu durante gli accordi di Camp David che per la prima volta un governo arabo riconosceva ufficialmente che le terre palestinesi appartenevano ai sionisti e venne firmato un documento secondo il quale la Palestina veniva riconosciuta come patria dei giudei.

Da allora fino agli accordi di Oslo nel 1993, e poi con gli accordi aggiuntivi – che vennero imposti uno dopo l’altro ai gruppi collaborazionisti e passivi palestinesi con l’intervento americano e la cooperazione dei governi colonialisti europei –, il nemico fece del suo meglio per scoraggiare la nazione palestinese e i gruppi palestinesi dal resistere, attraverso l’utilizzo di vuote e ingannevoli promesse e tenendoli occupati tramite i ‘giochi’ della politica. L’inutilità di tutti questi accordi venne rivelata molto presto, ed inoltre i sionisti ed i loro sostenitori mostrarono ripetutamente che li consideravano come pezzi di carta privi di valore. L’obiettivo di questi piani era quello di instillare il dubbio tra i palestinesi, rendere ingorde le persone prive di fede e materialiste e frenare la Resistenza islamica.

Lo spirito della Resistenza tra i gruppi islamici palestinesi e il popolo palestinese è stato l’antidoto a tutti questi trucchi traditori. Essi si sollevarono contro il nemico con il permesso di Dio e beneficiarono dell’assistenza divina: “Allah verrà in aiuto a coloro che sostengono [la Sua religione]. In verità, Allah è Forte e Possente” (Sura al-Hajj, 40). La Resistenza di Gaza, nonostante l’assedio totale, è stata un esempio dell’aiuto divino. Il crollo del governo corrotto e traditore di Hosni Mubarak è stato un aiuto divino. L’emergere di un’onda potente di Risveglio Islamico nella regione è un aiuto divino. La rimozione della maschera di ipocrisia dal volto dell’America, dell’Inghilterra e della Francia e l’aumento dell’odio delle nazioni della regione verso questi paesi è un aiuto divino. I ripetuti e innumerevoli problemi del regime sionista – da quelli politici, economici e sociali interni all’isolamento internazionale e l’odio diffuso, e persino il boicottaggio delle sue università in Europa, sono tutti segni dell’aiuto divino.

Oggi più che mai il regime sionista è odiato, indebolito e isolato, e il suo principale sostenitore, gli Stati Uniti d’America, è più impantanato e smarrito di sempre.

La storia della Palestina negli ultimi sessanta anni è oggi dinnanzi ai nostri occhi. E’ necessario delineare il futuro considerando questa storia e traendo lezioni da essa.

Due punti devono essere inizialmente chiariti. Il primo punto è che il nostro obiettivo è la liberazione dell’intera Palestina, non di una sua parte. Ogni piano che punta a dividere la Palestina è totalmente inaccettabile. L’idea dei due Stati, camuffata ad arte con l’abito del “riconoscimento del governo palestinese come membro delle Nazioni Unite”, non è altro che accettare la volontà dei sionisti – ovvero riconoscere il regime sionista sulle terre palestinesi. Questo significa calpestare i diritti della nazione palestinese, ignorare il diritto storico dei suoi profughi e minacciare inoltre il diritto dei palestinesi residenti nelle terre occupate nel 1948. Significa lasciare intatto il tumore cancerogeno e esporre l’Ummah Islamica – specialmente le nazioni della regione – ad un pericolo costante. Significa la ripetizione di decenni di sofferenze e calpestare il sangue dei martiri.

Ogni soluzione deve essere basata sul principio: “tutta la Palestina per tutto il popolo palestinese”. La Palestina è la terra che si estende dal fiume al mare, non un centimetro in più, né un centimetro in meno. Proprio come a Gaza, ogni terra palestinese che verrà liberata dovrà essere amministrata da un governo palestinese indipendente, ma non bisogna mai ovviamente dimenticare quale è l’obiettivo finale.

Il secondo punto è che per raggiungere questo nobile obiettivo, ciò che è necessario è l’azione, non le parole. Bisogna essere seri, non limitarsi a gesti da palcoscenico. E’ necessario avere pazienza e saggezza, non intraprendere azioni affrettate. E’ necessario considerare l’ampio orizzonte e muoversi verso di esso, passo dopo passo, con determinazione, speranza e affidandosi a Dio. Ogni governo, ogni nazione musulmana e ogni gruppo della Resistenza, in Palestina, in Libano e negli altri paesi, può trovare il proprio ruolo e parte in questa lotta collettiva e il proprio posto nello scacchiere della Resistenza, con il permesso di Dio.

La soluzione che propone la Repubblica Islamica dell’Iran per risolvere la questione della Palestina e per rimarginare questa vecchia ferita, è una proposta chiara e logica, basata sulla saggezza politica. Questa soluzione è accettata dall’opinione pubblica mondiale ed è stata presentata in dettaglio precedentemente.

Noi non proponiamo né la guerra classica con gli eserciti dei paesi islamici, né di gettare in mare gli immigrati ebrei, né l’intervento delle Nazioni Unite o di altre organizzazioni internazionali. Noi proponiamo un referendum tra il popolo palestinese. Come ogni altra nazione, anche il popolo palestinese ha il diritto di determinare il suo futuro ed eleggere il proprio governo. Tutte le genti originarie della Palestina – musulmani, cristiani ed ebrei [autoctoni], ma non gli immigrati – devono prendere parte ad un referendum ordinato e generale, onde determinare il futuro governo della Palestina, che esse vivano in Palestina, nei campi profughi o in ogni altro luogo. Il governo che verrà stabilito successivamente al referendum deciderà il destino dei immigrati non-palestinesi trasferitisi negli anni in Palestina. Questa è una proposta giusta e ragionevole, che può esser compresa da tutti, e può ricevere il supporto dai governi e dai popoli indipendenti.

Ovviamente non ci aspettiamo che gli usurpatori sionisti accettino questa proposta, ed è qui che diventa importante il ruolo di governi, popoli ed organizzazioni della Resistenza. Il più importante supporto alla nazione palestinese è fermare il sostegno al nemico usurpatore: questo è il grande dovere dei governi musulmani. Dopo che i popoli musulmani sono scesi in piazza e hanno urlato slogan contro il regime sionista, su quale base logica i loro governi persistono nel continuare le loro relazioni con il regime usurpatore sionista? La prova dell’onestà dei governi musulmani è legata al loro sostegno alla nazione palestinese ed alla loro decisione di interrompere le relazioni politiche ed economiche, pubbliche o segrete, con il regime sionista. I governi che ospitano ambasciate o uffici economici sionisti non possono affermare di difendere la Palestina, e nessuno slogan anti-sionista da parte loro sarà considerato serio e sincero.

Le organizzazioni della Resistenza islamica, che si sono assunte il pesante dovere del Jihad negli anni scorsi, hanno oggi la stessa identica grande responsabilità. La loro Resistenza organizzata è un sostegno attivo che può aiutare il popolo palestinese a muoversi verso l’obiettivo finale. La coraggiosa Resistenza da parte di un popolo la cui casa e terra sono state occupate, è stata riconosciuta ed elogiata da tutti gli accordi internazionali. Le accuse di terrorismo da parte delle reti politiche e mediatiche affiliate al sionismo sono strali falsi e privi di valore. I veri terroristi sono il regime sionista e i suoi sostenitori occidentali. La Resistenza palestinese è un movimento contro i brutali terroristi ed è un movimento umano e sacro.

Viste le attuali condizioni, è appropriato che i paesi occidentali valutino la situazione da una prospettiva realistica. Oggi l’Occidente è a un bivio. O rinuncia all’arroganza, riconosce il diritto del popolo palestinese e rifiuta di seguire il piano dei sionisti nemici dell’umanità, o dovrà attendersi duri colpi in un futuro non troppo distante. Questi colpi paralizzanti non sono limitati al continuo crollo dei loro governi fantoccio nella regione islamica. Il giorno in cui i popoli degli USA e dell’Europa comprenderanno che la maggior parte dei loro problemi economici, sociali ed etici sono il frutto dell’egemonia della piovra del sionismo internazionale sui loro governi – e che i loro governanti, per proteggere i loro interessi personali e di partito, obbediscono e si sono arresi all’arroganza dei sionisti parassiti, proprietari di compagnie in USA ed Europa – ci sarà per loro un vero inferno dal quale non potranno più uscire.

Il Presidente degli Stati Uniti ha affermato che la sicurezza di Israele è la sua linea rossa. Ma chi ha tracciato questa linea rossa? Gli interessi nazionali statunitensi oppure la necessità personale di Obama di ricevere i soldi ed il supporto delle compagnie sioniste per assicurarsi il secondo mandato come Presidente USA? Quanto pensi ancora di ingannare la tua stessa nazione? Cosa farà di te il popolo statunitense il giorno in cui comprenderà che hai accettato l’umiliazione e l’obbedienza alla plutocrazia sionista per rimanere al potere qualche giorno in più? Cosa farà di te quando comprenderà che hai sacrificato gli interessi di una grande nazione ai piedi dei sionisti?

Cari fratelli e sorelle, sappiate che questa linea rossa tracciata da Obama e da gente come lui verrà infranta dai popoli musulmani che si sono sollevati. Ciò che minaccia il regime sionista non sono i missili dell’Iran o dei gruppi della Resistenza, così da costruire scudi anti-missile qua o là onde neutralizzarli. La reale e inevitabile minaccia è la ferma determinazione di uomini, donne e giovani nei paesi islamici che non vogliono che gli Stati Uniti, l’Europa e i loro governi fantoccio li governino ed umilino ancora.

Ma ovviamente questi missili, dove ci sarà una minaccia dei nemici, svolgeranno pienamente il loro dovere.

“Sopporta dunque con pazienza. La promessa di Allah è veritiera e non ti umilino coloro che non hanno certezza.” (Sura ar-Rum, 60)

Wa salam ‘alaykum wa rahmatullah

Fonte: www.islamshia.org/

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DISCORSO DELLA GUIDA SUPREMA DELLA REPUBBLICA ISLMAICA DELL’IRAN IN OCCASIONE DELLA QUINTA EDIZIONE DELLA CONFERENZA INTERNAZIONALE DEL RISVEGLIO ISLAMICO . 2011

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Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso

La Pace, la Benedizione e la Grazia di Allah siano su di voi

La lode appartiene ad Allah, il Signore degli uomini, e la pace e la benedizione siano sul nostro profeta Mohammad, la sua progenie pura e i suoi discepoli prescelti.

Disse Allah, l’Invincibile, il Saggio: “O Profeta, temi Allah e non obbedire né ai miscredenti, né agli ipocriti. In verità Allah è sapiente, saggio. Segui ciò che ti è stato rivelato dal tuo Signore. In verità Allah è ben informato di quel che fate. Riponi fiducia in Allah: Allah è sufficiente patrono”.
(Parti pronunciate in arabo, le righe sottolineate sono tratte dal Corano, i primi tre versetti della sura Al-Ahzab/ndr)

Do’ il benvenuto ai presenti ed ai cari ospiti.

(Introduzione/ndr)

Ciò che ci ha riuniti quì è il risveglio islamico, cioè uno stato di coscienza ed evoluzione nella Ummah islamica che ora ha creato un grande cambiamento tra i popoli della regione ed ha dato vita a rivoluzioni ed insurrezioni che non potevano mai essere previste dai demoni che dominano la regione ed il mondo; sollevamenti grandiosi che hanno distrutto le mura della dittatura e dell’imperialismo sconfiggendone i guardiani.
Non c’è dubbio che i grandi cambiamenti sociali sono sempre basati su radici storiche e inerenti alla civiltà, e sono l’esito dell’unione di conoscenze ed esperienze. Negli ultimi 150 anni la presenza di grandi intellettuali e combattenti islamici in Egitto, Iraq, Iran, India ed altri paesi dell’Asia e dell’Africa, ha gettato le basi per la creazione della situazione attuale.
L’altro elemento che ha avuto un ruolo evidente nella formazione del pensiero profondo odierno nel mondo islamico fu l’esperienza degli anni ’50 e ’60 dei paesi islamici; questi paesi vennero governati da regimi prevalentemente orientati verso pensieri ed ideologie materialiste che, per via della loro natura, poco dopo la loro nascita, caddero nella tela delle potenze imperialiste e colonialiste dell’Occidente.
La vicenda della grande Rivoluzione Islamica in Iran, dove, come disse l’Imam Khomeini, “il sangue vinse contro la spada”, e che portò alla formazione del sistema duraturo, forte, coraggioso e progredito della Repubblica Islamica, e l’effetto di questo paese sul mondo islamico di oggi, sono poi altri elementi che avrebbero bisogno di lunghe spiegazioni e sicuramente verranno analizzati dagli storici.
Come conclusione, si può pertanto dire che la realtà che invade sempre più il mondo islamico, non è una miriade di fatti sparsi senza radici storiche, sociali e intellettuali, in modo che i nemici o gli analisti superficiali la possano liquidare come un’onda passeggera o casuale e spegnere il lume della speranza nei cuori dei popoli con analisi deviate ed ostili.
Io in questo discorso fraterno voglio soffermarmi su tre punti fondamentali:

1. uno sguardo breve all’identità di queste rivoluzioni e sollevamenti.
2. un esame delle sfide e dei pericoli che minacciano queste rivoluzioni.
3. Suggerire alcune soluzioni per superare le sfide e prevenire i pericoli.

(Identità rivoluzioni/ndr)

1. Sul primo argomento, secondo me l’elemento più importante di queste rivoluzioni è la presenza reale e diffusa della gente negli sviluppi e nella scena della lotta e della Jihad. La gente partecipa non solo con il cuore e la fede, ma pure con il corpo. C’è grande differenza tra questa presenza diffusa ed una insurrezione guidata da un gruppo di militari o persino da un gruppo di combattenti che si battono dinanzi agli occhi indifferenti della gente, o tra una gente che è d’accordo con l’insurrezione ma non partecipa.
Nei fatti che si verificarono negli anni ’50 e ’60 nei paesi africani ed asiatici, il gran peso delle rivoluzioni non fu portato da interi popoli ma da piccoli gruppi golpisti o piccoli gruppi armati. Loro decisero ed entrarono in azione, ma quando loro stessi o la generazione dopo di loro, a causa di certe cause, cambiò il proprio corso, la loro identità cambiò e i nemici presero in mano di nuovo il controllo dei loro paesi.
Questo è completamente differente da un cambiamento che viene veicolato dalle masse popolari, che sono pronti a dare anima e corpo e a sacrificarsi per cacciare il nemico. In questa situazione è la gente che crea gli slogan e stabilisce gli obbiettivi, identifica il nemico, lo presenta, lo insegue ed infine cerca di realizzare, anche se in maniera sommaria, il suo futuro prediletto. Per questo non permette la deviazione e la scesa a patti col nemico ai personaggi collaborazionisti e nemmeno agli elementi dei nemici travestitisi da alleati.
Nel movimento basato sulla forza della gente, è possibile che la rivoluzione venga ritardata, ma la forza di questo movimento fa sì che non sia superficiale e instabile. Tutto ciò è un qualcosa di puro del quale Dio parlò così:
“Non hai visto a cosa Allah paragona la buona parola? Essa è come un buon albero, la cui radice è salda e i cui rami [sono] nel cielo” (Corano, sura Abramo, v.24/ndr).
Io quando vidi attraverso la tv l’intero corpo del glorioso popolo egiziano in piazza Tahrir capii che quella rivoluzione avrebbe vinto. Voglio rivelare una cosa: dopo la vittoria della rivoluzione islamica e la formazione del sistema islamico in Iran, che creò un sisma nei governi materialisti d’Occidente e d’Oriente, e scatenò in maniera senza precedenti i popoli islamici della regione, noi pensavamo che l’Egitto si ribellasse prima di ogni altro paese. L’esperienza ed il passato della Jihad, e i grandi intellettuali e pensatori dell’Egitto, avevano creato nei nostri cuori questa aspettativa. Dall’Egitto però non si udiva nulla di chiaro.
Ma dopo sì, questo segreto sacro, e cioè la volontà di insorgere, gradualmente si formò nel pensiero del popolo egiziano e prese forza, e nel momento più opportuno della storia si palesò creando una scena piena di imponenza.
La Tunisia, lo Yemen, la Libia ed il Bahrain avranno lo stesso destino, e tra loro c’è chi attende, ma non ci sarà cambiamento per il loro destino.
In rivoluzioni come queste, i principi, i valori, gli obiettivi, non sono stati collocati nei manifesti scritti a tavolino da gruppi o partiti, ma sono nella mente e nel cuore della gente presente nella rivoluzione che esprime in tutti i modi, con gli slogan ed il suo comportamento, i suoi ideali.
Con questo calcolo si può comprendere chiaramente che le basi delle rivoluzioni attuali della regione, in Egitto e negli altri paesi, sono in primo piano le seguenti:
– Il risveglio e la ricostruzione della dignità e della gloria nazionale, che col tempo è stata danneggiata con la presenza di dittatori corrotti e con il dominio politico degli Usa e dell’Occidente.
– Issare la bandiera dell’Islam, che è il credo profondo ed amato della gente, e la creazione di una società sicura, giusta e progredita grazie alla sharia islamica.
– Resistere dinanzi al dominio e ai tentativi di breccia dell’America e dell’Europa, che negli ultimi due secoli hanno danneggiato e umiliato nel peggiore dei modi i vostri paesi.
– La lotta contro il regime occupatore e falso dei sionisti, che è come un pugnale conficcato dal colonialismo nel corpo della nostra regione, ed è uno strumento per proseguire il dominio satanico delle potenze e un regime che ha scacciato dalla sua terra un intero popolo.
Indubbiamente le rivoluzioni della regione si basano su questi pilastri che non sono affatto positivi per l’America, l’Occidente e il Sionismo; loro si adoperano per negare queste realtà, ma negando queste realtà non le si può nascondere.
La natura “popolare” di queste rivoluzioni è l’elemento più importante nella formazione della loro identità. Le potenze straniere cercano di mantenere in questi paesi i dittatori corrotti e dipendenti con le ultime tattiche e smettono di sostenerli solo quando comprendono che non ci sono più speranze per fermare la volontà popolare; per questo non hanno il diritto di ritenersi partecipi nelle vittorie della gente. Nemmeno in un luogo come la Libia, l’ingerenza e l’intromissione dell’America e della Nato possono inquinare la verità. In Libia la Nato ha provocato crimini gravi. Se non ci fosse stata l’intromissione dell’America e della Nato, il popolo avrebbe vinto più tardi, ma invece non sarebbero state distrutte tutte le infrastrutture, non sarebbero morti tutti questi civili innocenti e soprattutto i nemici, che per lunghi anni avevano aiutato Gheddafi, oggi non farebbero la figura degli amici del popolo libico.
Il popolo, gli intellettuali e coloro che sono parte della gente sono i padroni di queste rivoluzioni, e sono loro che hanno il dovere di difenderle e tracciarne il tragitto, e Inshallah lo faranno.

