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Alain De Benoist, La fine della sovranità, Arianna Editrice (trad. it.), Bologna 2014

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Alain De Benoist, La fine della sovranità, Arianna Editrice (trad. it.), Bologna 2014.

Il titolo dell’ultimo libro di Alain De Benoist mette sul chi va là chiunque vada in cerca di spiegazioni “facili” dell’attuale crisi in cui versano gli Stati europei. Tutto è da ricondurre al “peccato originale” di questa “Europa”: la fine della sovranità.

È pensabile, si chiede il pensatore francese autore di altri importanti saggi quali Visto da destra, Il male americano, Democrazia. Il problema, L’impero interiore ed altri ancora, un’Unione Europea senza un briciolo di sovranità?

No che non lo è, eppure essa è stata concepita e realizzata da chi, per togliere il potere ai popoli, ha inteso stabilire una ferrea dittatura del denaro.
Mi dispiace ripetermi, specie per chi ha in odio i dejà-vu, ma piuttosto che cercare l’originalità preferisco insistere su un punto essenziale: senza sovranità, tutto il resto è inutile. È una perdita di tempo ed un inganno. Dalla “lotta all’immigrazione” alle campagne per la “moralizzazione” della politica. Dalle battaglie sindacali alle varie trovate del giorno per contrastare la “crisi”.

Questa “crisi”, agita tramite strumenti per l’appunto finanziari, è essenzialmente deficit di sovranità, sotto ogni aspetto. A partire da quella monetaria, checché ne pensino coloro che appena sentono parlare di “moneta” corrono con l’immaginazione agli Ufo e ai Rettiliani, per poi tacciare chi evidenzia l’attuale aberrante politica monetaria occidentale di far parte della nutrita schiera dei “visionari” e “complottisti”.

Il complotto, al contrario, dati alla mano e risultati disastrosi sotto gli occhi di tutti, è proprio quello di ci ha ficcato nella “gabbia europeista”, perseguendo un disegno ideologico nel quale la finanziarizzazione dell’economia è cresciuta esponenzialmente a svantaggio dell’economia reale. Speculazione contro investimenti (p. 29). E produzione per l’esportazione, non per il mercato interno, per prima cosa, come dovrebbe essere in ogni ordinamento normale.

Il processo di globalizzazione nel quale le imprese transnazionali (non “multinazionali”) hanno fatto di tutto per rendere gli Stati impotenti, lungi dall’apportare quei benefici messianicamente decantati per anni dalle élite occidentali, si è tradotto nella trasformazione dello Stato stesso, senza più vera “autorità”, in una macchina tenuta in piedi al solo scopo gestire la repressione ed il controllo dei sottomessi, dissociandosi perciò sempre più dal popolo (pp. 33-34). Un popolo tenuto a credere alla favola del “debito pubblico”, che solo per restare al caso francese sta portando la voce “interessi sul debito” al primo posto tra quelle del bilancio dello Stato. Da qui sempre nuove tasse e nuovi tagli di spesa, in nome del mitico “abbattimento del debito”.

Tutti oramai sanno che “debito pubblico” non è sinonimo di “sacrifici necessari”. Si pensi al Giappone, che ha un debito stratosferico ma essenzialmente nelle mani dei giapponesi stessi. La catastrofe è, semmai, la globalizzazione del debito, cosicché quello negoziabile della Francia è finito in mano per il 68% a stranieri, i quali lo usano come arma di pressione e di ricatto. Con la “legge” – colmo dello scandalo – che proibisce di sapere chi sono per filo e per segno (p. 41)!

In nome di che cosa, e nell’interesse di chi, dunque, i francesi, come gli altri popoli europei, sarebbero chiamati a “tirare la cinghia”?
Con Stati, o meglio simulacri di Stati, ai quali è fatto assoluto divieto di procurarsi autonomamente le somme di denaro di cui hanno bisogno, non sorprende che le cosiddette “agenzie di rating” siano state fatte assurgere al rango di colui che dà la vita e dà la morte. I giornali, oggidì, pubblicano queste “quotazioni” manco fossero gli esami del sangue di entità per la verità dissanguate dalle stesse politiche di “rigore” e di “austerità” che, in una spirale infernale (pp. 59-60), conducono dritte alla fine della sovranità che dà il titolo a questo libro (pp. 44-45).

A suggello della capitolazione totale degli Stati europei, è poi stato architettato il MES – Meccanismo Europeo di Stabilità, ispirato al famigerato Fondo Monetario Internazionale: per non rovinare la sorpresa, s’invitano tutti coloro che si procureranno La fine della sovranità a leggere per prima la pagina 50, davvero sconvolgente.

Roba da togliere il sonno, eppure i “nostri” politici non mostrano segni di turbamento, tanto sono stati cooptati in questo crimine culminante nella svendita delle loro patrie.

Conseguenza logica dei maneggi della grande finanza è lo scippo di ogni politica economica e finanziaria ai singoli Stati (p. 56). Oggi non esiste più la Legge di Bilancio, ma un’anodina Legge di Stabilità.

In queste condizioni, la “marcia verso la miseria” è assicurata (pp. 62-63), con le popolazioni sottomesse a questa gogna che mentre riducono le loro pretese dovranno mostrarsi felici e raggianti per i “conti in ordine”, il “deficit zero”, le “leggi del mercato” ed altre parole d’ordine messe in circolazione da chi ha tutto l’interesse a far credere che esiste una “economia pura” (pp. 70-71).

Alla luce di quanto sta accadendo, si capisce definitivamente la lungimiranza di chi, già oltre un secolo fa, denunciava appassionatamente, inascoltato dai falsi profeti del “proletarismo”, i danni del “capitalismo finanziario”; estrema degenerazione di una tendenza già anormale ad anteporre le istanze economiche al di sopra di quelle politiche e spirituali.

Il tempo, tuttavia, è gentiluomo, quindi darà a tutti la possibilità di constatare come anche la “guerra del sangue contro l’oro” non fosse una trovata pubblicitaria, ma la sintesi di una battaglia metastorica che da sempre viene ingaggiata tra gli usurai, senza patria per definizione, e chi non è affatto disposto a vendersi per un punto di “spread”.

Il dramma, stando a quello che documenta De Benoist, è solo agli inizi, anche se gli autori del “complotto” (quello vero) hanno già portato a segno alcuni colpi decisivi. Il TTIP – Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, il quale è in fondo il frutto del fallimento dell’OMC – Organizzazione Mondiale del Commercio (p. 90), si staglia come l’incubo di una sorta di NATO economica, con l’Europa-mercato a detrimento di un’Europa-potenza. L’incubo finale è ben descritto a pag. 92: un’Unione Transatlantica che dovrebbe produrre un blocco politico-culturale dal Pacifico alla frontiera dell’area d’influenza russa.

Questa famosa “globalizzazione” o “mondializzazione”, si chiede l’Autore, non è forse sinonimo di “americanizzazione”?

Al di là delle definizioni, sempre inadatte a descrivere la complessità della realtà, resta il fatto che non si vede all’orizzonte, all’interno dello spazio euro-atlantico, un soggetto in grado di opporsi decisivamente a quest’esito catastrofico. I cosiddetti “altermondialisti” meno che mai, poiché, vittime dei loro tabù ideologici, “deplorano le conseguenze di cui continuano a coltivare le cause” (p. 112). La “società civile”, l’umanitarismo astratto, i “diritti umani”, “l’individuo”, già oggetto delle passate riflessioni critiche di De Benoist, rientrano nelle storture che andrebbero sanate, e non rappresentano alcuna alternativa praticabile con successo.

Qualche forma di resistenza alla “mondializzazione” può sorgere a livello “locale”, per esempio a livello alimentare, ma è sinceramente troppo poco quando la forza corruttiva del denaro è in grado d’imporre, sulla testa dei popoli, decisioni aberranti eppure osannate da tutto l’apparato politico-mediatico nazionale ed europeo.
Il pericolo della fagocitazione dell’Europa nell’Unione Transatlantica (ovviamente condotta nella massima omertà) mostrerà il suo volto più mostruoso quando l’allineamento normativo interesserà settori quali la giustizia, la sanità, il lavoro: le norme più “liberiste” saranno quelle che avranno la meglio.

E quando i servizi d’urgenza, l’acqua (malgrado gli esiti referendari), gli ospedali, il gas, l’energia elettrica e addirittura il patrimonio culturale (già affidato a “super manager” stranieri) sarà “liberalizzato”, in che mondo vivremo?

Che razza di follia è quella nella quale il “mercato” (cioè le banche) entra nella gestione dei Comuni, delle Provincie, delle Regioni e dello Stato?

Ma attenzione, perché gli Stati Uniti, che sarebbero al culmine di questa tendenza “mercatista”, in base ad una legge del 1933 (guarda caso), hanno solo il 30% dei loro settori pubblici aperti ad imprese estere. Mentre a noi predicano che il “protezionismo” è sbagliato… e che dovremmo “aprire” tutto a tutti.

Ecco, il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. E le bugie hanno le gambe corte. Questo libro di De Benoist è un potente strumento per metterle a nudo e da lì ripartire per riconquistare la nostra sovranità.

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DOPO PARIGI È “GUERRA” ALL’ISLAM? INTERVISTA AD ENRICO GALOPPINI

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Giovanna Canzano ha intervistato per il quotidiano “Rinascita” ed altre testate Enrico Galoppini, studioso del mondo arabo-islamico e redattore di “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”.

 

Parigi il giorno dopo. Il secondo attentato. Ma questa volta è guerra?

Per poter parlare di “guerra” bisogna sapere per prima cosa chi ce la sta dichiarando e a chi la si vuol fare. E qui cominciano i dolori. Perché a sentire le esternazioni dei politici (si noti che il primo in assoluto, prima ancora di Hollande, è stato Obama!) sembrerebbe una guerra dichiarataci dall’Isis, cioè dal “terrorismo islamico”. Ovvero da un generico “terrorismo” e… in definitiva, dall’Islam tout court!

Ora è chiaro che tutto questo rimestare in un minestrone di parole dal quale deve saltare fuori “l’Islam” come “nemico pubblico numero uno” è un inganno spaventoso, oltre che una cosa assurda. Vogliamo fare la “guerra all’Islam”? Ah sì, e allora facciamo la guerra ad oltre due miliardi di persone? Vogliamo dichiararla agli Stati che, ufficialmente, sono più “islamici” di altri? Ma quelli sono gli alleati di ferro dell’Occidente! Intendiamo allearci allora con quegli stati arabi (ed islamici) che combattono da anni il cosiddetto “terrorismo islamico”? Manco per idea, perché gli occidentali han fatto di tutto per sovvertire il governo siriano e gioivano quando in Egitto erano andati al potere i Fratelli Musulmani. Gli stessi inqualificabili e scellerati che hanno distrutto la Libia ed ora si atteggiano a vittime del “terrorismo islamico” e si mostrano disperati di fronte al numero incalcolabile di “profughi” in marcia dalle stesse regioni devastate!

Dunque, per parlar chiaro, non sarà “guerra” con nessuno, o, se lo sarà, si tratterà di una cosa che logicamente non avrà alcun nesso con la pretesa causa scatenante. Un po’ come per l’11 settembre 2001, quando per rispondere ad una “guerra” portata all’America da terroristi per lo più sauditi della famigerata al-Qa’ida (che nessuno ricorda più) è stato invaso l’Afghanistan!

Più verosimilmente ancora, mentre a parole si scateneranno nuove “crociate”, nei fatti avverrà che chi deve “capire” capirà. E si adeguerà al messaggio in stile mafioso portato da questa nuova strage di gente inerme. I cui familiari, sia chiaro, non riceveranno mai alcuna compensazione per il duro colpo subito, esattamente com’è successo a tutte le vittime del “terrorismo” negli anni della “strategia della tensione”… A tutte queste persone non potrà mai essere gabellata per “giustizia” una serie di bombardamenti massicci su chissà quale area del Medio Oriente, ma i nostri cosiddetti governanti, purtroppo, più di questo non sanno o non riescono a fare.