(Sfide e pericoli dinanzi alle rivoluzioni nei paesi islamici/ndr)

2. Per quanto riguarda le sfide e i pericoli…Per prima cosa bisogna dire che i pericoli ci sono, ma ci sono pure le vie per salvaguardarsene. Lo stare attenti ai pericoli non deve terrorizzare i popoli. Lasciate che siano i vostri nemici ad aver paura di voi e sappiate che “…in verità l’inganno di Satana è debole” (frase detta in arabo/ndr).
Dio a proposito di alcuni dei mujahedin degli albori dell’Islam ricorda: “Dicevano loro: “Si sono riuniti contro di voi, temeteli”. Ma questo accrebbe la loro fede e dissero: “Allah ci basterà, è il Migliore dei protettori. Ritornarono con la grazia e il favore di Allah, non li colse nessun male e perseguirono il Suo compiacimento. Allah possiede grazia immensa”.
Bisogna conoscere i pericoli per non lasciarsi sorprendere e saper correre ai ripari al momento del bisogno. Noi abbiamo affrontato questi pericoli dopo la vittoria della rivoluzione islamica ed abbiamo ottenuto molte esperienze, e per volere di Dio e grazie alla guida dell’Imam Khomeini e per via dei sacrifici della nostra gente, li abbiamo superati indenni, anche se i complotti contro di noi proseguono e prosegue anche la risposta attenta della nostra gente.
Io divido in due gruppi questi pericoli: quelli che hanno radice in noi stessi e sono dovuti alle nostre debolezze, e quelli che il nemico crea direttamente.
Il primo gruppo di fenomeni sono di questo tipo: pensare o credere che dopo il crollo del regime corrotto e dittatoriale del passato tutto è fatto; sentirsi sicuri della vittoria. Poi la perdita della volontà è il primo pericolo, e questo diventa più grande quando ci sono individui che vogliono accaparrarsi il merito della rivoluzione portata a termine da tutto il popolo.
La questione della battaglia di Ohod (una delle battaglie degli albori dell’Islam/ndr) e la questione di alcuni musulmani che lasciarono le loro postazioni per racimolare un bottino di guerra causando la sconfitta dei musulmani ed il biasimo di Allah l’Altissimo nei loro confronti, è un esempio simbolico che non deve essere mai dimenticato. Farsi impaurire dall’apparente potere degli imperialisti e temere l’America e le altre potenze è un’altro di questi problemi del primo gruppo da cui bisogna stare lontani. Intellettuali coraggiosi e giovani, cacciate la paura dal vostro cuore! Fidarsi del nemico e farsi ingannare dai suoi sorrisi, dalle sue promesse e dal suo sostegno è un’altro grande pericolo, che minaccia soprattutto i leader delle rivoluzioni e gli intellettuali. Il nemico ed i suoi segni bisogna conoscerli sotto qualsiasi forma e abito si presentino, e bisogna difendere il popolo e la rivoluzione dal nemico che si è travestito da amico. L’altra faccia della medaglia è farsi conquistare dalla superbia e reputare ingenuo il nemico; il coraggio deve essere accompagnato dalla saggezza e dalla lungimiranza.
Dinanzi ai demoni, che siano Jinn o uomini, bisogna adoperare tutte le proprie potenzialità divine. Creare divisione e divergenza tra i rivoluzionari e far breccia nelle loro file da parte del nemico, è un’altra grande minaccia.
I pericoli del secondo gruppo sono già stati affrontati in passato dalla maggior parte dei popoli della regione. Il primo pericolo è la salita al potere di individui alleati dell’America e dell’Occidente.
L’Occidente dopo il crollo inevitabile delle sue pedine, mira a salvaguardare i sistemi e le sue leve di potere e cerca di mettere una nuova testa sul corpo di questi regimi per mantenere il suo dominio.
Ciò vorrebbe dire sprecare tutto l’impegno e tutti gli sforzi. In questa fase, se incontreranno l’intelligenza e la resistenza della gente, cercheranno di deviare in diversi modi la rivoluzione e i pensieri della gente. Questo tipo di complotto può anche comprendere la proposta di modelli di governo o costituzioni che facciano cadere di nuovo i paesi islamici nella trappola della colonizzazione culturale, politica ed economica dell’Occidente. Questo tipo di minaccia può pure materializzarsi attraverso il sostegno a correnti deviate e misteriose dei rivoluzionari e l’emarginazione dei veri e autentici rivoluzionari. Anche ciò significherebbe il ritorno del dominio occidentale ed il rafforzamento dei modelli occidentali estranei alle rivoluzioni.
Se queste tattiche non funzionano, l’esperienza ci dice che allora vengono usate tecniche come la creazione di disordine, il terrorismo ed il tentativo di scatenare guerre civili tra i seguaci delle diverse religioni, o tra razze e tribù e partiti diversi, o addirittura scatenare guerre tra nazioni vicine, oppure usare sanzioni e bloccare i conti ed i patrimoni nazionali e aggredire i paesi con campagne propagandistiche.
L’obbiettivo di tutte queste cose è stancare la gente, indurre in essa rassegnazione e farla pentire di aver sfidato le potenze. In questo caso, senza la forza della gente, sconfiggere le rivoluzioni sarà facile e possibile. Basterà uccidere gli intellettuali influenti oppure offuscare la loro figura e, dall’altro canto, corrompere alcuni di loro con i metodi abituali che i paesi occidentali usano.
Nell’Iran islamico, quando i rivoluzionari conquistarono il “nido di spie” statunitense a Teheran, compresero che tutti questi complotti erano stati preparati ad arte contro il popolo iraniano. Per loro far ritornare il loro dominio nei paesi dove ci sono state le rivoluzioni, è un principio per la cui realizzazione si è autorizzati a compiere tutte queste sporche azioni.

(Suggerimenti alle nazioni islamiche/ndr)

3. Nella parte finale delle mie parole, voglio dare dei suggerimenti basati sulle mie esperienze dirette nel nostro Iran e basate sugli studi che ho condotto sugli altri paesi. Non c’è dubbio che le condizioni delle nazioni e dei paesi non sono tutte uguali ma ci sono principi chiari che possono essere utili per tutti.
La mia prima parola è che affidandosi a Dio e con la speranza nelle Sue promesse di vittoria fatte ai fedeli nel Corano, e con l’uso della ragione, della saggezza e del coraggio, si possono vincere tutte le sfide. Bisogna ammettere però che ciò che voi state facendo è molto grande e determinante, e per questo ci sarà bisogno di un grande sforzo.
Il consiglio importante e di sentirsi sempre partecipi nella rivoluzione, di sentire sempre presente Dio, credere nel suo aiuto e non farsi prendere dalla superbia dopo le vittorie.
L’altro consiglio, è ripassare perennemente i principi della rivoluzione. Gli slogan devono combaciare con i principi ed i valori dell’Islam. Indipendenza, libertà, giustizia, la non resa dinanzi al colonialismo, il no alle discriminazioni razziali e religiose, il no chiaro al sionismo. Questi sono i pilastri delle rivoluzioni odierne dei paesi islamici e sono tutti tratti dall’Islam e dal Corano.
Scrivete i vostri principi sulla carta; salvaguardate le vostre origini con sensibilità; non permettete che siano i nemici a scrivere i principi dei vostri governi futuri; non permettete che i principi islamici vengano sacrificati per interessi passeggeri. La deviazione nelle rivoluzioni inizia dalla deviazione degli slogan e degli obbiettivi. Non fidatevi mai dell’America, della Nato e di regimi criminali come Inghilterra, Francia e Italia, che hanno saccheggiato e diviso tra loro per molto tempo le vostre terre; diffidate di loro e non credete al loro sorriso; dietro a quei sorrisi ci sono i complotti ed i tradimenti”. Questa è un’altra parte del discorso di oggi della guida suprema iraniana, il sommo Ayatollah Khamenei, che mette in guardia i musulmani nei paesi dove il risveglio islamico ha portato alla vittoria delle rivoluzioni. Trovate la vostra soluzione issando la sorgente generosa dell’Islam e restituite loro le loro ricette.
L’altro consiglio importante è quello di evitare divergenze religiose, razziali, tribali e di frontiera. Riconoscete le differenze e gestitele. L’intesa tra le confessioni islamiche è la chiave della salvezza. Coloro che incendiano le divergenze religiose dichiarando l’apostasia di questa o quella confessione, diventano volontariamente o involontariamente gli aiutanti di Satana.
Creare dei sistemi di governo è la vostra grande impresa. È un lavoro difficile. Non permettete che i modelli laici o liberali dell’Occidente, o il nazionalismo estremista, o il comunismo marxista, vengano imposti ai vostri popoli. Il fronte d’Oriente è crollato ed il blocco occidentale è rimasto in piedi solo con la guerra e l’inganno e non avrà lo stesso un destino felice. Il passare del tempo è a loro scapito e a favore dell’Islam.
L’obbiettivo finale deve essere la Ummah islamica unita e la formazione della civiltà islamica moderna, basata sulla religione, l’intelletto, la scienza e le virtù morali. La liberazione della Palestina dalle grinfie dei sionisti è l’altro grande obbiettivo. I paesi dei Balcani e del Caucaso e dell’Asia Occidentali si sono salvati dall’Unione Sovietica dopo 80 anni; ed allora pure la Palestina potrebbe liberarsi dopo 70 anni dalla prigionia dei sionisti!
L’attuale generazione dei paesi islamici ha questa capacità e può riuscire in queste grandi imprese. La generazione odierna è motivo di gloria per quelle passate. Credete nella nuova generazione, risvegliate in questa la capacità di credere in sé ed aiutatela con le esperienze degli anziani.
Devo ora ricordare due concetti importanti e pertinenti:
Primo: i popoli che si sono liberati con le rivoluzioni vogliono essere partecipi nella determinazione del loro futuro e vogliono eleggere i loro rappresentanti, e visto che sono musulmani, credono necessariamente nella “democrazia islamica”; in altre parole i governi vengono scelti dalla gente e i principi dominanti della società sono quelli basati sulla shariah islamica. Ciò può realizzarsi nei diversi paesi in modalità differenti a seconda delle condizioni particolari di ogni nazione, ma bisogna stare molto attenti alla democrazia liberale occidentale. La democrazia laica e le altre forme anti-religiose o secolari non hanno nulla a che vedere con la democrazia islamica, che s’impegna a rispettare i valori e le linee principali degli insegnamenti islamici.
Il secondo concetto è che l’islamismo non deve essere confuso con l’estremismo e l’esagerazione. Tra questi due il limite deve essere ben chiaro. Gli estremismi religiosi che di solito sono accompagnati dalla violenza, sono un segnale di mancato progresso e di allontanamento dagli obbiettivi della rivoluzione, e ciò potrebbe allontanare la gente dalle leadership rivoluzionarie e causare la sconfitta delle rivoluzioni.
(Conclusione/ndr)
Riassumo: parlare di Risveglio Islamico non significa parlare di un concetto vago e ambiguo e senza un significato particolare; significa indicare un preciso e determinato fenomeno reale che può essere sentito, che ha riempito l’atmosfera della regione, ha creato grandi cambiamenti ed ha fatto crollare pericolose pedine nemiche. Nonostante ciò, la scena è fluida e sono possibili sviluppi di qualunque genere.
I versetti del Corano che ho letto all’inizio sono il miglior piano d’azione. Vennero ispirati al Profeta in un momento sensibile e difficile della sua vita, ma in realtà quei versetti sono rivolti a tutti noi. Il primo consiglio, in questi versetti, è il timore di Allah nel suo significato più esteso, e poi il rifiuto della sottomissione agli ingiusti ed ai miscredenti e infine l’invito a seguire il messaggio divino.
Leggiamo di nuovo quei versetti:
“O Profeta, temi Allah e non obbedire né ai miscredenti, né agli ipocriti. In verità Allah è sapiente, saggio. Segui ciò che ti è stato rivelato dal tuo Signore. In verità Allah è ben informato di quel che fate. Riponi fiducia in Allah: Allah è sufficiente patrono”.
Pace, Benedizione e Grazia di Allah su di voi

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INTERVISTA DI S.E. J. MOZAFFARI, AMBASCIATORE DELLA R.I.DELL’ IRAN IN OCCASIONE DELLA GIORNATA DI QUDS

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Luglio 2015

1)      Come ogni anno l’ ultimo venerdì del mese di Ramadan si celebra la Giornata Mondiale di Quds. Qual è il senso  di questa  giornata per i musulmani?

Mentre il regime israeliano insiste nel  mistificare la realtà storica , rendere normalmente accettabili occupazione e aggressione , distrarre l ‘opinione pubblica dalla causa palestinese  e dalla questione di Al-Quds , seminare  orrore  e disperazione, contrastare le forme di resistenza , fomentare le divisioni  tra i paesi della regione  e i popoli musulmani, celebrare la Giornata  di Quds  rappresenta il  punto  di collegamento dell’ unità della Umma islamica  e di tutti gli uomini liberi del mondo, nella difesa della causa palestinese  a protezione della nobile Quds e del contrasto  all’occupazione del regime sionista.

2)      Nonostante le proteste, le azioni illegali di Israele tra cui la costruzione di nuovi insediamenti continuano. Quali sono gli obiettivi di queste azioni?

Il regime sionista persegue l’ obiettivo di  cambiare la composizione demografica  di Gerusalemme attraverso la distruzione  delle abitazioni dei palestinese e la costruzione di nuovi insediamenti. Le azioni espansionistiche di questo regime mirano ad ostacolare il ritorno  dei palestinesi e a controllare tutti i territori di quella terra, confermando ancora una volta gli intenti razzisti e l’ assoluta indifferenza  verso i diritti inalienabili  di quel popolo martoriato. La continuazione dell’ assedio ingiusto della Striscia di Gaza da una parte  e la negligenza  della comunità internazionale  nel cercare di interromperne l’ingiusto  assedio, unitamente  al mancato tentativo di ricostruire quanto distrutto dalla guerra e di assistere le popolazioni di quell’ area dall’ altra , ha complicato ulteriormente  la situazione. Le azioni illegali del regime  sionista  quali la chiusura  dei valichi di frontiera , la giudeizzazione di Gerusalemme e la costruzione di nuovi insediamenti , testimoniano  il perdurare della politica di apartheid , dei crimini contro l’ Umanità e del terrorismo di Stato.

3)      Qual è la soluzione alla questione palestinese?

Innanzitutto si dovrebbero utilizzare al meglio le potenzialità e le capacità  del mondo musulmano e della comunità internazionale per indurre il regime sionista a fermare le sue azioni disumane  nei territorio occupati. La questione palestinese non è riconducibile all’ assenza di progetti di pace o negoziati, ma a disattenzione  verso la radice del problema  e la sua principale causa , ovvero l’ occupazione  del territorio palestinese e il disprezzo del regime israeliano per le norme e gli impegni internazionali. La lunga serie di insuccessi  dei negoziato tra le parti,  l’ inadempienza del regime israeliano verso qualsiasi obbligo  o accordo e i risultati ottenuti dalla resistenza nell’ ultimo decennio hanno provato   che l’ unica strada percorribile è quella della resistenza.  La soluzione alla questione palestinese passa  per la via della resistenza  basata sulle capacità intrinseche del popolo palestinese fino alla fine dell’ occupazione, al ritorno alla terra  di appartenenza, alla conquista  del diritto all’ autodeterminazione  e alla costituzione del Governo dell’ Unità palestinese con capitale a Quds.

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LA MURAGLIA CHE NON CROLLA

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L’8 luglio è stata una giornata drammatica per le borse asiatiche: Shanghai ha perso il 5,9% e Shenzen il 2,5%. In due settimane, sui mercati azionari cinesi si è registrata una perdita di più di 3.700 miliardi di dollari. Lo spettro di una gigantesca bolla speculativa in grado di contagiare l’economia cinese ha indotto cinque eminenti professori della Repubblica Popolare a paragonare la situazione attuale con quella di diciotto anni fa, quando “malvagie forze di mercato” agirono contro le valute dell’Asia orientale. Nel documento redatto dai cinque esperti viene espressamente citato il “burattinaio” di Barack Obama, ossia George Soros, già indicato come terrorista finanziario da Qiao Liang e Wang Xiangsui nel loro celebre studio sulla “guerra senza limiti”(1).

È vero che lo sviluppo del mercato azionario cinese dovrebbe essere garantito dalla disciplina politica che caratterizza il sistema cinese, nonché dall’impegno del governo a recuperare la stabilità dei listini e la tendenza crescente che ha caratterizzato la borsa negli ultimi mesi. È vero, inoltre, che la Cina ha una partecipazione di oltre 4.000 miliardi di dollari in riserve estere, a fronte dei 121 miliardi di dollari degli Stati Uniti, mentre il risparmio dei cittadini cinesi ammonta a 21.000 miliardi di dollari a fronte dei 614 miliardi statunitensi.