 

L’ISIS avanza in Europa?

L’Isis non avanza in alcun modo perché semplicemente non esiste così come ce lo raccontano. Questo spauracchio serve ad un sacco di cose, tra le quali – non ultima – un’esigenza estrema di tenere lontani gli occidentali dalla spiritualità tradizionale islamica. La quale, come si stanno sforzando di provare anche alcuni rari onesti commentatori che hanno accesso alla stampa più o meno ufficiale, è assolutamente inserita in quel filone sapienziale che origina dalla notte dei tempi e sul quale s’innestano tutte le tradizioni ortodosse. Tra queste ed ogni fenomeno modernista esiste un’inconciliabilità di fondo, perché ogni “riformismo” altro non è che concessione all’errore, anche se a questi sedicenti “fondamentalisti” piace tantissimo affibbiare ai musulmani tradizionali l’accusa di bid‘a (“innovazione”, cioè “eresia”), se non addirittura quella di kufr (“negazionismo”, ovvero il misconoscimento dei fondamentali dell’ortodossia).

L’Islam, nella sua accezione più ampia, ovvero quella di fenomeno anche politico e sociale, ha inoltre molto da insegnare agli occidentali per quanto riguarda problemi che li attanagliano e che non trovano soluzione. Penso a quelli della rappresentanza politica o della corruzione, per non parlare della politica monetaria e fiscale, dato che le indicazioni dottrinali al riguardo sono assai chiare sull’assenza di una moneta emessa “a debito” (o moneta-merce) e la tassazione dei soli patrimoni fermi anziché dei redditi. Gli occidentali, invece, vengono ammaestrati ad impietosirsi per il Charlie Hebdo, solo perché vengono raggirati di continuo e non sanno più distinguere quale abisso di degrado rappresenti certa “libertà di satira”, che peraltro prende di mira i simboli più sacri della tradizione religiosa cristiana. La quale, secondo una certa retorica “neo–crociata”, costituirebbe un caposaldo della “civiltà occidentale”!

In altre parole, gli europei devono smetterla di concepirsi “occidentali” se vogliono ritrovare se stessi e, diciamocelo chiaramente, vivere una vita meno disanimata e più a misura d’uomo. In questo, l’Islam può essere per l’Europa un esempio ed una valida fonte d’ispirazione. L’alternativa è quella di sprofondare nel nichilismo che travolge alla fine anche la stessa religione prevalente, mentre se gli europei riscoprissero una loro religiosità autentica non potrebbero essere stretti nella tenaglia dell’occidentalismo (americanismo) e del fondamentalismo islamico. I quali si affrontano sul ring ma si somigliano parecchio, mentre nel mezzo ci finiamo noi.

 

Quelli dell’ISIS sono strumenti di un ‘meccanismo’ ormai senza controllo?

No no, credo invece che, fatti salvi i sempre possibili “cani sciolti”, questi individui rispondano a precise catene di comando, altro che “fuori controllo”!

Affermare che gli attentatori sono elementi “fuori controllo” significa ammettere che essi colpiscono mossi unicamente dall’“odio per l’Occidente”, il che è esattamente ciò che vuol farci credere la propaganda occidentale stessa. Questi atti terroristici, che seminano morte tra persone intente nelle loro abituali attività, puntano al contrario ad obiettivi studiati molto freddamente. Sono, sotto un certo aspetto, atti di una guerra che, altrove, ha visto e vede ancora famiglie intere straziate da armi sofisticate che fanno meno orrore di una cintura esplosiva solo perché con la tecnologia i moderni hanno un rapporto che li ha resi insensibili ai suoi esiti più distruttivi. A Gaza o a Baghdad, a Kabul o a Beirut, le persone hanno fatto il callo alle bombe che dovevano portare la “democrazia” ed invece hanno solo ampliato i cimiteri ed aumentato il desiderio di vendetta di chi, poi, viene considerato “pazzo” se poi, un giorno, sceglie di fare il “terrorista”.

Il discorso non si esaurisce qui, ma anche questi sono aspetti che andrebbero considerati. Perché non è serio pubblicare prime pagine con titoli come “Israele ha fatto bene” mentre su Gaza piovono razzi da ogni parte e poi fare gli offesi con altri titoli “scandalosi” come l’ormai celebre “Bastardi islamici”. Poi si meravigliano se un giorno qualcuno, esasperato, fa una strage in redazione, ma sinceramente chi s’imbarca in una guerra, anche solo dell’informazione, quando l’informazione è un’arma che fa le sue vittime, deve prendersi le sue responsabilità.

Insomma, un conto è “Charlie Hebdo”, che in un certo senso – se è vero che s’è trattato di un “commando jihadista” eccetera – se l’è cercata, mentre ovviamente dei turisti o degli spettatori d’un concerto non hanno alcuna responsabilità, ed anzi tra essi si potrebbe trovare anche chi è molto critico nei confronti delle stesse dirigenze occidentali che questi “terroristi” vorrebbero punire (mentre ammazzano solo gente innocente).
Tutto questo, ovviamente, non tiene conto della possibilità che in alcuni casi si tratti di totale manipolazione e malafede, perché sotto un “jihadista” che colpisce in una città europea si può celare qualsiasi cosa, tra cui elementi eterodiretti che non sanno alla fine a quale mulino portano acqua e addirittura soggetti che di arabo ed islamico hanno ben poco, tanto nessun tele-suddito saprà mai nulla davvero sulla reale identità degli attentatori (l’11 settembre 2001, sotto quest’aspetto, è emblematico).

 

ISIS solo ‘braccio’ armato dell’Islam, oppure niente di questo?