Nondimeno, ce n’è abbastanza per rendere verosimile la notizia diffusa da David Booth(2), secondo cui il Consiglio di Stato della Repubblica Popolare di Cina avrebbe informato il Ministero degli Esteri russo che “adesso uno stato di guerra de facto esiste ufficialmente tra la nazione asiatica e gli Stati Uniti d’America”. La comunicazione inoltrata da Pechino a Mosca viene messa in relazione con quanto stabilito dall’Accordo russo-cinese sulla sicurezza cibernetica(3) dell’8 maggio 2015: se uno dei due firmatari del trattato prevede lo scoppio di ostilità, è obbligato ad informare immediatamente l’altro, affinché sia possibile provvedere ai preparativi necessari per proteggere le infrastrutture critiche. Il Consiglio di Stato avrebbe confermato l’esistenza di tali condizioni.

Non solo: in seguito all’atto di terrorismo finanziario due alti ufficiali della Repubblica Popolare avrebbero esortato l’Esercito di Liberazione del Popolo a rafforzare la propria efficienza navale e la prontezza al combattimento, nell’eventualità di una “guerra imminente”.

Tale eventualità viene prospettata anche nei documenti ufficiali del settore militare statunitense. Nel rapporto US National Military Strategy, pubblicato il 1 luglio 2015, il generale Martin Dempsey, l’ufficiale di rango più elevato delle forze armate USA nonché principale consigliere militare del Presidente, dichiara esplicitamente che “oggi la probabilità di un coinvolgimento degli USA in una guerra interstatale con una grande potenza è ritenuta bassa ma crescente” (“today, the probability of U.S. involvement in interstate war with a major power is assessed to be low but growing”)(4).

Come minacce alla pace globale vengono ovviamente citati, in una sorta di versione aggiornata della teoria dell’”Asse del Male”, l’Iran, la Russia e la Corea del Nord. Per quanto concerne la Cina, il rapporto dice testualmente: “Le azioni della Cina stanno aggiungendo tensione alla regione Asia-Pacifico. La comunità internazionale continua ad invitare la Cina a risolvere tali questioni collaborando e senza coercizione. La Cina ha risposto con aggressive rivendicazioni territoriali che le consentiranno di schierare le sue forze armate su vitali linee marittime internazionali”. (“China’s actions are adding tension to the Asia-Pacific region. The international community continues to call on China to settle such issues cooperatively and without coercion. China has responded with aggressive land reclamation efforts that will allow it to position military forces astride vital international sea lanes”)(5).

La signora Hua Chunying, portavoce del Ministero degli Esteri cinese, ha accusato il documento americano di inventare una inesistente minaccia cinese ed ha esortato i suoi estensori a “sbarazzarsi di una mentalità da guerra fredda ed a considerare senza preconcetti le intenzioni strategiche della Cina”.

Queste ultime, per quanto riguarda la regione Asia-Pacifico, consistono nel proposito di ricostruire una zona di influenza cinese nel Mar Cinese Meridionale. D’altronde le “azioni della Cina” in quest’area, come fa notare un Libro Bianco pubblicato il 7 dicembre 2014 dal Consiglio di Stato della Repubblica Popolare, hanno una storia bimillenaria, poiché “la Cina fu il primo paese che scoprì, denominò ed esplorò le isole del Mar Cinese Meridionale e ne sfruttò le risorse; fu il primo Stato che esercitò su di esse una continua sovranità”.
Ma le ragioni storiche della Cina non hanno nessun valore per gli Stati Uniti, i quali vedono nel progetto cinese una sfida alla loro egemonia.

Se il conflitto geostrategico tra le due potenze sarà, come molti osservatori ritengono6, prima o poi inevitabile, le cause geopolitiche della regione Asia-Pacifico si andranno ad aggiungere a quella che viene considerata la causa determinante dello scontro futuro, ossia l’aggravarsi del debito statunitense. L’extrema ratio per appianarlo potrebbe essere individuata dagli USA, pesantemente indebitati ed avviati verso il loro declino, nello scatenamento di un conflitto armato.

D’altronde la Cina ha già adottato, nel quadro della “guerra senza limiti”, una strategia finalizzata a scalzare il predominio del dollaro. “Il dollaro è un prodotto del passato”, ha detto il Presidente cinese.

In ogni caso, se non vorranno rassegnarsi alla prospettiva del declino ed alla nascita di un ordine mondiale multipolare, gli strateghi statunitensi faranno bene a tener presente l’avvertimento del generale NATO Jordis von Lohausen: “I tentativi di intrusione economica o militare in Cina non possono ottenere nulla, perché la sua estensione è troppo vasta. La Cina è di un’altra razza edi una cultura antica, di gran lunga più antica. Essa ha accumulato tutta l’esperienza della storia mondiale e resiste ad ogni trasformazione. La Cina è inattaccabile”(7).

Claudio Mutti è Direttore di “Eurasia”

NOTE

1. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001.
2. http://www.whatdoesitmean.com/index1884.htm David Booth (alias Sorcha Faal) è un collaboratore del Counterintelligence britannico, settore spionistico dell’FBI.
3. http://www.russia-direct.org/analysis/china-russia-cyber-security-pact-should-us-be-concerned
4. http://www.defensenews.com/story/breaking-news/2015/07/01/pentagon-releases-new-national-military-strategy/29564897/
5. Ibidem.
6. Ad esempio Noah Feldman, The Unstoppable Force vs. the Immovable Object, “Foreign Policy”, 16-05-2013 (http://tinyurl.com/ogrc2wr)
7. Jordis von Lohausen, Mut zur Macht. Denken in Kontinenten, Kurt Vowinckel, Berg am See 1981.

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La muraglia che non crolla

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SOMMARIO

Claudio Mutti La muraglia che non crolla

Dossario La muraglia che non crolla

Spartaco A. Puttini Il Socialismo dalle caratteristiche cinesi
Davide Ragnolini L’Organizzazione di Shanghai: strumento per un “mondo armonioso”
Sara Nardi “Un’unica Cina, diverse interpretazioni”
Sara Nardi Nuova fase a Hong Kong
Marco Costa Tradizioni culturali e spirituali della regione del Tibet-Xizang
Claudio Mutti Gli Uiguri fra Impero e separatismo
Giacomo Gabellini Xinjiang. La “nuova frontiera”
Reg Little La storia non detta dell’ascesa cinese
Reg Little Il comunismo di Mao
Lorenzo Salimbeni Le nuove Vie della Seta
Vanessa Baselli Il ruolo della Cina nell’ASEAN
Alessandro Gatti L’accordo sul gas tra Cina e Russia
Giuseppe Cappelluti Come aggirare le sanzioni antirusse attraverso la Cina
Stefano Vernole La Cina e la Banca dei BRICS
Carmen Nigro La banca d’investimento cinese
Saro Capozzoli La muraglia cinese non crolla
Loredana Orlando Le relazioni bilaterali tra Cina e Italia
Renata Dalfiume Il turismo cinese in Italia

Documenti

Consiglio di Stato RPC La situazione della sicurezza internazionale
Consiglio di Stato RPC Lo scopo della “via mediana” è di spaccare la Cina
Consiglio di Stato RPC Tutela e sviluppo delle culture delle minoranze etniche
Consiglio di Stato RPC Taiwan, parte inalienabile della Cina
Consiglio di Stato RPC Le attuali condizioni della religione in Cina
Ugo Spirito La nuova Cina
Chang Hsin-hai Il professor Arnold J. Toynbee e la “guerra di razza”
Giuseppe Tucci Preistoria tibetana

Interviste

Intervista all’on. Marta Grande
Intervista al sen. Giacomo Stucchi

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LA MURAGLIA CHE NON CROLLA

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La Muraglia che non crolla

SOMMARIO

Editoriale

Claudio Mutti, La muraglia che non crolla

 

Dossario La muraglia che non crolla

Spartaco A. Puttini, Il Socialismo dalle caratteristiche cinesi

Dopo il crollo del sistema sovietico la Cina è rimasta una delle poche democrazie popolari ancora sulla scena, insieme con la Corea del Nord, Vietnam, Laos e Cuba. Anziché annaspare, negli ultimi decenni il sistema cinese ha dato prova di notevole dinamismo e creatività, portando risultati in campo economico e sociale che si sino imposti al mondo come un vero e proprio “miracolo economico”. Secondo la quasi totalità dei circuiti informativi il gigante asiatico è riuscito ad impostare la sua straordinaria ascesa grazie all’adozione di un modello di sviluppo turbocapitalistico. I Cinesi però definiscono il loro sistema come “Socialismo di mercato” o “Socialismo dalle caratteristiche cinesi”. Le loro scelte strategiche derivano dalla necessità di modernizzare il paese, accrescerne il benessere e non lasciarsi schiacciare dall’imperialismo. La Cina ha deciso di usare la globalizzazione contro i globalizzatori. Nell’impostare e condurre la propria strategia, Pechino guarda in modo costante alla parabola dell’esperienza sovietica per non ripeterne gli errori, ma guarda anche ai secolari insegnamenti della propria storia nazionale dall’alto di una cultura di filosofia politica di primaria grandezza.

 

Davide Ragnolini, L’Organizzazione di Shanghai: strumento per un “mondo
armonioso”

L’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione si appresta a compiere quattordici anni nel mese di giugno di quest’anno, aumentando considerevolmente il numero dei suoi Paesi osservatori e Paesi membri.
La politica estera di Pechino dagli anni ‘90 ad oggi ha avuto un ruolo di primo piano nel processo di avvicinamento degli attori centro-asiatici ed eurasiatici in senso lato, che si trovano di fronte a nuove sfide poste alla loro sovranità e stabilità regionale da parte di rinnovate forme di egemonismo e neo-interventismo, indicate dal nuovo Libro Bianco del Dragone. La dottrina che anima la sua politica estera è stata definita con l’espressione di ‘armonismo’, base ideologica della concezione multipolare cinese, che informa tanto l’azione della Repubblica Popolare Cinese nel mondo globale, quanto la sua prassi politica regionale nella SCO.

 

Sara Nardi, “Un’unica Cina, diverse interpretazioni”

Lo scorso 4 maggio, il Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping ha incontrato a Pechino il presidente del Guomintang, il Partito Nazionalista di Taiwan, Eric Chu, in visita in Cina; Taipei spinge per un ruolo di maggiore rilievo nello scacchiere internazionale. I rapporti diplomatici tra Rpc e Roc sono connotate da una duplice natura, un sistema ibrido rappresentato dal principio “Un Paese, due sistemi”, sintesi delle pretese indipendentiste di Taiwan e della riunificazione territoriale auspicata da Pechino. Soft power e incremento della cooperazione economica sono le strategie adottate in quanto atte ad una normalizzazione dei rapporti; tuttavia, la questione Taiwan rimane ancora irrisolta e complessa.

 

Sara Nardi, Nuova fase a Hong Kong

Lo scorso 18 giugno il Consiglio Legislativo di Hong Kong ha bocciato la proposta di riforma elettorale che aveva diviso l’opinione pubblica nell’ex colonia britannica e innescato il movimento Occupy dello scorso autunno. La riforma avrebbe introdotto il suffragio universale nel 2017 per le elezioni del chief executive e poi per il parlamentino locale nel 2020. Era avversata dallo schieramento pandemocratico nel Consiglio legislativo e dal più vasto movimento Occupy nella città, perché avrebbe dato, sì, il voto ai circa 5 milioni di elettori locali; ma prevedeva anche che il numero dei candidati alla carica di chief executive sarebbe stato limitato a due o tre, filtrati da un comitato elettorale di 1200 notabili. A questo punto è probabile che la riforma democratica si interrompa per i prossimi quattro anni.

 

Marco Costa, Tradizioni culturali e spirituali della regione del Tibet-Xizang

Compendiare in poche pagine la millenaria storia tibetana non è compito affatto semplice; così come è altrettanto arduo dare sommariamente conto dello straordinario patrimonio naturale, architettonico, artistico e spirituale di questa importante regione cinese. Altrettanto vale per le dinamiche economiche di grandioso sviluppo che hanno riguardato quest’area interna della Repubblica Popolare Cinese negli ultimi decenni, la quale, grazie ai costanti sforzi del governo centrale di Pechino, ha raggiunto standard sociali ragguardevoli. Tuttavia, almeno alcuni passaggi epocali ed alcune peculiarità culturali vanno sicuramente rammentati, visto che ancora oggi la coltre di fumo alzata da alcuni organi della disinformazione occidentale pare rimanere abbastanza fitta.

 

Claudio Mutti, Gli Uiguri fra Impero e separatismo

Le rappresentazioni messe recentemente in circolazione dalla grancassa mediatica occidentale rivelano la loro inconsistenza e il loro carattere strumentale, qualora vengano passate in rassegna, anche solo in maniera sintetica e sommaria, le vicende storiche degli Uiguri e della regione nella quale essi andarono a insediarsi in un certo momento della loro storia.

 

Giacomo Gabellini, Xinjiang. La “nuova frontiera”

Lo Xinjiang (“Nuova Frontiera”), già ribattezzato Turkestan Orientale da Turchi ed Arabi, costituisce uno snodo cruciale della “Via della Seta”, nonché una fonte non secondaria di problemi per le autorità di Pechino.

 

Reg Little, La storia non detta dell’ascesa cinese

Vi sono molte storie non dette sull’ascesa della Cina. Questa storia ha inizio all’incirca quattro decenni fa, ma risale a quattromila anni or sono. La sua conclusione sarà che oggi noi siamo testimoni soltanto dell’inizio dell’ascesa della Cina.

 

Reg Little, Il comunismo di Mao

Mao Zedong è stato più un comunista rivoluzionario del XX secolo o un tipico riformatore tradizionale come altri della millenaria storia cinese? Uomini del genere sono emersi quando il popolo cinese e i valori classici erano trascurati e in decadenza. Il loro ruolo è consistito nel restaurare l’unità e nel gettare le basi per una rinascita. È proprio quello che hanno fatto Mao e i suoi seguaci.

 

Lorenzo Salimbeni, Le nuove Vie della Seta

Tra le proposte che il coordinamento dei BRICS formula per un mondo multipolare, sta acquistando sempre più importanza e consistenza la Nuova Via della Seta, un progetto che vede la Cina come capofila. Pechino vuole rilanciare traffici e commerci sulle rotte marittime ed i tracciati terrestri che sin dai tempi dell’Impero Romano e del Celeste Impero mettevano in connessione le due estremità della massa eurasiatica. Rifiorita poi a nuovo splendore grazie ai viaggi di Marco Polo, la Via della Seta attraversa oggi alcune delle aree di crisi e di instabilità fra le più delicate al mondo e gli Sati Uniti d’America guardano con preoccupazione ad un’iniziativa che minerebbe ulteriormente le fondamenta dell’egemonia a stelle e strisce. Per la Cina ed i suoi alleati nel BRICS e nella SCO la sfida è doppia: rilanciare l’economia globale e garantire pace e stabilità agli Stati che si trovano lungo la Via della Seta.

 

Vanessa Baselli, Il ruolo della Cina nell’ASEAN

Le relazioni fra Cina e ASEAN sono state interessate da un imponente salto in avanti negli ultimi decenni, nonostante esistano ancora grandi differenze fra gli Stati interessati. Gli ultimi quindici anni hanno segnato un cambiamento importante rendendo possibili nuove intese strategiche che interessano la stabilità economico-politica, la pace, la cooperazione e la prosperità economica della regione. Nuove sfide sono state e verranno affrontate in un’area del mondo che è stata caratterizzata da un’impennata del tasso di sviluppo economico ma che conserva in sé ancora molte contraddizioni. Nel ventunesimo secolo la bilancia dei poteri fra gli Stati del Sud-est Asiatico è cambiata, rendendo meno attuale l’assetto originario dell’ASEAN e donando all’organizzazione un’importanza mai avuta prima. I Paesi con un maggior tasso di sviluppo economico e interessati da una relativa stabilità politica hanno preso in considerazione l’importanza delle strategie di soft power e dei Paesi emergenti nella regione. La Cina, della quale analizzeremo il ruolo all’interno dell’ASEAN, ha aumentato esponenzialmente la sua influenza sui programmi di cooperazione messi in atto dall’Associazione.

 

Alessandro Gatti, L’accordo sul gas tra Cina e Russia

Mentre gli Usa si concentrano nella loro pluriennale sfida alla Russia postsovietica, in Europa la Germania non può che assecondare i propri interessi economici assumendo una posizione favorevole al colosso euroasiatico. La Cina avanza sempre più decisamente sullo scenario internazionale, forte della certezza che raccoglierà il testimone dagli Stati Uniti d’America nella ciclica staffetta per l’egemonia mondiale.

 

Giuseppe Cappelluti, Come aggirare le sanzioni antirusse attraverso la Cina

Le sanzioni occidentali, negli ultimi mesi, hanno costretto la Russia a rivedere le sue strategie a lungo termine e a volgere lo sguardo verso la prima economia del mondo. Non mancano le difficoltà, legate soprattutto al forte peso contrattuale della Cina e alle differenze culturali tra i due Paesi, ed è probabile che molti politici russi abbiano inteso questa svolta come tattica. Tuttavia, in virtù del perdurante clima di tensione e delle opportunità offerte dal fu Celeste Impero e dall’Asia Orientale in generale, non è improbabile che la tendenza sia destinata a durare.

 

Stefano Vernole, La Cina e la Banca dei BRICS

La Banca dei Paesi del Gruppo BRICS (acronimo che indica Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) entrerà pienamente in funzione alla fine del 2015 e avrà sede a Shangai. Si tratta di uno strumento teoricamente concepito per finanziare i progetti di cooperazione internazionale che queste nazioni emergenti hanno implementato per rilanciare il commercio mondiale ma che in realtà permetterà di sfuggire al sistema di dipendenza finanziario architettato da Washington fin dal 1945. Per queste ragioni la Repubblica Popolare Cinese ha deciso di sostenerlo in maniera strategica.

 

Carmen Nigro, La banca d’investimento cinese

La Banca Asiatica d’investimento per le infrastrutture, voluta dalla Cina per finanziare lo sviluppo delle infrastrutture dell’area asiatica, può cambiare i rapporti tra le varie economie a livello globale e spostare ulteriormente l’asse verso est.

 

Saro Capozzoli, La muraglia cinese non crolla

Nelle ultime settimane la notizia del crollo del mercato azionario cinese ha sorpreso e spaventato gli investitori internazionali. Inoltre la situazione di panico recentemente diffusasi nei mercati e la leggerezza di alcune testate giornalistiche nell’affrontare quanto accade in Cina hanno influenzato negativamente la percezione degli operatori, fornendo una visione non coerente degli eventi che hanno caratterizzato la borsa cinese nell’ultimo mese. Risulta quindi cruciale fare chiarezza riguardo a questo argomento facendo uso di dati oggettivi.

 

Loredana Orlando, Le relazioni bilaterali tra Cina e Italia

A cavallo tra l’Oriente e l’Occidente, 2.000 anni fa la Via della Seta contribuì allo sviluppo di intense relazioni diplomatiche e di prosperi scambi commerciali tra la Cina e l’Italia, determinando un’evoluzione culturale e geografica di molte comunità. Oggi, l’emergente forza commerciale della Cina nella ripresa economica globale rende concreta la necessità di intensificare una stretta cooperazione tra Pechino e Roma che possa ridurre la pressione fiscale del debito pubblico italiano.

 

Renata Dalfiume, Il turismo cinese in Italia

Stime ufficiali indicano 116 milioni di viaggi effettuati nel 2014 da turisti cinesi all’estero, mentre per l’anno 2015 raggiungerebbero quota 135.000.000; di questi, 1.700.000 riguardano Cinesi diretti in Italia, in parte visitatori di Expo 2015. Per la prima volta Pechino ha preso parte a un’esposizione universale con un padiglione costato 60 milioni di euro, un investimento che richiamerà visitatori internazionali, ma anche provenienti dalla Cina stessa.

 

Documenti

Consiglio di Stato RPC La situazione della sicurezza internazionale
Consiglio di Stato RPC Lo scopo della “via mediana” è di spaccare la Cina
Consiglio di Stato RPC Tutela e sviluppo delle culture delle minoranze etniche
Consiglio di Stato RPC Taiwan, parte inalienabile della Cina
Consiglio di Stato RPC Le attuali condizioni della religione in Cina
Ugo Spirito La nuova Cina
Chang Hsin-hai Il professor Arnold J. Toynbee e la “guerra di razza”
Giuseppe Tucci Preistoria tibetana

Interviste

Intervista all’on. Marta Grande
Intervista al sen. Giacomo Stucchi

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LA DISSOLUZIONE DEL VICINO ORIENTE: UN CINICO PROGETTO REALIZZATO

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La “questione curda” riveste come non mai un fattore di instabilità e di conflitto nello scacchiere vicinorientale. Viene spesso sottovalutata o deliberatamente occultata la strategia statunitense e israeliana di frammentazione dell’area, similmente a quanto accaduto – per esempio – nei Balcani; tale strategia è alla base dell’imbarbarimento della convivenza fra i popoli e di uno stato di conflitto permanente di cui non si vede l’esito finale, se non una generale dissoluzione e Paesi in ginocchio.

E’ quanto previsto e rappresentato nel 1982 da Oded Yinon – giornalista israeliano allora vicino al ministero degli Esteri di Tel Aviv – su Kivunin, periodico del Dipartimento dell’informazione e dell’organizzazione sionista mondiale. In un saggio intitolato “Una strategia per Israele negli anni Ottanta del Novecento” egli indicava come compito fondamentale la distruzione degli Stati della regione da sostituire con più piccole e ininfluenti entità, sfruttando a questo fine le divisioni etniche e religiose. Tali divisioni andavano enfatizzate ed esasperate, secondo quanto già auspicato negli anni Cinquanta da Ben Gurion a proposito del Libano in particolare.

Yinon scriveva che il mondo arabo/musulmano era il maggior pericolo per Israele e andava affrontato già nel breve periodo: “Il mondo arabo è costruito come un castello di carte, messo insieme dagli stranieri (Francia e Gran Bretagna negli anni Venti) senza tener conto dei desideri degli abitanti; è stato diviso in diciannove Stati, tutti formati da una combinazione di minoranze e gruppi etnici fra loro ostili”. Il saggio esamina attentamente le composizioni interne di ogni Stato islamico – non soltanto di quelli arabi, in realtà – scorgendo in tali variegate e complesse composizioni delle opportunità: una possibilità, per Israele, di espandere le proprie dimensioni.
Occorre quindi – precisa Yinon – la formazione di “Stati deboli, con poteri ben localizzati e senza un governo centralizzato: questa è la chiave di uno sviluppo storico”.

Ma questa strategia, che Israele ha direttamente o indirettamente perseguito nei decenni a seguire, si sposa perfettamente con la strategia perseguita dagli Stati Uniti nel cuore del continente euroasiatico: i Balcani, il sanguinosissimo conflitto Iraq/Iran (pianificato e sostenuto dal Pentagono), l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria.

Il saggio apparso su Kivunin anticipa gli avvenimenti: “Qualsiasi tipo di scontro tra Paesi arabi ci aiuterà nel breve termine e ridurrà il percorso verso il più importante traguardo di frantumare l’Iraq, così come la Siria e il Libano”: è quanto la politica occidentale – Stati Uniti naturalmente in primis – si è incaricata di trasformare in realtà, con cinismo e grande enfasi sul ruolo dei Liberatori.

Accennavamo all’inizio alla questione curda perché in questo contesto essa riveste effettivamente un’importantissima funzione: mettere a repentaglio l’integrità territoriale di ben quattro Stati, Turchia, Iraq, Iran e Siria, provocando il caos e la dissoluzione del “tutti contro tutti” – le prime vittime di tanto sfacelo sono probabilmente proprio i curdi.

La Turchia allineandosi ai piani occidentali di “cambio di regime” in Siria è caduta in pieno nella trappola: i nemici ora sono tanti (Daesh, i separatisti curdi, Assad) e tutti alle porte, e il governo sembra veramente non avere strategie di uscita o scelte autorevoli da sostenere sul campo.

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IL CONCETTO DI GUERRA NON LINEARE

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Vladislav Surkov è il consigliere personale di Vladimir Putin sui rapporti con Abkhazia, Ossezia del Sud ed Ucraina. A lui sarebbe da ricondurre la definizione di “guerra non lineare”: una complessa tecnica di manipolazione mediatica e finanziaria che mira a creare un sistema talmente confuso a cui è difficilissimo opporsi proprio perché del tutto indefinibile.

Ma il concetto potrebbe essere esteso sino ad includere le strategie militari, la cibernetica e l’intelligence.
La teoria di Surkov di guerra non lineare applicata all’economia, trova fondamento nelle sanzioni comminate alla Repubblica Islamica, le quali hanno prodotto il crollo del valore della moneta iraniana nei confronti delle valute straniere. La popolazione versa in condizioni precarie ed in particolare 15 milioni di cittadini, circa il 20%, vivono sotto la soglia di povertà. Le restrizioni imposte all’Iran hanno coinvolto indirettamente anche settori vitali quali il servizio sanitario ed il trasporto aereo, infatti scarseggiano i farmaci ed è stato inibito non solo l’acquisto di aerei civili, ma anche di parti di ricambio. La mancata esportazione di gas naturale, acciaio e rame ha creato l’imprevedibile effetto collaterale dell’inquinamento dell’aria. La causa è generata dalla necessaria trasformazione delle strutture chimiche in raffinerie per il petrolio. Il prodotto che viene ricavato non solo è di qualità scadente, ma è pieno di sostanze inquinanti che contengono il 3% di prodotti cancerogeni. Gli abitanti sono costretti a proteggersi con mascherine o sciarpe per evitare irritazioni alla gola ed agli occhi, ma questo non è sufficiente, infatti il Ministero della Salute iraniano ha dichiarato che nel 2013 sono decedute quasi 4.500 persone a causa dell’inquinamento atmosferico, con un incremento pari al 181% nell’ultimo decennio. Quantificando matematicamente il decremento del commercio petrolifero, la perdita si è attestata tra il 40% ed il 50% dei flussi ordinari, il che si traduce ad un milione di barili al giorno ed una perdita di 50 miliardi di dollari. Secondo stime ufficiali del governo della Repubblica Islamica, l’esportazione petrolifera vale l’80% sul totale ed è il motivo per il quale la valuta locale ha subito una svalutazione che ha innescato un effetto negativo a catena sui prezzi al consumo, coinvolgendo in particolare i beni di prima necessità.

L’estensione del concetto di guerra non lineare potrebbe essere nel nuovo approccio metodologico alla strategia militare, l’opposto della visione del passato, quando gli eserciti si ponevano in linee successive ed avanzavano ordinatamente sul campo per poi darsi battaglia. Una tattica espressa da Carl Von Clausewitz, il quale sosteneva che la struttura fondamentale della guerra è un duello fra combattenti posti uno fronte l’altro. La transizione alla multipolarità con la nascita di nuovi centri di potere, la globalizzazione, le tecnologie a basso costo e l’avvento di attori non statuali, hanno costretto gli strateghi ad adottare nuove tattiche ed adoperare forme diverse di combattimento, con il risultato di creare uno scenario molto complesso. Questo è una miscellanea di scontri asimmetrici, cibernetici e pressioni economiche, dove si esalta il ruolo dell’intelligence e della disinformazione. Nella definizione classica di guerra, gli attori principali sono gli stati, ma nella lettura generale dell’asimmetria non vi sono indicazioni precise inerenti i soggetti. Questi ultimi, di fatto, possono essere qualunque attore con capacità offensive al servizio del perseguimento di uno scopo politico. Laddove i protagonisti sono dissimili fra loro, come uno Stato sovrano ed una rete terroristica od una nazione non militarmente ben strutturata, la guerra assume la forma asimmetrica. Un conflitto classico è combattuto con le forze armate tramite l’uso di mezzi violenti, ma nell’asimmetria vale qualsiasi strumento, anche non violento di per se stesso, ma eventualmente utilizzato in modo violento, in questo caso il mezzo diventa un’arma. L’asimmetria, si palesa quando i contendenti ricorrono a risorse dissimili, ad esempio: i militari, pertanto una formazione legale, che si contrappongono a gruppi criminali. L’asimmetria bellica, dunque, discende in termini di attori, di mezzi e di evoluzione dei concetti di spazio e tempo. L’attore che desidera raggiungere un obiettivo, deve elaborare una strategia e dotarsi di strumenti per poterla sostenere. I mezzi necessari a perseguire il proprio target possono essere identificati in una miscellanea di potenza ed informazione. L’attore, deve possedere energia che consenta lo spostamento e/o la modificazione dei sistemi d’arma, ed una efficiente struttura di comando e controllo per muovere i propri mezzi e scambiare i flussi di energia. Più semplicemente, nel corso dell’attività bellica, dovrà essere in grado di rinnovare le strategie ed i mezzi. L’asimmetria fra i contendenti è nella difformità di possesso di energia ed informazione. Uno Stato ha capacità esponenziali di mobilitare energia ed informazione in comparazione a quella di una organizzazione non statuale, ma quest’ultima può adottare tattiche che le consentano di sopperire alla propria debolezza per generare danni più grandi rispetto alle risorse reperite.
L’efficacia della strategia dei terroristi, intesi come attore non statuale, è basata proprio su di una capacità di convertire alla propria causa le grandezze tempo e spazio, abbinata ad una competenza nell’uso delle tecnologie libere, rese disponibili dai processi di globalizzazione, che minimizzano i costi ed, al contempo, amplificano gli effetti degli attacchi.

La guerra cibernetica vale la distruzione dell’informazione e dei sistemi di comunicazione avversari, con attacchi ai server allo scopo non solo di ascoltare le trasmissioni, ma anche per la sostituzione dei contenuti delle stesse con indicazioni manipolate a svantaggio degli intercettati. Questo definisce principalmente gli algoritmi di azione degli aggressori: atti mirati all’elusione dei sistemi informatici; operazioni cibernetiche complesse tali da causare non solo distruzione di materiali, ma anche ricadute estendibili ad un indebolimento delle forze armate avversarie. Dunque la guerra cibernetica è definibile come un nuovo livello di scontro, dove l’arma più semplice può essere una chiavetta USB. Il conflitto asimmetrico dell’informatica è risultato essere una minaccia tecnologica e geopolitica, la quale potrebbe tendere al fallimento del governo globale, laddove la guerra cibernetica possa tramutarsi in un’arma per la disinformazione attraverso internet, od anche a disposizione proprio dei terroristi. Tale scenario è definito come: incendio digitale incontrollato in un mondo iperconnesso. In definitiva, ciò si traduce nel provocare il caos nel mondo reale, nell’uso non corretto di un sistema aperto e di semplice accesso come internet.

Il termine intelligence potrebbe essere declinato come l’arte di carpire all’avversario le sue intenzioni e questa rimane la migliore prevenzione per ridurre gli effetti dei rischi e delle minacce. Ciò si traduce in una attività investigativa su tutto quanto accada nel territorio avversario trattando argomenti od informazioni segrete. Tale caratteristica è sempre meno vera con l’avvento della nuova era digitalizzata, dove molte informative riservate sono commercialmente acquistabili od addirittura reperibili su Internet. Nel computer però, si trovano ripetizioni, coincidenze e discordanze, pertanto ritorna la centralità dell’analista, infatti solo un profondo conoscitore della materia può discernere i dati reali tra la vastità dei contenuti nello spazio virtuale. Il fattore aggiunto dell’esperto è nell’interpretazione logica delle informazioni fra loro scollegate, il conseguire una verità estrapolata tra altre ipotizzate. In questo percorso, dovrà scientificamente raccogliere le notizie acquisite, sia quelle che avvalorano la teoria sulla quale si è iniziata la ricerca, quanto quelle che la smentiscono e suddividerle poi in gruppi logici, scevri da interpretazioni personali. Quindi, eliminate interferenze interne, esterne ed individuali, dovrà produrre un indicatore. Quest’ultimo è quella sezione di informazioni che, nella globalità di una situazione, agevola la comprensione dei fatti pregressi e permette all’analista di formulare una ipotesi su quanto potrebbe accadere. Infatti, nel mondo iperconnesso, sempre più ricco di notizie di facile accesso, ma spesso di difficile interpretazione, la figura dell’analista si sta attestando ad un ruolo preponderante all’interno del Ciclo di Intelligence.

La guerra fra due eserciti contrapposti ha lasciato spazio ad un confronto molto più articolato complesso e farraginoso nella disputa di tutti contro tutti. La componente militare intesa come formazioni di soldati strutturati e la battaglia classica sono rilegati ad un ruolo marginale, infatti nella guerra non lineare le armi e le strategie sin qui adottate sono soppiantate dalla manipolazione cognitiva e dalle pressioni economiche.

Bibliografia:
Carlo Jean, “Ucraina, così la NATO deve contrastare la guerra non lineare di Putin”. Formiche, 2014
Asymmetry and U.S. Military Strategy: Definition, Background and Strategic Concepts, US Army War College, Strategic Studies Institute, 2001
K. Clausewitz, “Della guerra”. Mondadori, Milano 1970
Y. Amidror, Y. Winning, “Counterinsurgency Wars: The Israeli Experience”. JCPA
Strategic Perspectives, 2008
Jason G. Adkinson, “Leadership Development for MOOTW”. An Analysis of Tactical Lessons Learned Monterey Naval Postgraduate school, 2000
Giuseppe Caforio, “La Guerra asimmetrica, tra teoria e realtà”. Società italiana di storia militare
Roberto Di Nunzio: conseguenze sulla sicurezza interna della guerra dell’informazione, Gnosis.
Lorenzo Maria Pupillo: notiziario tecnico Telecom Italia.
Stefano Epifani: Sicurezza: nasce la Commissione Mondiale sulla Governance di Internet, Tech Economy.
Luca Bellocchio: relazioni internazionali e politica globale.
Tiziana Ciavardini, “Iran, le conseguenze irreparabili delle sanzioni sulla popolazione più vulnerabile”. Repubblica,2015
Stefano Consiglio, “Iran: sanzioni contro il programma nucleare hanno effetti negativi sull’aria di Teheran”. International Business Times, 2014

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LIBERISMO O GEOPOLITICA?

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Un’applicazione pedissequa dell’ideologia liberista così come proposta dai suoi teorici (Hayek, Friedman, Leoni ed autori analoghi) prescriverebbe un marciare progressivo verso l’annullamento quasi completo delle strutture dello Stato per lasciare libere di esprimersi le forze del mercato – fino, nelle teorizzazioni più estreme, al quasi dissolversi dello Stato stesso inteso come monopolista originario della forza cogente della legge e da sostituirsi con un’ottica di puro contrattualismo tra parti e con lo “Stato minimo”. E’ evidente che una simile visione estremistica non si sia mai realizzata nella storia e che anzi, anche considerando gli effettivi interventi di riduzione del peso dello Stato in economia attuati da Margaret Thatcher, i governi che si sono ispirati al liberismo-ideologia non abbiano mai voluto rinunciare al ruolo dello Stato come primo centro di potere se escludiamo il governo russo del periodo El’cin – tutt’altro che il governo di un paese sovrano, stabile ed autonomo. Non si vuole negare che il liberismo-ideologia esista: non si capirebbe altrimenti come mai ancora oggi, dopo una crisi che nasce dai mercati e dalla loro deregolamentazione il mercato venga ancora presentato come stella polare dell’agire politico. La Cina che svaluta lo Yuan viene additata come violatrice delle sacre regole del mercato ed essa stessa si difende ricordando che è proprio in ossequio ai mercati che opera la svalutazione medesima. I politici mondiali si dichiarano dunque sempre rispettosi del mercato salvo poi fare tutt’altro, così come i regnanti medievali si proclamavano difensori della Fede Cristiana senza che questo impedisse loro di vivere da dissoluti.