Al riguardo dell’Isis come ultima incarnazione di una tendenza modernista ed antitradizionale mi sono già espresso in vari scritti, ai quali rimando il lettore di quest’intervista [Il “Grande Medio Oriente” e il momento islamico dello “scontro di civiltà” (il caso italiano); Da Bin Laden al “Califfo”. La guerra finale contro l’Islam (per colpire l’Eurasia); Chi manovra i “modernisti islamici”?]. Non è possibile comprendere questo fenomeno se non lo s’inquadra storicamente (specialmente dalla metà del XVIII secolo) e se non si fa lo sforzo di coglierne l’intima natura “sovversiva” di tutto ciò che è stato l’Islam tradizionale per oltre quattordici secoli. È una china che, con esiti in parte simili, ha vissuto anche il Cristianesimo, con la nascita della cosiddetta “Riforma”, in tutte le sue varie declinazioni. Ovunque essa s’è imposta, fin dall’inizio, ed ovunque si sono affacciati i prodromi di essa, i risultati sono stati “guerre di religione” e una concezione del sacro impoverita e ridotta ad un freddo moralismo, che nell’Islam, così come nel fondamentalismo ebraico, si associa ad un “legalismo” altrettanto freddo e sterile.

 

L’ISIS in Italia? Sono già presenti nel nostro territorio e pronti a tutto?
Questo non lo devo sapere io, ma gli apparati preposti alla sicurezza di tutti e che tra l’altro paghiamo per questo servizio. Con questo intendo anche dire che ogni volta che si verificano gravi attentati come quelli di Parigi sono innanzitutto i servizi di sicurezza e di spionaggio a fare una figura barbina. Capisco che è praticamente impossibile controllare tutto e tutti, ma proprio per questo sarebbe importante smetterla di fare le pulci a cosa scrive un pincopallino qualsiasi su Facebook e concentrarsi su chi, perché e per come entra in un paese. Mentre mi pare che al riguardo la situazione sia parecchio preoccupante, se è vero – com’è stato documentato – che entrano “siriani” con passaporti taroccati che anche dei giornalisti d’inchiesta si sono procurati con una cifra relativamente contenuta.

Quanto ai giovani di famiglie musulmane nati e cresciuti qua, il problema è irrisolvibile, perché ci sarà sempre chi tenderà ad autoghettizzarsi pensando di aver subito, a torto o a ragione, una grave ingiustizia, che risale al momento in cui i suoi genitori o i suoi nonni sono emigrati e che poi è proseguita con una storia di emarginazione e sradicamento. L’emigrazione, volenti o nolenti, si porta dietro anche percentuali di persone che, in un misto di rivalsa e frustrazione, assieme al desiderio di sentirsi finalmente “qualcuno”, abbracciano qualche ideologia – e ribadisco “ideologia” – nella quale la religione è un puro pretesto per sfogarsi.

Certi giornalisti si sbalordiscono nel constatare che un ex “rapper” possa dedicarsi al taglio di teste in nome di un delirante “islam” (la minuscola, qui, è voluta), ma ciò non è affatto strano perché è proprio l’aver reciso i ponti con la tradizione autentica che conduce a certi gravi fraintendimenti, sui quali andranno poi a lucrare gli apparati d’intelligence di mezzo mondo che non vedono l’ora di attivare un “attentato islamico”.

 

Quest’attentato è una svolta?
Non saprei proprio, ma di sicuro qualche decisione la Francia dovrà prenderla, perché non fare nulla significa dare il segnale sbagliato che le si può combinare di tutto. Vede, la Francia è un paese che non è del tutto “occidentale”, nel senso che non è affatto conquistata all’americanismo e al suo modello. Parigi è una “città globale”, e come tutte queste città rappresenta la vetrina nella quale inscenare la finzione di una “classe media globale” che vuole solo divertimenti e bella vita.

La Francia vera la si vedrà presto al voto, quando, se non interverranno manipolazioni e forzature, il Front National, che non è un partito “regionale” come la Lega Nord, sbaraglierà l’attuale pariglia d’inetti. La Francia vera non può digerire a cuor leggero un’abnormità come il TTIP, il trattato di “libero scambio” tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. La Francia vera si ribella contro i matrimoni omosessuali e la cancellazione, dall’alto, dell’identità sessuale.
O la Francia ritrova se stessa, rigetta l’occidentalismo, smette di omaggiare il “Charlie Hebdo” e si rimette ai suoi eroi come Giovanna D’arco, oppure merita di vagolare nell’angoscia indotta da questo “terrorismo” ufficialmente “islamico” ma in realtà senza volto perché così lo vuole chi l’ha coltivato e foraggiato.

Adesso pare di capire che la Francia s’impegnerà di più in Siria. Ma che vuol dire? È dall’inizio che la Francia è intenta a sovvertire la Siria, quindi? Vogliamo credere che questa famosa “terza guerra mondiale” nominata anche dal Papa vedrà da una parte l’Isis e dall’altra tutto il “mondo civile”? Suvvia, sarebbe come credere che una partita di calcio dal risultato incerto si giocasse tra una squadra di amatori e una selezione dei migliori campioni mondiali!
Allora si abbia il coraggio (e soprattutto la creanza) di parlar chiaro e si dica a chi si vuol fare la guerra. La si vuol fare ai paesi islamici che sostengono il cosiddetto “Stato islamico”? E come la vogliamo mettere quando questi stessi sponsor sono partner più che appetiti per fare affari? Per quanto tempo racconteranno la favola della “cellula” composta da “reduci della Siria”? E che atteggiamento vogliamo tenere con il famoso “grande alleato” a sua volta alleato dei finanziatori “islamici” dell’Isis?

 

Gli italiani convertiti all’Islam si sentono in qualche modo vicini all’ISIS?