Cosa crea il mercato? Le regole dello Stato e anche la deregolamentazione da questo attuata – come già intuiva il grande economista Karl Polanyi (1). Perché lo Stato sceglierebbe di deregolamentare un determinato ambito economico? Per migliorare il proprio mercato e il proprio sistema-paese al fine di attirare maggiori capitali. Quindi per la nazione stessa. Perché uno stato impone agli altri stati mercati aperti – come i governi coloniali ieri e quelli imperiali oggi, dal Regno Unito agli USA fino all’UE egemonizzata dalla Germania? Non dubitiamo che una componente di fiducia nel liberismo-ideologia sussista, ma realisticamente non possiamo pensare che solo nel nome di un’ideologia sia stata creata la globalizzazione tramite il WTO, la MIFID e, temiamo, il TTIP. Si tratta in realtà di stati forti che impongono politiche a quelli deboli ottenendo l’apertura di nuovi mercati a sistemi-paese più competitivi e con imprese nazionali più efficienti. Il sorgere di potenti attori non statali non ha eliso o limitato il ruolo dello Stato, anzi, ha fornito a questo nuove opportunità. Potremmo impostare una lunga riflessione partendo dagli esempi: Ronald Reagan, paladino di politiche liberiste come la riduzione delle tasse alle classi più abbienti fu anche promotore di un’ingente spesa pubblica nel settore della difesa realizzando un “keynesismo militare” de facto. Potremmo altresì addurre il moderno esempio della Turchia di Erdogan, paese che ha decisamente deregolamentato la propria economia per contenere il peso dell’esercito e i diritti dei lavoratori facendo leva sul patto sociale con una borghesia religiosa o bigotta e desiderosa di arricchirsi ma che non per questo ha ridotto l’effettivo peso dello Stato, sia esso politico, militare ed in definitiva economico (2).

E’ interessante provare almeno ad elencare i nuovi strumenti militari che il mercato mette a disposizione dello Stato: la guerra economica e finanziaria, fatta di attacchi speculativi contro le borse e contro le valute di paesi obiettivo e con il supporto di fondi di investimento (3) e società di comodo vicine ai servizi segreti o addirittura di grandi finanzieri che si costituiscono “longa manus” della politica di alcuni Stati – qui il pensiero corre spontaneamente uomini come l’onnipresente George Soros; la nuova cyberguerra fatta con strumenti informatici prodotti da aziende terze (virtualmente sul mercato, si pensi al caso Hacking Team) nonché l’esternalizzazione della guerra e della sicurezza a mercenari e compagnie private, riducendo il costo economico di questa – e morale, e di opinione pubblica (4).

La costruzione del sistema internazionale del commercio nell’ambito del WTO e delle aree di libero scambio quali quella dell’Unione Europea, del NAFTA o dell’erigendo TTIP – sempre nell’ambito di mercati delle merci e della finanza liberi e deregolamentati e della privatizzazione dei beni statali – avvengono dunque per decisioni degli stati forti desiderosi di ritagliare nuovi spazi alle proprie economie nazionali. L’attivismo geoeconomico e strategico degli Stati Uniti nei paesi tradizionalmente loro alleati si somma a quello russo e cinese in quelli in via di sviluppo nonché a quello tedesco nel Vecchio Continente. Quello che dunque definiamo “liberismo” o “neoliberismo” (nonostante il “neo” non sia necessario essendo l’ideologia liberista sempre uguale a sé stessa dal XIX secolo) è in realtà la riedizione contemporanea e su presupposti mercatisti dell’antico mercantilismo – questo sì un “neomercantilismo”. Ritorneranno alla mente del lettore non a digiuno di letteratura marxista le pagine de “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” di V.I.U. Lenin: l’agire del capitalismo (o delle potenze non propriamente capitaliste ma comunque inserite nel concorrenziale mercato globale e nei mercati regionali, come oggi Cina e Russia) sfocia necessariamente in una qualche forma di imperialismo al fine di guadagnare alle proprie economie e alla propria produzione nuovi mercati. L’intuizione di Lenin è oltremodo attuale e potente. E’ un imperialismo militare classico – pensiamo agli USA in Iraq – ma che sempre più spesso si serve proprio dei nuovi strumenti di mercato: l’imposizione tedesca di politiche economiche a lei gradite agli altri paesi europei, la guerra speculativa e petrolifera contro la Russia di oggi e l’imposizione di una terapia d’urto liberista alla Russia di ieri, l’acquisizione ostile di aziende straniere. E’ lo Stato che crea dunque il mercato a propria immagine e somiglianza e per servirsene.

Questo pezzo non è altro che un breve spunto di discussione: i soli argomenti del “ritorno dello Stato” dopo i decenni ’80 e ’90 in cui se ne preannunciava la fine e della “Guerra Economica” meriterebbero enciclopedie. Speriamo di aver contribuito a lanciare il proverbiale sasso nello stagno suggerendo che il paventato neoliberismo contro cui tanto si strilla specialmente da sinistra (una sinistra che evidentemente Lenin non lo legge più) non sia altro che un neomercantilismo ben più subdolo e pericoloso per l’interesse nazionale italiano e la geopolitica delle nazioni in quanto ammantato – questo sì – dell’ideologia salvifica del mercato. Lanciamo dunque una domanda conclusiva: come mai vi sono Stati che accettano l’apertura dei loro mercati correndo il rischio di diventare terra di conquista – di razzia – neocoloniale? Una prima risposta è che si tratta di Stati deboli, oggetto e non soggetto delle decisioni altrui, retti da classi dirigenti imbelli o corrotte. Gli stati africani non possono che soggiacere al neocolonialismo attuato direttamente dalle grandi potenze o – per interposizione – dalle multinazionali. Gli Stati “ribelli” vengono bersagliati da “rivoluzioni colorate”, attacchi speculativi, bombe vere e proprie. La debolezza dei paesi europei a debole struttura statale – a causa di corruzione generale e totale della classe politica e della debolezza dei bilanci – li rende inani nei confronti della Germania. La debolezza dell’UE come entità politica rischia di renderla soggetta ai desiderata americani e all’operazione TTIP, il trattato che priverà di ogni protezione i mercati europei contro le più grandi, capitalizzate ed efficienti imprese americane che faranno trucioli delle nostre (si badi bene che il clima di scarsa trasparenza della negoziazione è di per sé indice di pericolosità) (5).

NOTE
1. Karl Polanyi, “La grande trasformazione: le origini politiche ed economiche della nostra era”, Einaudi, 2010
2. http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/04/02/news/la-nuova-turchia-di-erdogan-ipermaschilista-e-con-il-corano-in-mano-1.206947: “Molte meno opportunità hanno invece i milioni di operai che da un decennio lavorano in quel mega cantiere edile in cui si è trasformata la Turchia nella sua corsa verso il progresso economico. Secondo le statistiche ufficiali, che registrano solo una frazione degli incidenti, 1.754 operai sono morti nei cantieri edili tra il 2008 e il 2012 mentre 940 sono rimasti menomati. Si tratta di un numero enorme, sette volte più alto della media europea, che indica come la sicurezza sul lavoro in Turchia rimanga un grande problema. Ma il governo anziché vigilare sulle società di costruzioni perché rispettino gli standard di sicurezza preferisce chiamare “martiri” i morti con l’aiuto di imam compiacenti che arrivano perfino a condannare le misure di sicurezza sul lavoro perché «pretenderebbero di equiparare l’uomo ad Allah, l’unico che ha potere di vita e di morte”.
3. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-05/cia-silicon-valley-173944.shtml?uuid=AbTkFfBI “A quel punto il governo (USA, N.d.R.) ha creato la In-Q-Tel, un fondo di investimento destinato a finanziare le compagnie i cui prodotti potessero interessare alla Cia e agli altri servizi di informazione. Attualmente la In-Q-Tel controlla aziende come la FireEye o la Palantir Technologies il cui primo cliente è proprio la Cia”. Il libro “Intelligence Economica. Saggi di strategia preventiva” di Nicolas Moinet (Fuoco Edizioni, 2013) parla della In-Q-Tel come della “società di capitale di rischio della CIA”.
4. La bibliografia sulla guerra economica e sul ruolo tutt’altro che passivo che gli stati vi giocano per tutelare le proprie imprese è vasta. Tra i migliori titoli in lingua italiana segnaliamo: Giuseppe Gagliano, “La geoeconomia nel pensiero strategico francese contemporaneo”, 2015, Fuoco Edizioni e dello stesso autore “La nascita dell’intelligence economica francese”, 2013, Aracne; Carlo Jean e Paolo Savona, “Intelligence economica. Il ciclo dell’informazione nell’era della globalizzazione”, 2011, Rubbettino; Aldo Giannuli, “Come funzionano i servizi segreti”, 2013, Ponte delle Grazie. Un ottimo inquadramento generale sulla guerra moderna e postmoderna e sul ruolo dello Stato è “La Guerra oggi e domani” di Andrea Beccaro, 2010, Prospettiva Editrice. Sull’esternalizzazione delle attività belliche e di sicurezza il nostro http://www.eurasia-rivista.org/guerra-senza-guerra-sicurezza-disimpegno-e-delega/20768/
5. Ragionando solo in termini finanziari si pensi al differenziale di capitalizzazione dei mercati europei e americani, al differenziale di capitalizzazione delle maggiori multinazionali europee e di quelle americane, alla facilità di reperire risorse finanziarie sul mercato americano rispetto a quello europeo. Ciò è dovuto, tra gli altri, a tre motivi: il dollaro è la moneta internazionale delle materie prime e quindi il mercato americano può essere inondato di dollari senza particolari effetti inflativi, il mercato americano è quello dove i petroldollari ritornano per via del legame tra USA e paesi arabi ed è in definitiva un mercato finanziario che offre alti rendimenti e maggiori garanzie di stabilità e crescita rispetto ai finanziariamente asfittici mercati europei vittime della scarsità di investimenti – a tutta penalizzazione della “potenza di fuoco” delle imprese europee.

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L’EUROPA SUBISCE QUESTE MIGRAZIONI PERCHÉ NON È SOVRANA

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Per comprendere le cause e gli effetti del fenomeno migratorio che in questa estate del 2015 sta creando seri problemi in Europa, e specialmente nelle sue regioni mediterranee sudorientali, non si può prescindere dal considerare il problema dei problemi di questa Unione Europea. Vale a dire l’assenza di qualsivoglia sovranità politica.

Che questa creatura finanziaria ed amministrativa nella quale Stati come l’Italia e la Grecia contano davvero poco (per non parlare delle relative popolazioni espropriate d’ogni rappresentanza), non lo si scopre certo da oggi.
Ma quest’ondata di “migranti” che nel 2015 ha superato, nel solo Mediterraneo, le 300.000 unità (stime Onu) – alle quali vanno ad aggiungersi quelle della cosiddetta “rotta balcanica” assurta agli onori delle cronache negli ultimi giorni –; quest’afflusso oramai incontrollabile ha posto in rilievo, con modalità diverse ma parimenti drammatiche rispetto alla “crisi greca”, il mostruoso deficit di sovranità nella quale versa questa Europa e, in special modo, la cintura di Stati mediterranei spregiativamente definiti, ai tempi della prima grossa “crisi finanziaria”, con l’acronimo di PIGS.

“Povera patria… nel fango affonda lo stivale dei maiali”, cantava una ventina d’anni fa Franco Battiato. Ora, se l’italico stivale non affonderà nel fango ma verrà invaso da allogeni il risultato non cambierà: saranno – e sono già – dolori per tutti noi.

Perché quando in una nazione la cui produzione è al palo e la “crisi” è diventata uno stato d’animo (checché ne dicano gli zerbini mediatici in servizio permanente effettivo che riprendono certe “proiezioni” ottimistiche cinguettate da qualche politicante alla moda) rovesci una valanga di “rifugiati economici” il risultato non può che essere negativo. Ovviamente per la gran massa che non ne ricava un profitto, ché al contempo esiste una nutrita schiera di “professionisti” che con queste “migrazioni” hanno messo su l’Albero della Cuccagna.
Già l’esistenza dei succitati profittatori è specchio di una situazione anomala che, in presenza di quel requisito essenziale che è la sovranità, non solo non si verificherebbe, ma al suo solo appalesarsi anche come intenzione verrebbe preventivamente bloccata, dato che solo dei completi sadomasochisti possono rallegrarsi per un’invasione della loro terra che a tutti gli effetti si presenta senza alcuna limitazione, né d’ordine temporale né, tantomeno, numerico.

D’altra parte, chi adesso grida all’emergenza ed impone il ricatto morale dell’accoglienza a tutti i costi, sfruttando tra l’altro la buona fede di parecchi volonterosi collaboratori (o “collaborazionisti”), sa bene che cosa ha messo in moto quando da una ventina d’anni a questa parte ha devastato, uno dopo l’altro, il tessuto politico e sociale di Stati quali la Somalia, l’Iraq, la Libia, la Siria eccetera.

Tutte realtà che se non erano il Paese di Bengodi erano tuttavia migliori dell’inferno in cui si sono trasformate dopo le distruzioni targate Usa-Nato-Onu, con l’ordinario contorno di “alleati”.

Chiunque ormai – anche il famoso “uomo della strada” – è in grado di valutare la correlazione tra la distruzione di una Libia “dittatoriale” e tuttavia florida, o di una Siria anch’essa poco incline alla “democrazia” (questo feticcio!) ma accogliente verso tutte le etnie e le religioni, e l’incalcolabile valanga umana che si sta abbattendo contro l’Europa.

Si noti bene: contro l’Europa, non contro gli Stati Uniti.

Ricapitoliamo: gli Stati Uniti, che come centro decisionale e braccio armato sono i principali responsabili di questi flussi migratori che si abbattono sull’Europa, non subiscono in alcun modo questa tragica conseguenza delle loro azioni criminali, mentre siamo noi europei, ed in prima fila i mediterranei, a dover sopportare tutto il disagio di un’operazione che si è rivelata (ci voleva poco a capirlo) assolutamente controproducente benché sia stata avallata da tutti i “governi” sin qui succedutisi alla guida dell’italico stivale dei maiali.
Adesso che la situazione è fuori controllo, e tutti si aggrappano a qualche “miracolo” dell’Onu, ad un “mandato internazionale” anche solo per soffiarsi il naso, o addirittura si rimettono a qualche santo che dovrebbe muoversi a compassione per gente senza cervello e amor patrio, è suonata la proverbiale campana (a morto) per pensare di uscirne vivi e senza troppi scossoni.

Da questa situazione, in un’Europa (e un’Italia) che esiste solo virtualmente per imporre i suoi diktat monetaristi assurdi ed è nient’altro che il cortile di casa dell’America, se ne può uscire solo in un modo: riappropriandosi della sovranità.

Solo un’entità sovrana può governare un problema immane come quello delle attuali “migrazioni”, decidendo senza dover subire alcun ricatto o minaccia chi può entrare o meno e chiamando per nome e cognome i responsabili di un disastro che se a questo punto è irreparabile poco ci manca.

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PRIME MINISTER VIKTOR ORBÁN’S SPEECH AT A MEETING OF THE HEADS OF HUNGARY’S DIPLOMATIC MISSIONS ABROAD

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Budapest, 7 September 2015

Good morning, Ladies and Gentlemen,

Thank you for giving me the floor, Péter. Allow me to welcome former minister János Martonyi, and to greet to the head of the Foreign Affairs Committee of Parliament. I am pleased to see Mrs. Katalin Szili. Let me see if there is anyone else from the opposition; there is no democracy without members of the opposition. Where are they? László? Good morning, former foreign minister Kovács, I welcome you warmly, too; I am happy to see you as well. Is there anyone here from Jobbik? No one? Never mind. (Laughter)

Ladies and Gentlemen,

Indeed, as Péter (Szijjártó) has said, we last met in March. In light of the latest news, we could say, of course, that a great many things have changed; but in actual fact, the essence of our message and the ideological and spiritual premise for our meeting today have not changed at all. In March too, we established that Hungary must have an independent foreign policy. The essence of an independent foreign policy is that it is based on the interests of the Hungarian people, and its yardstick is the prosperity of the Hungarian people. Our conviction in this led us to talk about this in the spring of this year. If a foreign policy is submissive and is driven by the desire for accommodation, it shackles itself, and is unable to meet the expectations that we might wish to aspire to; in other words, it is a fundamental interest of the Hungarian people that Hungary should have a foreign policy which is based on the premise that Hungary’s best interests are of the utmost importance, and its foreign policy should be implemented around the world by people who believe this.

Ladies and Gentlemen,

If we were in a country other than Hungary this might merely be a platitude, as Hungarian foreign policy also has traditions of a different kind. Hungarian politics has another, well-defined tradition and school of foreign policy. I do not want to speak disparagingly of foreign policy doctrines, the content of which I dispute, but whose intellectual quality is otherwise sound. This is a foreign policy of conformity, which always sees the Hungarian interest best served by following the actions of others. A very strong strain of this tradition survives amongst us, and this is what we would like to reverse. This tradition is strengthened by the unfair international attacks we are subjected to on a daily basis. There is an instinct to comply, in particular if you are not sitting in this warm, cosy place (and I apologise, Péter), but if you are elsewhere, out there in the cold – or, for the youngsters, if you are a G. I. Joe, and you must continuously stand your ground in a place where you, your country and your government are under constant fire. In such circumstances, these old reflexes to conform – which stem from that other, old school of foreign policy – suddenly become an understandable personal and spiritual need. And if you are not sufficiently steeled and your position is not hammered firmly into the ground it may well occur that, for understandable human reasons, you do not represent Hungarian interests, but you find yourselves trying to represent Hungary’s best interests by causing the least possible unpleasantness within your personal network of relations. This is a serious problem. All of us who enter the international scene have to cope with this. From my own experience, I recommend that your hormonal system reacts to this political situation in quite the opposite manner. The more you are attacked, the more staunchly you should state your case, rather than the more softly, compliantly or cunningly; you should represent your position all the more clearly and politely, in very simple terms. Should you defend your personal comfort zone, should you soften, you cannot defend your position; you can only do so if you harden yourselves. Be polite, flexible and friendly, but do not give an inch on the position which you are required to represent. This is the most important thing I would like to ask of you.

You can see that we live in a hypocritical world, and in this department we are hundreds of years behind others. Whether this is to our credit, or we should hold it against ourselves, I cannot decide. One certainly does not appreciate hypocrisy in one’s own family. You, who meet representatives from international politics more frequently than I do, may have a better idea of how far this accords with international politics. The essence of the matter is, however, that we live in a hypocritical world. The French foreign minister attacks us because of our fence, while the French prime minister erects one. We Hungarians might think that we should be ashamed of ourselves if we said such a thing. Such statements are an embarrassment to those who make them, aren’t they? They don’t think so. The Austrians say that more of us go to their country than might be desirable; but if we look at the figures, we see that far more Austrians go to Germany than Hungarians to Austria. If we said something similar we would feel ashamed: we would say that we had been found out, that our words and deeds were at odds, which is a bad thing. But they are not bothered. I would therefore like to remind you that your starting-point should always be the Hungarian interest, and not what your counterparts say – and in particular you should not rely on the articles on foreign affairs which they commission. And please represent the stance which your state secretaries and the Foreign Minister ask you to represent.