“Convertiti italiani all’Islam” vuol dire ben poco. Ci sono italiani che si sono avvicinati alla religione islamica vedendovi un ideale di giustizia sociale, e questi sono quelli più “politicizzati”. Non dico che necessariamente debbano sviluppare una visione che conduce ad una simpatia per l’Isis, ed anzi bisogna riconoscere in costoro un forte impegno a migliorare le società nelle quali vivono. Fatto sta che in qualche caso ci sono quelli che tendono a fanatizzarsi ad un punto tale che tutto ciò che non è “islamico” (e cioè non collima con la loro particolare ideologia religiosa) è da sopprimere con la violenza. Tra questi possono allignare gli elementi oggettivamente pericolosi (in combutta con altri immigrati), ma credo che gli apparati di sicurezza li tengano già tutti d’occhio. Così come dovrebbero tenere d’occhio altri ambienti frequentati da teste calde, o, peggio ancora, che si dimostrano “amici” ed “alleati” e poi tramano per crearti continuamente problemi. Ripeto: o l’intelligence lavora nell’interesse del suo paese o è una burla che sta alle calcagna di qualche “imam fai da te” ma non vede che altrove si tessono trame assai pericolose per l’incolumità di tutti i cittadini.

Poi vi sono anche “convertiti italiani all’Islam” che hanno un atteggiamento alieno da ogni politicizzazione e pertanto vivono questa loro esperienza come un’occasione di rigenerazione spirituale. Senza voler dare patenti di “musulmano buono” o “cattivo”, credo di poter dire che quest’atteggiamento sia quello in grado di dare i migliori frutti, perché senza fare troppo clamore agisce come una provvidenziale influenza rettificatrice di un ambiente – quello occidentale – che ha un nemico più insidioso di ogni altro: il nichilismo, che tutti questi “nostri valori” per i quali dovremmo andare a combattere un fantomatico “califfo” non riescono in alcun modo a mascherare.

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I SIGNORI DELLE DUE CINE

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Si è aperto con una stretta di mano in territorio neutro lo storico incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e il suo omologo di Taiwan Ma Ying-jeou, lo scorso sabato 7 novembre. Erano 66 anni che i due fratelli di sponda opposta non si parlavano, da quando cioè le truppe nazionaliste di Chang Kai-shek sconfitte dall’esercito di liberazione popolare di Mao ripararono sull’isola di Formosa. Da allora Pechino considera Taiwan una provincia ribelle, parte integrante e irrinunciabile del territorio cinese. Un disgelo di valenza unicamente simbolica comunque, almeno per ciò che riguarda i temi politici: dall’incontro non emergono dichiarazioni di intesa per un eventuale trattato di pace o un accordo che spiani la strada alla riunificazione. La partita politica si gioca su altri campi. Per Taipei l’incontro è dettato dall’agenda elettorale. Le presidenziali che si terranno a Taiwan nel prossimo gennaio 2016 potrebbero vedere la vittoria del fronte indipendentista (e fortemente critico nei confronti di Pechino) guidato da Tsai Ing-wen, a scapito del Kuomintang, il partito di Ma attualmente al potere ma già notevolmente ridimensionato durante le ultime elezioni amministrative.

Il tentativo del Presidente Ma è chiaramente quello di riguadagnare consensi in patria, accreditandosi come il tutore dello status quo contro un avversario politico che rischierebbe di irritare non poco il gigante sulla terraferma. Dall’altra parte Xi – per il quale i popoli “delle due sponde sono una sola famiglia” – intende sperimentare una variante pacifica al tentativo di influenzare il risultato delle urne a Taipei: invece della vecchia prassi delle esercitazioni militari provocatorie, un incontro al vertice tra i “signori” delle due Cine, come i due uomini politici hanno deciso di chiamarsi reciprocamente evitando l’appellativo di “presidente”, un riconoscimento di sovranità che nessuna delle due parti è disposta ad ammettere.

Per Pechino la motivazione a margine dell’iniziativa diplomatica potrebbe poi riguardare la crescente tensione col principale antagonista alla supremazia cinese nella regione: gli Stati Uniti, i quali avrebbero mal tollerato pressioni militari sul proprio alleato strategico. Le rivendicazioni territoriali e marittime del Dragone Rosso a fronte della sua sete di risorse non lasciano ben sperare gli Stati Uniti. La Cina rivendica il 90% del Mar Cinese Meridionale in contrasto con altri attori regionali, molti dei quali storicamente ancorati a Washington. In caso di conflitto i paesi rivali potrebbero recuperare l’amicizia statunitense in chiave anticinese, sfruttando le rispettive posizioni geostrategiche per fortificare la “prima catena di isole”, una linea di territori, cioè, che si snoda dal sud del Giappone fino al braccio di mare compreso tra Vietnam e Filippine, passando per Taiwan.

Pechino rischia così un blocco navale praticamente invalicabile. Gli Stati Uniti, il più importante concorrente nella zona, avallerebbero una proposta del genere, essendo interessati a preservare il controllo degli spazi comuni (marittimi e aerei) funzionale alla loro supremazia. In un recente tesissimo episodio dell’ottobre scorso la Marina statunitense ha sfidato Pechino inviando un cacciatorpediniere nelle 12 miglia nautiche che la Cina considera acque territoriali intorno alle isole artificiali Spratley, un gruppo di scogli recentemente attrezzati per consentire l’approdo alle forze armate cinesi, ma rivendicati da altri cinque paesi della zona: Vietnam, Malesia, Brunei, Taiwan e Filippine. La soluzione cinese ad un simile scenario risiede naturalmente in primo luogo nella risposta militare.

Negli ultimi anni, se non nell’ultimo decennio, si è infatti registrato un salto qualitativo e quantitativo nella modernizzazione ed espansione delle Forze armate cinesi. In particolar modo il progresso ha riguardato la marina. Oltre allo sviluppo di una notevole flotta di sottomarini, destinata a contrastare la libertà di movimento americana nell’area, la Cina starebbe costruendo due nuove portaerei (attualmente ne ha una di fabbricazione sovietica). Il valore strategico delle portaerei consiste nella loro capacità di aumentare la proiezione della forza oltre le frontiere, elemento indispensabile se Pechino vuole difendere le proprie linee di comunicazione marittime anche in contesti lontani come l’Oceano Indiano. La modernizzazione ha riguardato anche l’arsenale missilistico, cioè missili balistici a medio raggio indirizzati contro le basi americane in Giappone e Corea e missili balistici antiportaerei.

Per il momento la RPC però non rappresenterebbe un concorrente in termini assoluti: nonostante sia la seconda potenza nell’elenco dei bilanci militari più cospicui, il bilancio della difesa cinese è 4 volte inferiore a quello americano, che da solo assorbe le cifre sommate degli otto paesi a seguire. Gli Stati Uniti godono del vantaggio di poter utilizzare basi fuori dalla portata del nemico ma relativamente vicine al teatro di conflitto, come la base di Okinawa o la base di Darwin, riattivata e potenziata proprio nel quadro della strategia del contenimento dell’aggressività cinese enunciata dall’amministrazione Obama nel 2009, il cosiddetto “Pivot to Asia”. Si aggiunga la schiacciante superiorità nel possesso di portaerei che consente alla potenza militare yankee una capacità di proiezione a copertura dell’intero globo. Un deterrente in grado di guadagnare il supporto degli alleati della regione in funzione anticinese, da utilizzare per un valido “southern tier”.

D’altra parte, riconoscendo la superiorità tecnologica dell’avversario, la strategia cinese è tutta orientata ad evitare lo scontro in campo aperto, mirando invece ad interrompere la catena di comando e danneggiando la struttura logistica del nemico preventivamente, praticamente negandogli lo spazio per la battaglia. Oltre a proporsi di raggiungere la superiorità nel cyberspazio, con attacchi all’infrastruttura informativa americana e ai sistemi di controllo satellitare, Pechino si affida all’unico modo che ha di sfidare gli Stati Uniti: sviluppare un’egemonia regionale, a contrasto di quella americana. Il tentativo di ostacolare il predominio americano nella regione, ha prodotto infatti negli ultimi anni un miglioramento delle relazioni sia economiche che politiche con i paesi limitrofi – tra questi Taiwan, per cui la Cina è il primo partner economico – attraverso negoziati commerciali, grandi investimenti e la creazione di una nuova istituzione finanziaria tutta asiatica.

Una distensione economica che ha dato vita al Free trade area of the Asia Pacific (Ftaap), un’area di libero scambio che copre metà del commercio e dell’economia globale, la risposta cinese cioè alla Trans-Pacific partnership (Tpp), la componente economica del “Pivot to Asia”. La versione cinese della politica di buon vicinato trova attuazione però prevalentemente in ambito economico, mentre a livello politico le dispute territoriali permangono a incrinare i rapporti con “l’estero vicino” e l’escalation militare rimane uno scenario contemplato.
Il processo di ricongiungimento di Taiwan alla madrepatria rimane uno degli assi principali della politica estera cinese. Dato il quadro generale e i molteplici interessi coinvolti nell’area, è difficile immaginare un cambiamento nei rapporti tra le due Cine senza che esso coinvolga prevedibilmente la reazione statunitense, motivo per il quale, nonostante storici eventi come quello del sabato scorso, la questione rimarrà per molti decenni a venire sostanzialmente insoluta. Da incontri di questo tipo sono volutamente esclusi temi di carattere politico: l’interesse è da una parte agitare lo spettro di Pechino per mantenere il potere sull’isola, dall’altra preservare l’attuale status quo in maniera da guadagnare tempo e riassorbire nella maniera più pacifica possibile l’isola.

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“SIAMO SOLO ALL’INIZIO” – INTERVISTA A PADRE JEAN MARIE BENJAMIN

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D. – Padre Benjamin, dopo aver analizzato la situazione del Vicino Oriente già nel 2002 con il suo primo libro “Obiettivo Iraq”, ora torna ad occuparsi dell’Iraq, che pare quasi dimenticato dai media occidentali, questa volta però con uno sguardo approfondito anche sull’Isis. Partendo dai tragici fatti di Parigi, dove nel giro di poche ore circolavano già indiscrezioni sui presunti autori che avrebbero fatto capo all’Isis, lei che idea si è fatto al riguardo di questo attacco avvenuto con modalità quasi militari?

JMB – In realtà Obiettivo Iraq è il secondo libro che ho pubblicato. Il primo è uscito nel 1999 ed era il primo libro pubblicato in Europa che denunciava l’utilizzo di armi all’uranio impoverito. Il terzo è stato pubblicato in Francia nel febbraio 2003 a un mese dell’intervento americano in Iraq. Quest’ultimo, Iraq – L’effetto boomerang è il quarto. Questo libro è uscito lo scorso aprile in Francia e a settembre ne è stata pubblicata l’edizione italiana da Editori Riuniti. Ho finito di scriverlo lo scorso gennaio e ho dedicato diverse pagine al rischio che avrebbe corso la Francia con la politica di François Hollande. Anzi, non ho esitato a parlare di futuri probabili eventi in prospettiva, che si sono tragicamente confermati la scorsa settimana a Parigi.
Mi chiede che idea mi faccio al riguardo degli eventi di Parigi di sabato scorso? Non mi faccio un’idea, constato, come dice il proverbio, che “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Fare tre milioni di morti in Iraq dal 1991 ad oggi, torturare migliaia di iracheni nelle prigioni, fare migliaia di vittime in Libia, mettere questi paesi nel caos e nelle mani degli islamisti e poi chiedersi perché sono arrabbiati contro di noi, è fantastico.

D. – L’Isis, punta di lancia della destabilizzazione nel Vicino Oriente e magari anche dell’Europa, oppure movimento integralista islamico? Come e perché è nato e chi ne muove le fila?