Ladies and Gentlemen,

We should now talk about the most important question at hand: the price being paid for a set of blundering policies in world affairs. We all know that the process we are in the midst of – or if you like, the process which kicked the door in on us – is not without precedent. If a major international player decides that they wish to overthrow a government which they happen to dislike, say in Libya, they risk causing a state of chaos: in other words, the risk that the former government will not necessarily be replaced by an organised opposition. We send Gaddafi packing because he does not conform to certain Western European and American interests and does not conform to certain ideals of universal human rights. The world feels it has the moral authority – and we ourselves supported these measures – to remove him. In the wake of this a state of chaos emerges, because there is no longer any country holding back the masses setting out from the interior of Africa in the hope of a better life. And these people will come here, to Europe. I clearly remember what Prime Minister Berlusconi told us when we, the leaders of the European Union, were discussing what we should do: should Gaddafi go? Should Gaddafi stay? Should we take action against him? What should be done and how? At the time, Berlusconi told us clearly that he had an agreement with him, a financial and political pact, as part of which Libya guaranteed the protection of its borders on the European side, and therefore Italy did not have to worry about a flood of migrants from that region. He told us this plainly. He asked the great western powers not to destroy Libya without plans to curb the flood of migrants coming from the heart of Africa. A similar example was the international decision that an intervention needed to be carried out in Syria, and the West deployed the most sophisticated available military technology. As an ally, we were also involved through our tacit support, and therefore I am now not talking about the responsibility of others but about the responsibility of the wider western, Atlantic political community which we are part of. No one considered an action plan for the possible state of anarchy which could easily emerge in the wake of such an intervention. To put it in more precise terms, the United States did prepare for this eventuality: as you may have seen yesterday, they announced that they will not accept refugees – either from Syria or elsewhere. The same international law applies to everyone: the refugee conventions are as binding on them as they are on us. Yet a number of countries, with Australia taking the lead, made it clear that they would not accept migrants or refugees. America took the same stance, and so did Israel. Only the day before yesterday, the Gulf States – which belong to the same religious and cultural community as the people heading for Europe now – announced that they will not accept migrants or refugees. Only Europe is doing so! Everyone is prepared for an eventuality which is undesirable but which may well come about. Everyone has made a policy decision, and the citizens of every such country – Australia, the United States, Israel, and the Gulf States – can feel that their leaders are in control of the situation, adopting decisions and enforcing them. There is a single exception: we Europeans. This is the situation today, and you must stand your ground in this extremely difficult environment.

Ladies and Gentlemen,

It is also evident – and I can now tell you this first hand, as I had meetings with every leader of the European Union last week – that there is no plan of any kind for the management of this crisis situation. In the current situation the underlying problem is grave enough, but an even more serious problem is that there is no European plan for handling it. The plans which we have are not aimed at the problem, but its consequences. A quota system – whatever that may mean – is an expression of an idea to distribute people arriving in Europe among ourselves according to certain percentages or numbers, and so on. We find this unacceptable, because it seeks to address the consequences, rather than the cause. The cause is that Europe is today unable to exercise control over its external borders. As long as we fail to control our external borders, we cannot tell how many people we shall be eventually forced to distribute. We were initially talking about 40,000, then 120,000, and now we are talking about 500,000. And if millions more continue to arrive – and I believe that millions more will arrive – and if the leaders of Europe fail to change their policy, shall we distribute them all? The Hungarian position is against quotas. The Hungarian position does not exclude the possibility of talking about a quota system at some point in time, in a fair manner; we have a problem with its timing. We must adopt the position of “first things first”, as the Americans say. As long as we are unable to protect Europe’s external borders, there is no point in discussing the fate of migrants at a political level, but we can talk about it at an expert level. It is absurd when you think about it. In a news item from last night, I think, the Germans said how many billions of euros they will spend on migrants arriving in their country, instead of giving that money to the countries neighbouring crisis zones where people who are now coming here in large numbers can first be given refuge. Everyone would be better off if they did not come here. This is important. It would cost less, and there could be no moral objection to our conduct. Instead, we choose not to protect our borders, they come here, and we are then faced with financial burdens many times greater.

It would make far more sense for the European Union to set up a fund – according to some reports, there are such funds – from which we would agree to provide financial aid to the countries which are important for us now in terms of managing the refugee problem in their region. First of all I could mention Turkey. This is the key, Ladies and Gentlemen, because I believe it is an illusion – one which many European politicians share today – that we shall somehow send them back at some point. Sending back anyone who is already here would present far greater political risks, would cause more human suffering and would cost substantially more money. Conflicts should be managed where they emerge. Who will send hundreds of thousands or millions of people back from here? Hungary is in a fortunate position because here we will not have hundreds of thousands, or millions. But who will send them back from Germany? As things stand now, not even Austria will have to face this problem, because everyone is leaving Austria for Germany. Who will undertake this task? Who will make the decisions which are necessarily related to this? Families will have to be transported, by air and by rail. Who will take this risk, when a sizeable proportion of European public opinion has expressly welcomed these people? There is no agreement in the countries of Western Europe – unlike Hungary, where surveys show people’s views with perfect clarity, and where we succeeded in finding areas of agreement with the aid of the National Consultation. Elsewhere there is a wide gap between the will of the majority of the public and the will of the political elite.

I feel compelled to say that in most European countries – I could honestly say in ninety per cent of European countries – there is a gap between the opinion of the people and the policy pursued by the elite. (I am not going to mention which countries – not a single one – to spare our Foreign Minister the time-consuming task of having to receive ambassadors.) In a democracy this is a serious problem. This difference may be covered up for a while with, say, orchestrated journalism. And if you look at the press of one country or another (I myself check it every day), no one could reasonably claim that there is no orchestrated journalism. We stand accused of causing problems for press freedom; but if one surveys the entire Hungarian press for its depiction of the migrant crisis, if one examines the various voices and tones, if one looks to see how opinions diverge, one finds a much broader spectrum than in the press of the countries which believe themselves to be – entirely without foundation – more advanced than our own. This is not a philosophical question, or a question of media law; this is a question of facts. Every morning more proof emerges that there are orchestrated opinions on these issues. I am not accusing anyone of personally controlling the press or public opinion; I am not even claiming that political leaders guide these opinions. I am merely pointing out that western societies are constructed in a way that makes it possible to pursue policies there over a longer period – I mean weeks, rather than years – with apparent public support, which the majority of the people do not actually support; but even there, this cannot go on indefinitely. Those countries are more developed democracies than we are, and therefore their leaders are able to distance themselves more from the people. This is less possible in a less developed democracy such as Hungary; here, we must immediately integrate public opinion into our policies: there is less tolerance, and if we pursue a policy contrary to their view the public show tolerance for a much shorter period. There is a limit everywhere, however, and this is what is creating internal tensions within European politics, because everyone feels that things cannot go on like this forever. The public’s voice will have to be heard sooner or later. The people of Europe will regain their ability to influence politics sooner or later, as this is their constitutional right – it is just a question of time. I am certain that, sooner or later, there will be a different migration policy in Europe – one that will stand on different foundations. Such a policy must be developed, as a democratic system cannot live with this internal contradiction for long, and Western Europe is unquestionably a democracy. It will therefore have to resolve this internal contradiction, too, one way or another.

I would merely like to say this in the context of areas of agreement: though it is not on the agenda of this group, it is nonetheless useful to look at some other professions, and to look at the mysterious art of political strategy. This is pursued in the Prime Minister’s Office, in the Prime Minister’s immediate vicinity: advisors are familiar with this world. In this world – at least in Hungary, and certainly ever since we have been in office – there is a professional consensus. According to this, whenever we see a problem – a difficult issue, or rather several difficult issues – on the horizon, we seek to reach areas of agreement between the people and the Government before it looms larger, before its weight starts to crush the entire spectrum of Hungarian politics and before it culminates in a crisis. Our opponents always joke about the National Consultation, and we sometimes give them ammunition; however, the essence of the National Consultation is to create an area of agreement on the most difficult issues in good time. It is not just about legitimacy, something that the Government can refer to – but that is not irrelevant. We must have a genuine area of agreement to directly explore people’s opinions with our questions. And if out of eight million people one million send the questionnaires back, it means that they probably discussed the question at home, over the kitchen table or somewhere, they must have given it some thought, they must have spent some time pondering the issue and, by ticking the boxes, they stated that this is their opinion on the question. These are important things. This is why we are able to stand by our migration policy. The Government’s position on migration is uncompromising – because one million out of eight million people responded, and 85–90 per cent of them told us clearly what they want. They also told us what they do not want. So there is an area of agreement in Hungarian politics, and several areas of agreement on migration, which gives democratic stability to the functioning of the Hungarian government. If this were not the case, there would be the sort of wavering which we observe daily in democracies west of us, where public opinion is solely expressed through the press. In politics – in particular, in modern politics – we must stand with both feet on the ground. We are not talking about gaining people’s votes, which is also important, and the time to talk about that will come in 2018. But until then, we must gain the support of the majority of the people for specific decisions, and there is no other way to achieve this than by resorting to these methods. These are valuable methods and valuable areas of agreement which now exist.

Ladies and Gentlemen,

Speaking in specific terms, I have to say that at the very end, in a few months’ time – perhaps in as long as one or two years’ time – the current debates about whether there should be quotas, whether one is allowed to build fences, and if not, why others should be allowed to do so, and how many more migrants will come, will eventually be replaced by a single final debate. By this I do not want to say that the current issues are not important: whether we should distribute migrants amongst ourselves, who is a refugee and who is a migrant, or whether they can be sent back (and in a minute I am going to tell you where they should be sent back to and who should take them back). These are all important issues; but we shall eventually come to a debate which will first emerge in circles of the ideologically-motivated intelligentsia in the West, will then penetrate the realm of politics, and will finally reach Hungary. The question is whether a country has the right to declare that it does not wish to change its own ethnic-cultural composition suddenly and dramatically as a result of external intervention. Does a country have the right to say it does not want this? Or do we have to subject ourselves to the international liberal doctrine (I apologise for introducing ideology), which says that everyone is free to choose where they wish to live in the world? And that those who already live somewhere do not have the right to say whom they want to or do not want to live together with? This will be the very end of the debate. This is the point we shall reach. In my statements I am preparing the Hungarian position by degrees, as you may observe, and therefore current issues and the Hungarian positions to be taken in the long-term debate usually emerge side by side. I suggest that everyone should prepare for having to take a stance on this issue at the very end. I do not wish to engage in the debate now; I would merely like to point out to you that we have a position on this debate. The National Consultation provides us with firm support in this respect also. Our position is a sovereign position, according to which every nation, every community, every state has the right to decide on its own development. This is why we do not have the right to influence or to even pass judgement on the attempts of other countries to live with large communities which are based on religious and cultural foundations which are different from those traditionally found there. I believe we should not in any way judge France for choosing to have – or at least accepting – a society in which eight to ten per cent of the population is from the Muslim community. And based on demographic calculations – and this is pure mathematics – indigenous French people have also decided that in the future they shall live in a society in which that community will form an increasingly large percentage. That is their decision. Obviously, the Germans also made their own decision with respect to Turkish people some time ago, and have been making decisions on this ever since. I believe that we must not pass judgement on these decisions, either from a political point of view, or based on reason, because it is the right of every people – a given country’s indigenous people – to decide with whom they want to live.

Likewise, it is a historical feature of Hungary and a given – regardless of what anyone may think about it, whether one likes it or not – that it is home to hundreds of thousands of Roma. Someone, at some point in time, decided on this, and this is a situation which we have inherited. This is our situation, this is a given which no one can object to or call into question in any way and which we accept in our life. At the same time, however, we cannot require others – in particular, others to the west of us – to follow suit, and demand that they should also live with a substantial Roma minority. What is more, when members of our Roma minority decide to leave for Canada, we want to make it very clear that we would like them to stay, and that we want to solve the formidable problems involved in our co-existence so that they can stay. We expect the same of others as that which we expect of ourselves. Others, too, must treat us in the same way. On this we must not interfere in their affairs, but likewise they must not interfere in Hungary’s desire or refusal to change its current state, its current cultural-ethnic composition, through any refugee or immigration policy, or any other method. Because if the Hungarian people decide that things are fine the way they are, thank you very much, no one has the right to tell us to change – to tell us to live with a substantial and ever-growing Muslim community. No one has the right to demand this of us, and at the end of the debate this is what we shall have to say in very clear terms.

Later we need to make some distinctions, but the time has not yet come. As we are gathered here in order to prepare for the future, however, I would like to tell you a little about these future directions. First of all, we do not have a problem with Islam. To clarify: I do not know what is in people’s heads, as that is to some extent a private affair, and there are also some people who have problems with Christianity; but in a political sense, Hungary will not take an anti-Islamic stance. We look upon Islam as an intellectual and spiritual structure which has great merits and which created entire civilisations over a considerable part of the world. We do not live in those civilisations, we live in the Christian civilisation, but we nonetheless recognise them. In those areas there are civilisations, instead of barbarism. Consequently, we do not wish to engage, and the Hungarian government does not wish to become entangled, in debates about the nature of Islam, and other issues which have permeated Western European politics and which, I believe, poison the atmosphere and in no way serve the cause of co-existence; we do not want these debates. It would not be wise under any circumstances if, in consequence of the current situation, our relations with countries which form part of Islamic civilisation were to be disrupted. Therefore, even if arrows may be fired at us from those parts – and fortunately there have been not quite as many recently as in the past – we must try and disregard them. Turkey is our friend, and it is our friend even if we tell them that we do not want to see a large Islamic community in Hungary. For all that, Turkey is our friend. And we do not have a problem with Turkey seeing Islam as a value to be integrated into its politics to some degree. That is their prerogative. The Gulf States are our friends. We would also like to come to an understanding with Iran. And this foreign policy has nothing to do with what we think about our own country’s cultural or ethnic composition.

The second important point on which we have to make a careful and fine distinction is that we have no problems either with the Muslim community living here in Hungary. Those who are here have found a good place to be. They are in Hungary in accordance with the law; they are not immigrants, but have come to Hungary over the last twenty to twenty-five years, have entered the country lawfully at designated border crossing-points, have asked permission to establish their businesses, and created a living in Hungary. We are perfectly happy to have kebab shops on our main streets. And at Easter we like to buy lamb from the local Syrian butcher. They have their own living, they have settled here, and contribute with their work to the value which Hungary generates year after year. Therefore, we shall continue to appreciate the Muslim community which we have in Hungary, but we do not at all wish to see a sudden and dramatic rise in their numbers as a result of external intervention. I know that these are seemingly contradictory ideas, but if we have sufficient intellectual power to express and to represent these ideas in a subtle manner (and if our ambassadors do not have that, no one does), I believe that you will be able to do just that. We do not criticise Islam as a civilisation, and we wish to strengthen our relations with countries forming part of that faith. We look upon the Islamic cultural communities living in Hungary as a valuable asset, and we do not wish to put them in awkward situations even at a verbal level; but we insist on Hungary’s current ethnic-cultural composition, and we do not want to recognise anyone’s right to force us to change that. This is more or less the position, the intellectual stance, which you will have to represent with respect to specific political issues. I ask you to choose the words that you use with regard to these more profound, underlying considerations, and to increase or lessen the strength of your message as necessary.

Ladies and Gentlemen,

Border protection. What I am going to say might at first appear to be medieval, but as the Americans say the same thing, this medieval approach is probably acceptable. A country which has no borders or is unable to protect them, should the need arise, is no country at all. Naturally, the European Union made the right decision, also from our point of view, when it determined upon reducing the importance of borders between the Member States to a minimum. I would like to stress that it did not eliminate them, as there is still a border between Austria and Hungary. And there is a border between Germany and France as well; even if there is some dispute over where it should actually run, it is there nonetheless as designated in the relevant international conventions. The fact that there is no actual border control at these border crossing-points after we introduced a legal regime under special rules which does not employ joint border controls and which we commonly refer to as “Schengen” does not mean that there are no borders. There are borders. Our situation is different from, say, that of the Germans, who have no external EU borders: we have them. Hungary is in that group of countries which not only have borders internal to Europe (say towards Austria or Slovakia, where there is no border control now because under the Schengen Agreement we agreed to pretend that there are no borders), but which also have external borders which we have agreed to protect. If any of you took the time to look at the Schengen Agreement (I doubt that many of you regularly read it before going to bed, but let us assume that you did take a look), you would find that this is clearly laid down. This is not a recommendation, or a humble request, but a legal obligation: a country which signs up to the Schengen Agreement – i.e. does not patrol its borders neighbouring other EU Member States – must agree in return to protect any of its borders which are also external borders of the Schengen Area. This is part of the Schengen Agreement, and this is an obligation. Therefore it is the duty of Hungary, Greece, Italy, Spain and France, which all have such external borders, to protect these borders with their national forces, as national borders. Furthermore, in this Schengen Agreement – which one has recently been forced to study carefully and which has added new dimensions to one’s legal knowledge – one can find another provision, saying that the countries with such external borders must guarantee that non-EU nationals may only cross their external borders at the designated border crossing-points, during certain official hours. Let us now compare this with the reality. Imagine stationing ourselves, with the Schengen Agreement in hand, in Röszke, by the unmarked “green border”, and telling people – although it is unclear in what language we would speak to them – that the situation is as follows: there are Dublin regulations, Schengen and common European agreements; here is a border, and you are not allowed to cross it. Would you be so kind as to read this? The border crossing-point is over there, you must go there. It is night time, unfortunately, and you will have to go there during opening hours. Today this is the legal reality.