JMB – Abu Bakr al-Baghdadi. Nel 2003, all’indomani dell’occupazione americana, passa al gihad e adotta il suo primo nome di guerra, Abu Duaa, in seno ad un piccolo gruppo armato – Jaish al Sunna wal Jamaa – prima di raggiungere le file di Al-Qaeda, allora guidata dal giordano Abu Musab al-Zarqawi. Il 25 ottobre 2005 Abu Bakr al-Baghdadi è bersaglio di un attacco aereo americano avente come obiettivo un presunto covo di gihadisti vicino alla frontiera. Sfugge al bombardamento. Identificato con il nome di Abu Duaa, è descritto come uno dei più alti responsabili del ramo iracheno di Al-Qaeda. In particolare è incaricato dello spostamento in Iraq dei combattenti siriani e sauditi. Nello stesso anno, viene arrestato dalle forze americane in un’operazione congiunta con le forze irachene. Passa poco più di quattro anni nel campo di prigionia di Bucca – uno dei campi in Iraq in cui i soldati americani hanno sottoposto i prigionieri a terribili torture, come ad Abu Ghraib. Sorprendente: nel 2009 Abu Bakr al-Baghdadi viene rilasciato! Un comunicato del consiglio consultivo dello “Stato Islamico” d’Iraq annuncia la sua nomina al posto di Abu Omar al-Baghdadi, ucciso il 18 aprile 2010, in un’operazione congiunta delle forze di sicurezza americane. L’avvicendamento è assicurato. L’America non deve temere di ritrovarsi senza nemico. Alla fine del 2010 lo “Stato Islamico” d’Iraq, sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi intensifica gli attacchi contro bersagli del governo e delle forze di polizia irachene con una serie di attentati. Il 31 ottobre 2010, vigilia di Ognissanti, una presa d’ostaggi nella cattedrale di Baghdad si conclude nel sangue, provocando la morte di 46 fedeli, tra cui due sacerdoti e sette poliziotti. Il 3 novembre 2010, lo “Stato Islamico” d’Iraq rivendica la responsabilità del massacro. Il 9 maggio 2011, in un comunicato, Abu Bakr al-Baghdadi annuncia la sua alleanza con Ayman al-Zawahiri, il successore di Osama Bin Laden, ucciso il 2 maggio 2011 a Bilal, alla periferia di Abbottabad, in Pakistan. Al-Baghdadi conferma la fedeltà dello “Stato Islamico” d’Iraq alla direzione generale di Al-Qaeda, giurando vendetta per il suo capo. Abu Bakr al-Baghdadi è inserito nella lista dei terroristi più ricercati dal governo americano, che offre un premio di dieci milioni di dollari per la sua cattura (ufficialmente, visto che fine ad oggi lo sostengono con armi e soldi). È abbastanza singolare: prima lo si rilascia, e poi vengono offerti dieci milioni di dollari per riprenderlo, ma in realtà lo sostengono. Fino ad oggi, perché le cose fanno cambiare. Fonti provenienti dal Medio Oriente e dal Maghreb confermerebbero le rivelazioni dell’ex impiegato dell’Agenzia Nazionale di Sicurezza americana, Edward Snowden. Snowden aveva rivelato che i servizi di informazione britannico e americano, come anche il Mossad, avrebbero collaborato per la creazione dello “Stato Islamico in Iraq e nel Levante”. Snowden ha indicato che i servizi segreti di tre paesi, Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele, hanno collaborato con lo scopo di creare un’organizzazione terrorista che fosse in grado di attirare gli estremisti islamisti sparsi nel mondo verso un solo luogo: “l’unica soluzione per proteggere Israele è creare un nemico vicino alle sue frontiere”. L’operazione è chiamata “nido di calabroni”. Secondo Snowden, Abu Bakr al-Baghdadi avrebbe seguito una formazione militare intensiva, della durata di un anno, sotto la guida del Mossad. Questa versione assicurerebbe lo scenario di un film hollywoodiano, ma è molto probabile che in realtà il nostro futuro “califfo” sia stato semplicemente rilasciato per errore, e che il nostro uomo abbia senz’altro fatto il doppio gioco. Ora, quando commettono un errore, né la CIA né il governo americano lo dicono ad alta voce.

D. – Nel suo libro ne descrive l’organizzazione, il reclutamento, la logistica, nonché il motivo per cui dei giovani europei si arruolano nelle sue file. Ce ne può parlare?

JMB – Molti si chiedono come mai le popolazioni arabe sono “irritate” con l’Occidente. Irritate è una parola leggera. Io direi: sono indignate e disgustate dall’arroganza e dalla violenza degli interventi militari dell’Occidente. In Iraq, ad esempio, la popolazione è massacrata dalle bombe americane dal 1991, con centinaia di migliaia di vittime. A ciò si aggiungono le torture per le persone recalcitranti alla democrazia, e a tutto questo si aggiungono ancora centinaia di crimini commessi sul territorio iracheno dai soldati americani, gratuitamente, senza ragione (si possono vedere su Youtube soldati americani sparare da un elicottero su civili innocenti, o sparare su un’auto che passa e sterminare un’intera famiglia solo per divertirsi). Ci sono, poi, le “prodezze” della Blackwater (che ha proprio il nome giusto) e i crimini sulla coscienza dei suoi membri, soldati di una tale barbarie che in confronto a loro i tagliagole dello “Stato Islamico” fanno la figura dei chierichetti. Che non si capisca come mai le popolazioni arabe sono furiose contro di noi è abbastanza sconcertante. L’Occidente, che ha creato lo “Stato Islamico” e Al-Qaeda, non capisce come mai tanti giovani, da “casa nostra”, oggi, vogliano combattere al loro fianco. Leggo nella stampa un gran numero di articoli sugli aspiranti gihadisti in Francia e in Europa, giovani ragazzi e ragazze disposti psicologicamente e fisicamente ad andare a combattere per e con lo “Stato Islamico”. Ci si interroga su un fenomeno che non risparmia alcuno strato sociale. Non si comprende. Si parla persino di creare dei centri di deradicalizzazione per riportare questi giovani sul retto cammino. Per capire, bisogna arrendersi all’evidenza che in Francia e in Europa da qualche anno è in corso uno strappo, una frattura tra Stato e Nazione; una rottura tra una gran parte della gioventù, della popolazione in genere e le istituzioni. Bisogna comprendere che le popolazioni sono disgustate, stanche di essere prese in giro, di essere manipolate e ingannate dalle menzogne dei governi e degli uomini politici, dalle democrazie della guerra contro chi non è con noi. La democrazia è una maschera dietro cui viene nascosta la realtà di atti odiosi, la corruzione, la menzogna, la prevaricazione, l’arroganza della forza militare ed economica che vuole imporre la sua legge a chi non condivide la stessa ideologia né gli stessi interessi. In realtà, questi giovani arabi musulmani francesi (ma anche cristiani francesi) sono disgustati dal sentire i capi politici scandire discorsi con la dialettica della “libertà”, dei “diritti umani”, delle “guerre preventive” delle “guerre contro il terrorismo”, per giustificare i bombardamenti sulla popolazione dell’Iraq, della Siria o di Gaza, dove muoiono milioni di persone. Si ha un bel dire “giovane arabo con passaporto francese”, il DNA è rimasto arabo. Quando un giovane arabo francese, inglese, americano o olandese ha un genitore, un fratello o una sorella o anche un amico, che muore in Iraq, in Siria, in Libia o altrove sotto le bombe di George Bush, Tony Blair, François Hollande o David Cameron, non bisogna aspettarsi che venga a ringraziarci. Si può cercare di far cambiare una mentalità, ma non si possono cambiare il DNA e le radici nazionali. Per molti di questi giovani, l’Occidente, con le sue democrazie, corrisponde al diritto di dominare dei popoli, di colonizzarli o distruggerli nel caso non si sottomettano. Non sono i giovani che vogliono partire per il gihad che bisogna curare, ma la sindrome della menzogna, dell’inganno, della sufficienza e dell’ipocrisia degli uomini politici. Indubbiamente non è questo l’unico fattore che determina i giovani francesi o europei a schierarsi al fianco dell’Isis, ma è un fattore da non sottovalutare.