And there is a sociological reality which is vastly different from this. We must ask ourselves what we are going to do. Are we going to pretend that these legal obligations do not exist, and say that life has overruled the law? I would note that we could cite examples of genetically encoded attitudes dating from the communist era which we acquired as justifications for our own transgressions: “Do you seriously expect me to respect their laws?” We Hungarians understand the possibility of adjusting the law to our own needs, rather than our conduct to the law; but if Europe does this – and this is what Europe is doing now – this will cause major problems. It is not possible to maintain certain rules based on common agreements, while at the same time saying that they cannot be enforced in reality. If these two part company, it will first eliminate the Schengen system, and bring with it the risk of more physical borders elsewhere, in the interior of the European Union, rather than on its external borders. And then we shall forfeit freedom of movement, which will in turn destroy trust, as one Member State will not believe that another is unable to protect its borders, assuming that it really does not want to protect them, and is merely shifting the problem on to others. Here I could mention Greece as the focus of such a crisis of trust. Greece should provide border control, which could prevent illegal migrants reaching Hungary. We would not have any problem at all if the Greeks duly performed the required registration and separated refugees from migrants; if that was the case, Hungary would not have any problem on the Serbian-Hungarian border, and therefore neither would the Austrians and the Germans. However, the Greeks are not following the rules. We can now start wondering why Greece, which is our ally and with which we sympathise in its current plight, does not follow the rules. Is it unable to follow the rules, or unwilling to? And so we see the beginnings of the erosion of trust, the very foundation of the European Union. In response to this presumption we create legislation, and everyone knows that it was passed because we do not believe the Greeks (but this is something that no one will admit to), and the whole thing will turn into a hypocritical legal system in which the moral requirements on compliance are continuously loosened, as everyone knows how they were conceived. This is a dead-end street. We cannot build, maintain or operate the European Union like this. In other words, if we have regulations – European regulations which are based on common agreements – they must be observed. This is the dilemma Hungary is facing. And we do not want to say: “Dear Austrian brothers, dear German friends, when we allow people to cross the border, this is a situation which was caused by the Greeks, and that’s that”. Having signed the Schengen Agreement, we insist on complying with it. The problem is that right now we are unable to do so.

The Hungarian state should arrive at a point at which, if it demands that from tomorrow morning its borders can only be crossed at designated border stations, according to prescribed procedures, it should be able to enforce this decision. Do you think we could enforce this today? We cannot. We cannot, because there is no physical border between Serbia and Hungary. Or at least if a line can be a physical border, there is no physical structure above that line which would enforce the rule that no one can cross the Hungarian state border other than at designated border stations. This is why migrants are pouring in: because we are unable to enforce this rule. When we saw that this situation could arise, we decided on the construction of – what is the PC term for it? – the temporary border security fence, or simply the fence. We were perhaps also aware that we were pressed for time: it was not possible to build a fence like the one the Spanish had built, or the one erected by the French, who proudly boast about it at home and deny its existence in their external communication – but that is another story. We needed to build a tall border fence with good technical parameters as a durable, long-term solution, and at the same time a rapidly-erected wire border fence in front of it. We needed to build the two simultaneously, and once complete, we will have to maintain them both until the current madness subsides. The problem is that, while we are of course making progress with the construction work, time is ticking away. It is in the elementary interests of us all, including the European Union – and whatever they may be saying, it is equally in the best interests of the Austrians and the Germans – that we should not act like Greece. Hungary should not behave like Greece, but should have the will and the ability to protect its external borders. To this end we need a physical line, a physical structure, which the military – and I ask the opposition not to tie our hands, but to make it possible for us to deploy the army for these purposes – can control, together with the police and members of other authorities with border surveillance powers.

The opposition has every reason to ask whether there is any guarantee that this will be sufficient. There is no guarantee. One thing is certain: we must do everything that is humanly possible. This also has moral implications, to which I shall return in a minute. As I said, there is a dimension under international law, and there is a clear national interest which dictates that we should do everything we humanly can. If a decision is adopted that the borders must be protected, I expect members of the Government – the Defence Minister, the Interior Minister, and in general every member of the Government responsible for border control – to ensure that our borders are protected. This is a question of suitability. Not just a question of the suitability of individuals, but also a question of the suitability of the Hungarian defence and police forces. We keep them, pay them and respect them, and we have good reason to do so – particularly in the case of the police. They have performed their law enforcement duties to the highest standards and have been able to control events without resorting to physical force or using minimal force, so that we have managed to preserve the physical safety and property of migrants and Hungarians alike. A few hundred police officers will take their oaths in the next few months, to protect Hungary’s external border to the best of their abilities, within the boundaries of the law, and to thereby protect the Schengen system, and ultimately Hungary’s EU membership. This is a European obligation. I sincerely hope that the Hungarian law enforcement agencies will be able to fulfil this obligation. In this respect we are not sparing human or financial resources; we shall make any number of people and any amount of money available. This job must be done. Otherwise we could find ourselves in a situation similar to that of Greece.

Let us now also talk a little about the issue of moral responsibility. After all, these are human issues, there are millions of people on the road, and many of them have set out from countries where there are indeed armed conflicts – even if the majority do not come from regions like that. The ratios are changing spectacularly. The percentage of migrants coming from the interior of Africa is rising continuously, and we also see the appearance of migrants from Pakistan and Bangladesh. Even if these people are not coming from war zones, they have somehow covered thousands of kilometres, mostly on foot, and in some cases together with their families. It is therefore unavoidable that we should respond to this situation on an emotional level also; in order to relate emotionally, we must clarify the issue of responsibility, and in particular the issue of moral responsibility. And I would very much like you to succeed in this process, even if intellectually it is a very difficult one. In politics – in which you yourselves are serving – or in constitutional law, the nature of responsibility is linked to the outcome. There is ultimate responsibility for the outcome. When you find yourselves judged at the appropriate time, whether in this world (not something I would wish for, although there have been plenty of moments like this in Hungarian history) or in the next, you will not be asked what your intentions were, but what the outcome of your decisions was. In politics, one does not bear responsibility for intentions; the only responsibility that exists is for outcomes. This somewhat distinguishes our line of work from most other jobs in daily life. Nonetheless, we are responsible for the outcome. I am not going to name names, or even countries, but if someone keeps saying that we abide by the Dublin Convention, and it is now time to distribute migrants in Europe based on quotas, it sounds like a legally appropriate proposition. it is a positive proposition in its intentions, but despite these intentions it is a terrible idea, because the outcome of this will be that the people concerned will take this as a message that they can come to no harm, they are free to come as they have done up to now, they may cross borders illegally as they have done so far, and they will eventually find shelter and accommodation somewhere. From nations’ points of view, quotas mean a sharing of burdens: the burden which each nation agrees to share. But for a person who has walked two thousand kilometres, quotas are not about burdens, but about getting shelter somewhere and, regardless of the underlying intentions, the message is taken as an invitation. It is this outcome that we bear responsibility for. Our moral responsibility, too, is linked to the outcome, rather than to our intentions; and regardless of our intentions, our political decision has encouraged millions to set out, and for this we must accept our share of moral responsibility. This is why it is very important to make it clear, and this is why I put it as plainly as I do, almost with the harshness of sandpaper, when I say: ‘Do not come’. I beseech those who wish to come to Europe through Hungary: ‘Do not come’. I say this for moral reasons, because we Hungarians cannot be responsible for what may happen to you on the way. We are not encouraging you to set out on this journey. And I, and we Hungarians, cannot accept responsibility if the sea claims your lives. Do not risk your lives and the lives of your children for the sake of an illusion. Do not come, you will not be able to cross the border. As you are not refugees (and I shall come back to this in a minute), but migrants, Hungary will act in accordance with the rules on migrants. Hungary will not let you in, or will send you back. Therefore you should not risk your children’s lives.

These people – and we are coming to a very important point here – are no longer fleeing to safety. Turkish refugee camps may not be the most comfortable places, very probably are not what you would dream about, and may not offer the life we would like for ourselves, but those who are already in a Turkish refugee camp are safe. They have already moved away from the area where their lives were at risk, day in and day out. Those who have reached Greece are already safe, as no one in Greece will persecute them. Those who have reached Macedonia are already safe, and are no longer fleeing for their lives: they want something else. Those who have reached Serbia are safe: they want something other than safety. And those who have reached Hungary are already safe, and are not fleeing for their lives; if they want to move on, they want something else. Migrants who have reached Austria and travel on to Germany are not fleeing for their lives, because their lives are not in danger in Austria – so they want something else. And we must face up to the fact that these people do not simply want refugee status, but they want refugee status in Germany. That is a big difference! Because in fact, they simply picked out the German lifestyle as something they see as desirable. They could live in Macedonia, or Turkey, or Greece, or Hungary, but they do not want to. They want to live a German life, and they want to go there. This has nothing to do with safety. This has nothing to do with the moral responsibility we bear for a person fleeing for their life, and we must therefore treat them as migrants rather than as refugees. We understand this because life in Germany is certainly better than life in a refugee camp in Turkey, or in Greece, or in Hungary. If this were not the case, Hungarians would not go to Germany for work. But they want a German life. And if we do not make this clear to ourselves, but allow highly visible emotions to force us to assume a false moral responsibility, we shall make the wrong political decisions. We may even make decisions which are morally well-founded in terms of intentions, but catastrophic – almost criminal – in terms of outcomes. We simply must not do this. We must therefore speak in clear and straightforward terms: if you have your life, you are not in danger, and have fled, it is better for you to stay in Turkey or in Greece, rather than try to come to the European Union through Hungary. And if you want to emigrate to the European Union, the EU has rules for that. Every country has its rules on immigration. If you wish to live in Hungary, whether as a migrant or as a refugee, an application can be submitted in Athens at the Embassy of Hungary – or I believe, at the Embassy of Germany there also. We will assess your application. We have our own rules, and at the end of the procedure we will tell you whether, if you are refugee, you should stay here or under international conventions you should move to another country. If you are a migrant, we will tell you whether we want you to live here, whether we need you, and whether we can find a place for you. Because we are the ones who best know how many people we are able to provide jobs for and to care for at the same level as Hungarians; and we can only provide jobs and care for a number of people which does not upset our own system.

From this viewpoint, I think that what the Catholic Church said recently is very wise. Even heretics are free to express their appreciation here, as it is perfectly obvious that if private individuals take on burdens in this situation – for instance, in the form of donations for the needy, or the church organises collections or decides to give from its own resources – they are not doing a bad thing from an economic point of view. It cannot be harmful to the national economy and may, in fact, be beneficial. I do not want to go into complicated arguments here about purchasing power and spending, et cetera, but it may well be beneficial for the economy. If, however, the burdens fall heavily on countries, and their budgets need to pick up the bill, it means that those economies will not be able to grow. The ratios of production and distribution will change, the ratios of funds available for the development of the economy and welfare expenditure will change, and a great many other things will change, which may easily push those countries towards economic disaster. Several experts have argued in this vein. This is why I think it is very reasonable that the Catholics – and of course, two thousand years is two thousand years – wisely send the world the message that individuals and churches must take on their own share of responsibility, rather than state budgets. And this distinction is extremely important, because otherwise we would destroy the Christian welfare states. I think this is an important distinction which we rarely talk about, but it is perhaps important to mention here.

Ladies and Gentlemen,

Is there anything else worth mentioning in the sixteenth minute of my lecture? Yes. I could perhaps supply you with an argument or two regarding the quota system. What is the situation now? The situation is that we are a flock, all twenty-eight of us, and our leaders have told us that quotas are a good thing. All twenty-eight of us must therefore repeat that quotas are a good thing, but there is one sheep in the flock which says: “Hold on a minute!” Of course, the sheep with the bell around its neck leads the way and must be followed, and so far so good; but is it absolutely certain that we have carefully considered this? Is it absolutely certain that we have thoroughly considered every angle? Is it absolutely certain that the quota system will resolve the problem of migrants flooding across the green border in their thousands every day? And mentioning quotas, are they mathematically defined in relation to something? And can you tell what the total is that they will be defined in relation to? Forty thousand? Five hundred thousand? One million? Ten million? How many will come? Ladies and Gentlemen, shouldn’t the calculation of quotas come after first protecting our borders, so that we know precisely how many people we are talking about, and can then determine who will take on what percentage? But even if we were to reach the stage, Ladies and Gentlemen, of talking about the distribution of migrants within the Schengen Area, are we going to fit electronic tags on their ankles? Will people granted leave to stay in the European Union all be sitting in a row, and told: ‘You’re going to Tartu, you’re going to Southern Portugal, you’re going somewhere around Frankfurt, and you are to settle down on the outskirts of Vienna’? And what if they do not want to? Or if we take them there, will we chain them to make them stay? How will this work? Has anyone thought through how this will work within the EU and its system of free movement? We are talking about this, at the level of slogans, instead of about the need to protect the borders so that we may at least find out who it is we are to give asylum to and assess the magnitude of the problem; and about whether this whole scheme should be compulsory or not. I believe that when they consider that here we are, the twenty-eight of us, as a flock, they will find that a black spot will appear, and that one will be the black sheep of the flock. I sincerely hope that when that black sheep says in the name of reason that we should stop and clarify a few questions first, it will not feel uncomfortable. You are not the ones who should feel uncomfortable.

At the same time, be cooperative, because the other twenty-seven (or however many of them there are, as I am perhaps being unfair to the Visegrád countries, given that they, too, stop to ask the same questions as we do) are right to say that the problem is one that is worth working on for the benefit of all. Because it is true, on the one hand, as I said, that everyone wants to go to Germany, and this is, of course, a German problem. But Germany is part of the European Union, and Chancellor Merkel is right about this. If Germany is part of the European Union, a German problem is also a European problem. So we should not quarrel, and should not be inflexible, and above all not be patronising towards our twenty-seven partners in the EU, but should be cooperative, friendly and flexible, without giving an inch on our own position in the absence of reasonable arguments. This is what I am asking of you. Politics is a difficult world, a club of street fighters, but today the street is called the press, or communication. And of course rules do not count for anything in this environment. In the international press no one will have any qualms about reporting that migrants are treated inhumanely in Hungary. In contrast with this, what is the truth? The truth is that everyone who comes here must register under the Schengen regulations, we must ascertain their identities, and they must complete a form so that we know that they are who they claim to be. We then give them accommodation, shelter, food, water and medical care in designated locations which can be readily reached. What is more, we even take them there if they want us to. But it is not possible for a few hundred people to decide that they will not register, sit down by the side of the road, and say that from now on this is where they want their food and drink, this is where the doctor should come to see them, and then chant the name of the German Chancellor and Germany because they want to go there, so they demand to be taken there immediately. This will not do. And I believe no one has the right to demand this of us, however desperate their situation might be.

It is absurd that Hungary takes action against its own citizens in order to enforce compliance with transparent rules. If a Hungarian crosses the border illegally, we punish them. If a Hungarian walks across the green border into Serbia, they are committing a misdemeanour. What is more, if they cross the green border into Austria, it also qualifies as a misdemeanour. And then are people other than us free to do so? And are we to assist them in this? Let us just think about the absurdity of all this. Therefore, I think that the Hungarian position is both humane and consistent. Migrants must cooperate with the authorities, must be identified and registered in compliance with European regulations, and we then offer them the option of going to gathering points where they are given food, drink, accommodation and medical care; in fact, we ask them to avail themselves of these services. This is where we stand now. This situation will change on the Hungarian side, Ladies and Gentlemen, on 15 September, as the Hungarian Parliament – and I would like to take this opportunity to express my thanks for its cooperation, even though it was not unanimous – voted for new regulations which raise the level of protection of Hungary’s external borders. Representatives voted for regulations which make it clear that illegal border crossing is not a minor offence carrying a penalty of 20,000 forints, but one which is punishable by imprisonment or deportation. And human trafficking is not some casual way to supplement one’s income (even if those who are willing to join this business on the Hungarian side may otherwise find it convenient), but a crime: a very serious crime, which carries a sentence of several years in prison, and full confiscation of property.

These will be the new rules from 15 September. The reason they are not being introduced tomorrow morning is that the new regulations are very much stricter than the former ones. And such tight regulations cannot be implemented immediately, even on the border. Everyone must be given time to prepare. This is why, for instance, we are pursuing a flyer campaign right now in Serbia. This is why we shall use all available media to tell migrants: the situation on the borders of Hungary has changed, do not come, because you are liable to face deportation or several years in prison. It is to be hoped that we can send this message on our flyers in the right languages, and correctly, with a degree of linguistic accuracy worthy of Hungarian culture. We would also like to make it clear to human traffickers that, from 15 September, the risks involved in fishing in troubled water are higher than before. At the same time, we are also giving our police time to prepare and set up border surveillance units, as this is not the sort of job they have been used to doing in recent years. And the army and our soldiers must also be prepared, once the legislative authority is given; and I again ask the opposition to enable extension of this authorisation for the protection of the borders to situations in which there is no conflict, but in which the borders are threatened by a civilian invasion. So everyone has a few more days to prepare for this.

The question now is whether a genuine change – an improvement as far as we are concerned – will appear overnight on 16 September. We might hope so, but cannot reasonably think so. Partly because the opposition refused to support deployment of the army, we were unable to debate the bill promptly in Parliament, and this will only be possible at some time after 20 September, I hope. Therefore we shall not be able to deploy all our forces on 15 September, because there are constitutional restrictions, and in a less developed democracy such as ours, you can see that the Constitution must be observed. In more developed democracies I see there are more flexible solutions. I would again cite the example of the French-British border. However, we must observe these rules, and this is only right; this is the only feasible solution from a constitutional point of view. And I believe that we can only take confident, firm action if we know that we stand on ground which is completely stable from constitutional, legal and moral points of view. But even if a significant change does not appear overnight, one thing is certain: the Hungarian government will not back down and will make progress step by step while enforcing international regulations as well as Hungarian laws, and while equally asserting fundamental moral and human values.

I sincerely hope that we will make swift progress, and the occasion will soon arise when Hungary can tell its German and Austrian friends that Hungary’s southern border is secured; of course this will not mean that Hungary has closed its borders, as has been stated in the international media. That is rubbish, if you pardon the expression, because securing a border does not mean that it cannot be crossed at all. The Hungarian border can be crossed – at the designated points. Life will go on. The Serbian-Hungarian border will be just as open for crossing by legal means as it was before; it will only be secured against illegal border crossing. Our German and Austrian friends may rest assured that we shall enforce the Schengen Agreement and we shall comply with it; we shall not shift the burdens on to others, but shall bear them ourselves. To demonstrate to you how far ahead of us the others are in hypocrisy, and that this is a race that we must enter, let me just give you one tiny example: while it is obvious that far more migrants are coming to Hungary (at times, many times more) than to other countries with external borders – and once again I shall not name countries – the assistance given to them is this big, while the assistance we receive is this small. But there is no reason in getting upset about this, because this is life in Hungary. The task in hand is to succeed using our own resources. This is why I always say that we are not going to ask for a single penny. There are funds from which Hungary should be entitled to assistance, and of course we believe it would be fair if we got our share of assistance; but we shall not go to a single country to tell them that we have enormous difficulties, and plead with them to give us money. Hungary is a state – a one thousand-year-old state – which must be capable of relying on its own resources in protecting its external borders and enforcing law and order on those sections of border. If we have to rely on our own resources, so be it. If we are given assistance, we shall accept it, but we shall never blame a lack of assistance for any failure to meet our obligations.

Ladies and Gentlemen, Your Excellencies, Honourable Foreign Ministers Martonyi and Kovács, Dear Péter,

Thank you for your attention. It has been an honour to address you.

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ISRAELE, I CURDI E LA DISSOLUZIONE DEL VICINO ORIENTE

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Sia la stampa inglese (in particolare quella finanziaria: Financial Times) che quella turca (per esempio Hürriyet del 25 agosto, che in effetti riprende la notizia citando come fonte il quotidiano inglese) hanno sottolineato gli ingenti approvvigionamenti petroliferi assicurati a Israele dal governo territoriale autonomo nordiracheno.

Le autorità curde fornirebbero attualmente a Tel Aviv più dei tre quarti (il 77 % per l’esattezza) del fabbisogno petrolifero. Da maggio all’11 agosto 2015 sono stati consegnati dal governo autonomo curdo a Israele 19 milioni di barili di petrolio, per un controvalore di circa un miliardo di dollari: si tratta indiscutibilmente di un grosso bottino realizzato attraverso il piano di smembramento del Vicino Oriente, cui accennavamo in un precedente articolo.

I pagamenti del greggio avverrebbero in anticipo sulla consegna, attraverso l’intermediazione di grandi compagnie mondiali che provvedono alla commercializzazione e alla consegna dell’oro nero; in particolare attraverso la Trafigura (coinvolta in scandali petroliferi in diversi Paesi, dal Sudafrica alla Costa d’Avorio e allo stesso Iraq) e attraverso la Vitol, due colossi dello stoccaggio e della successiva rivendita del petrolio.(1)

Risulta confermata l’importanza della carta curda giocata da Israele nella sua strategia di frammentazione dell’area: il ministro degli Esteri di Tel Aviv, Lieberman, ha osservato che l’indipendenza curda è il risultato inevitabile dell’implosione irachena, e lo stesso Netanyahu parlando all’università di Tel Aviv ha affermato che “il popolo curdo merita l’indipendenza”.)

E‘ una strategia che non nasce oggi ma risale almeno all’inizio degli anni Sessanta, quando Israele divenne la principale fornitrice di armi e di formazione militare per i Curdi iracheni (2); sono peraltro noti gli abboccamenti dello storico capo curdo Mustafa Barzani con Moshe Dayan, con Golda Meir, con Menachem Begin, mentre l’assistenza militare israeliana ai separatisti curdi è continuata in Iraq fino ai nostri giorni, coinvolgendo con alterni esiti il territorio turco, quello siriano e quello iraniano. Dopo la caduta di Saddam Hussein non solo è aumentata l’infiltrazione israeliana sotto il profilo militare, ma si è anche sviluppato un consistente intervento di tipo economico attraverso molte imprese e aziende israeliane aperte nel nord dell’Iraq, mentre una rivista “Israele e i Curdi” è apparsa a Erbil in arabo e in curdo.

Nel 2003 l’Istituto israeliano per l’esportazione organizzò a Tel Aviv un convegno d’affari, invitando le imprese israeliane ad aprire attività imprenditoriali nel nord Iraq in modo per così dire “mascherato”, assumendo cioè commesse da imprese giordane e turche: 5 anni dopo si contavano oltre 200 società israeliane operative in quell’area.

Il giornalista curdo Ayub Nuri ha espresso l’orientamento di una parte – certamente non di tutti – dei suoi connazionali: “I Curdi provano una profonda simpatia per Israele, e un Kurdistan indipendente sarebbe un beneficio per Israele”.(3)

Ayub Nuri non rappresenta probabilmente la generalità dei Curdi – ve ne sono anche di ostili o dubbiosi circa il piano di distruzione del Vicino Oriente – ma il suo curriculum vitae è alquanto rappresentativo della linea di tendenza gradatamente affermatasi: giornalista del Washington Post e del New York Times, corrispondente da Baghdad di Global Radio News e della BBC nel 2003, premiato nel 2007 dall’Associazione Stampa Estera di New York.

NOTE
1. Sulla consistenza e sul ruolo di tali società si veda un’interessante sintesi:
http://www.economy2050.it/oligopolio-mondiale-materie-prime/
2. Sergey Minasian, The Israeli-Kurdish Relations, in “21st century”, n. 1, 2007, p. 22
3. http://www.jerusalemplus.com/1er-allie-disrael-au-m-o-le-kurdistan-independant/

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CINA E DIRITTI UMANI

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Il Forum annuale di Pechino 2015 sui diritti umani si è tenuto nella capitale cinese dal 16 al 18 settembre presso l’Hotel Capital. Sono intervenuti oltre 100 funzionari ed esperti provenienti da circa 30 paesi e regioni.
Nel messaggio inaugurale inviato al Forum, il Presidente Xi Jinping ha rilevato come il Partito comunista e il Governo cinese abbiano sempre onorato e protetto i diritti umani: la Cina ha applicato i principi universali tenendo conto delle circostanze particolari del proprio paese; parallelamente alla promulgazione di leggi intese a tutelare i diritti umani, essa ha promosso lo sviluppo economico e sociale per migliorare la vita delle persone.

Il presidente cinese ha poi concluso la sua lettera con un invito ad intensificare gli scambi internazionali e la cooperazione in materia di diritti umani; al termine dei lavori Xi Jinping ha nuovamente inviato un messaggio di ringraziamento per i contributi ricevuti specialmente dalle delegazioni straniere, dichiarandosi molto soddisfatto per i risultati raggiunti durante il Forum.

L’evento annuale, che si è tenuto per la prima volta nel 2008, è diventato così una piattaforma fondamentale per gli scambi di opinione sui diritti umani tra i diversi paesi, etnie e culture.

Il Vicedirettore di "Eurasia", Stefano Vernole, unico italiano invitato al Forum di Pechino sui "Diritti umani"

Il Vicedirettore di “Eurasia”, Stefano Vernole, unico italiano invitato al Forum di Pechino sui “Diritti umani”

Liu Qibao, Ministro del Dipartimento Informazioni del Comitato centrale del PCC , ha inaugurato gli interventi dal palco, precedendo quelli dei principali dirigenti della Società cinese di studio sui diritti umani e dei vari ospiti stranieri (accademici e rappresentanti del Ministero degli Esteri di diverse nazioni).

Dopo le relazioni introduttive tutti i partecipanti al Forum sono stati divisi in tre gruppi di lavoro; il Vicedirettore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, Stefano Vernole, unico delegato proveniente dall’Italia, ha coordinato gli interventi del Gruppo A e ne ha sintetizzato le conclusioni con una dichiarazione esposta il giorno dopo dal palco del Forum (1).

Intervistato dall’agenzia di stampa cinese Xinhua e dal China Internet Information Center, Stefano Vernole ha risposto ad alcune domande sulla strategia geopolitica della Repubblica Popolare Cinese, sui suoi progetti infrastrutturali e finanziari, sulla crisi dei migranti in Europa e sulle ragioni della “cattiva informazione” che l’Occidente riserva a tutto quanto proviene da Pechino.

NOTE
1) Il testo integrale dell’intervento di Vernole, la dichiarazione di sintesi del Gruppo di lavoro A e altre informazioni sul Forum sono disponibili al seguente link del Cesem: http://www.cese-m.eu/cesem/2015/09/centro-studi-eurasia-e-mediterraneo-al-forum-di-pechino-sui-diritti-umani/

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UN COMUNICATO DELL’AMBASCIATA UNGHERESE

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L’Ambasciata d’Ungheria presso la Repubblica Italiana ha emesso il seguente comunicato, con cui smentisce una notizia falsa diffusa da alcuni organi di stampa.

Su alcuni organi di stampa si è diffusa la notizia secondo la quale al confine croato le autorità ungheresi avrebbero caricato migranti su carri merci, senza cibo né acqua, per trasferirli al confine austriaco.
Le autorità ungheresi smentiscono nel modo più assoluto questa falsa notizia, priva di ogni fondamento. Le Ferrovie dello Stato ungheresi (MAV) utilizzano esclusivamente carri adatti per il trasporto di persone, tecnicamente collaudate, mantenute e pulite regolarmente.
Ogni migrante – sia legale che illegale – che arriva nel nostro Paese, riceve acqua e cibo dalla polizia o dalle organizzazioni caritative presenti in loco, e in caso di necessità, ha accesso ad assistenza medica. Prima di attraversare il confine austriaco, i migranti ricevono di nuovo assistenza da parte di organizzazioni umanitarie, tra cui il Servizio di Carità Ecumenica, la Croce Rossa Ungherese ed il Servizio di Carità Ungherese dell’Ordine di Malta.
Bufale del genere, purtroppo, non contribuiscono a un’informazione corretta al servizio dei cittadini, quindi la nostra Ambasciata esprime un forte richiamo verso ogni organo di stampa affinché siano verificate le fonti delle notizie prima che vi sia il rischio di divulgare storie false, e perché siano corrette al più presto le falsità già pubblicate.
A questo riguardo, la nostra Ambasciata resta a disposizione per ogni tipo di verifica o chiarimento.

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LA GUERRA CIVILE ISLAMICA

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“omnia divina humanaque iura permiscentur” (Cesare, De bello civili, I, 6)

La guerra civile è propriamente un conflitto armato di ampie proporzioni, in cui le parti belligeranti sono costituite principalmente da cittadini di un medesimo Stato; obiettivo di ognuna delle due fazioni in lotta è la distruzione totale dell’avversario, fisica e ideologica. Tuttavia tale definizione può essere applicata in modo estensivo: Ernst Nolte, ad esempio, chiama “guerra civile europea” il conflitto delle due ideocrazie che, nel periodo compreso tra la Rivoluzione d’Ottobre e la sconfitta del Terzo Reich, hanno cercato di annientarsi reciprocamente. Guerra civile, ma combattuta su scala mondiale, fu secondo Nolte anche la guerra fredda: uno “scontro politico-ideologico tra due universalismi militanti, ciascuno dei quali era in possesso almeno di un grande Stato, uno scontro la cui posta in gioco era la futura organizzazione di un mondo unitario” (1).

In una certa misura, è possibile estendere la definizione di “guerra civile” al conflitto politico e militare che, nell’odierno mondo musulmano, contrappone Stati, istituzioni, movimenti, gruppi e fazioni appartenenti alla stessa comunità (umma). Un conflitto di tal genere viene indicato dal lessico islamico mediante il termine arabo fitna, al quale ricorre il Corano laddove esso afferma che “la sedizione è più violenta della strage” (al-fitnatu ashaddu min al-qatl) (2).

La prima fitna nella storia dell’Islam è quella che lacerò la comunità musulmana durante il califfato dell’Imam ‘Ali. Conclusasi la rivolta dei notabili meccani con la loro sconfitta nella Battaglia del Cammello, la fitna riesplose con la ribellione del governatore della Siria, Mu’awiya ibn Abi Sufyan, il quale, dopo aver affrontato a Siffin l’armata califfale e dopo essersi impadronito dell’Egitto, dello Yemen e di altri territori, nel 661 diede inizio alla dinastia omayyade. Una seconda fitna contrappose il califfo omayyade Yazid ibn Mu’awiya al nipote del Profeta Muhammad, al-Husayn ibn ‘Ali, che il 10 ottobre 680 conobbe il martirio nella Battaglia di Kerbela. La terza fitna fu lo scontro interno alla famiglia omayyade, che spianò la strada alla vittoria abbaside. La quarta fu la lotta fratricida tra il califfo abbaside al-Amin e suo fratello al-Ma’mun.

La prima e la seconda fitna, lungi dall’essersi risolte in un mero fatto politico, sono all’origine della divaricazione dell’umma islamica nelle varianti sunnita e sciita: due varianti corrispondenti a due prospettive della medesima dottrina e perciò definibili come “dimensioni dell’Islam insite in esso non per distruggere la sua unità, ma per rendere atta a parteciparvi una più ampia parte di umanità e individui di differente spiritualità” (3).
Ora, mentre la maggior parte degli Arabi, dei Turchi, dei Pakistani è sunnita, come sunnita è pure l’Indonesia, che è il più popoloso dei paesi musulmani, il nucleo più compatto e numericamente consistente dell’Islam sciita è rappresentato dal popolo iraniano. Questa stretta relazione dell’Iran con la Scia viene oggi utilizzata in un quadro strategico ispirato alla teoria dello “scontro di civiltà”: i regimi del mondo musulmano alleati degli Stati Uniti e di Israele fanno un ricorso strumentale al dualismo “Sunna-Scia” al fine di eccitare lo spirito settario e dirigere le passioni delle masse contro la Repubblica Islamica dell’Iran, dipinta come irriducibile nemica dei sunniti e presentata come nucleo statuale dell’egemonia regionale “neosafavide” (fu sotto la dinastia safavide che nella Persia del XVI secolo la Scia diventò religione di Stato).

L’alimento ideologico del settarismo antisciita è costituito soprattutto, anche se non unicamente, dalle correnti wahhabite e salafite, le quali fin dal loro apparire sono state oggetto di riprovazione e di condanna da parte dell’ortodossia sunnita. Circa lo storico rapporto di solidarietà che collega tali manifestazioni di eterodossia all’imperialismo britannico e statunitense, ci siamo già dilungati altrove (4). Qui sarà opportuno osservare che il più recente e virulento prodotto delle suddette correnti, ossia il sedicente “Stato Islamico” (Daesh, Isis, Isil ecc.), palesemente sostenuto da Arabia Saudita, Qatar e Turchia, è lo strumento di una strategia americana finalizzata ad assicurare al regime sionista l’egemonia sul Vicino Oriente e quindi ad impedire il formarsi di un blocco regionale che dall’Iran si estenda fino al Mediterraneo.

Occorre inoltre notare la significativa somiglianza che intercorre tra il caricaturale e parodistico “Califfato” di al-Baghdadi e la petromonarchia saudita. Gli efferati e bestiali atti di sadismo compiuti dagli scherani del cosiddetto “Stato Islamico”, la devastazione sacrilega dei luoghi di culto tradizionali e la vandalica distruzione dei siti della memoria storica in Siria e in Iraq, infatti, costituiscono altrettante repliche di analoghi atti di barbarie commessi dai wahhabiti nella penisola arabica (5). Il cosiddetto “Stato Islamico”, come è stato ampiamente mostrato sulle pagine di questa rivista6, non è se non una forma radicale e parossistica di quella particolare eterodossia che ha il proprio eponimo in Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab. D’altronde, sia l’entità saudiana sia la sua replica denominata “Stato Islamico” devono entrambe la loro nascita e il loro sviluppo agl’interessi angloamericani ed alle scelte operative della geopolitica atlantica.

La “guerra civile” islamica, la fitna che oggi divampa nel mondo musulmano, trae dunque origine dall’azione combinata di un’ideologia settaria e di una strategia che i suoi stessi ideatori hanno chiamata “strategia del caos”.

Claudio Mutti è Direttore di “Eurasia”.

NOTE
1. Ernst Nolte, Deutschland und der Kalte Krieg (2a ed.), Klett-Cotta, Stuttgart 1985, p. 16.
2. Corano, II, 191.
3. Seyyed Hossein Nasr, Ideali e realtà dell’Islam, Rusconi, Milano.
4. Claudio Mutti, L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. IX, n. 4, ott.-dic. 2012, pp. 5-11.
5. Carmela Crescenti, Lo scempio di Mecca, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, n. 4, ott.-dic. 2014, pp. 61-70.
6. Jean-Michel Vernochet, Le radici ideologiche dello “Stato Islamico”, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, n. 4, ott.-dic. 2014, pp. 81-85.

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La guerra civile islamica

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L’editoriale
Claudio Mutti, La guerra civile islamica

Dossario – La guerra civile islamica

Ali Reza Jalali, La guerra all’ISIS senza l’ ONU
Pierre Dortiguier, Le fasi di una fitna organizzata
Domenico Caldaralo, L’etichetta confessionale della guerra yemenita
Gaetano Potenza, Dopo la distruzione della Giamahiria
Enrico Galoppini, La “primavera araba”, cinque anni dopo
Amedeo Maddaluno, Anatomia del caos
Alessandro Balduzzi, La vittoria islamista in Marocco

Migrazioni

Enrico Galoppini, Lo scippo della sovranità e le “migrazioni” subite
Aldo Braccio, Migranti in Turchia
Ali Reza Jalali, L’immigrazione afghana in Iran

Continente Russia

Davide Ragnolini, L’Artico e la “primavera russa”
Ivelina Dimitrova, Tbilisi sette anni dopo

Interviste

Italia e Iran, un rapporto da consolidare Intervista ad Alì Pourmarjan (E. Bossi)
Contesto internazionale del Caso Moro. Intervista al Generale Cornacchia (A. M. Turi)

Recensioni

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Giacomo Gabellini: Capire la Russia di Paolo Borgognone
Davide Ragnolini: L’aquila della steppa di Aldo Fais
Enrico Galoppini: Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica di Alain De Benoist e Aleksandr Dugin
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