D. – Che ne pensa dell’intervento russo a fianco della Repubblica di Siria contro l’Isis?

JMB – Questa è la faccenda più straordinaria, unica nella storia dell’umanità. Sono quattro anni che il presidente francese François Hollande fa dichiarazioni settimanali contro Bashar al-Assad, il presidente siriano. Quando al-Assad dichiarava che stava facendo la guerra ai terroristi, Hollande e i suoi compagni alleati rispondevano che era propaganda, che non era vero, che il terribile dittatore massacrava il suo popolo ecc. Si sono messi al fianco dell’ISIS contro Assad. Risultato: oggi l’ISIS ha conquistato la metà della Siria. Francia, Inghilterra, America e altri alleati hanno appoggiato, direi anche corposamente sostenuto lo “Stato Islamico” di Abu Bakr al-Baghdadi, pensando che l’organizzazione del califfato avrebbe fatto fuori al-Assad. Dunque, pieno appoggio all’ISIS da parte dell’Occidente. Interviene allora un evento inaspettato: Vladimir Putin, dopo aver ricevuto una sberla dall’Europa e dagli Stati Uniti con l’embargo ed essere stato trattato da dittatore (e ben altro) dai media occidentali, organizza la sua piccola “rivincita” e manda le forze armate russe in Siria dicendo: “Volete, voi occidentali, liberarvi dell’ISIS che avete sostenuto fino adesso? Non preoccupatevi, ci penso io”. Risultato, oggi per l’America, Francia, Inghilterra e alleati non serve più sostenere l’ISIS, allora entrano in guerra al fianco di Bashar al-Assad e di Putin. Fantastico, no?! Credo che raramente la Francia abbia fatto una brutta figura simile con la sua politica estera. Prima a testa bassa contro al-Assad e Putin, oggi al loro fianco contro l’ISIS. Se fanno fuori i salafiti dell’ISIS sostenuti dall’Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati, l’Occidente comincerà ad avere seri problemi con questi paesi. Siamo solo all’inizio.

D. – Padre Benjamin, l’Iraq è una nazione cui Lei ha dedicato molte energie, raccogliendo innumerevoli dati per denunciare fin dalla prima Guerra del Golfo la tragedia del popolo iracheno e le sue innumerevoli sofferenze. Come e perché si è giunti al conflitto del 2003? Inoltre, prima di parlare della politica, vorremmo sapere quali sono oggi le condizioni di vita, economiche, culturali di quello che fu lo Stato guidato da Saddam Hussein.

JMB – Prima del marzo 2003, nell’Iraq di Saddam Hussein le donne che occupavano posti di responsabilità ai più alti livelli dello Stato erano in più alto numero che in qualsiasi altro paese arabo. Portare il velo non era obbligatorio. All’università di Baghdad, la maggior parte delle ragazze non lo portava, ho varie riprese che lo documentano. Le borse di studio erano per tutti, qualsiasi fosse l’origine sociale o la religione. L’accesso alla sanità era gratuito. Le autostrade erano le più belle e le più lunghe tra tutti i paesi arabi. I negozi cristiani potevano vendere alcool e non vi erano guerra né attentati tra sciiti e sunniti. I cristiani erano protetti e rispettati e il primo ministro Tareq Aziz era il solo primo ministro cristiano di un paese arabo. Oggi non ci sono praticamente più donne al governo o a capo di istituzioni. Devono di nuovo portare il velo e, nel sud, il velo integrale. Non c’è bisogno che l’accesso alla sanità sia gratuito, dal momento che non esiste praticamente più. Le autostrade non sono mantenute. I negozi cristiani sono stati obbligati a chiudere o comunque a non vendere più alcool; chi si è rifiutato ha subito attentati. La situazione tra sunniti e sciiti è odiosa. Infine non solo non c’è più un primo ministro cristiano al governo a Baghdad, ma i cristiani fuggono e abbandonano il paese. La distruzione della civiltà irachena è stata sistematicamente organizzata in modo da sradicare la memoria storica del paese, origine della nostra stessa civiltà, con la distruzione di uno dei musei più prestigiosi al mondo, quello di Baghdad – che custodiva pezzi unici datati più di 7000 anni -, l’incendio della Biblioteca Nazionale, la distruzione del sistema scientifico e culturale più avanzato di tutto il mondo arabo. Da marzo a settembre 2003, in soli 6 mesi, più di 310 scienziati iracheni sono stati uccisi. Per non parlare dell’Università di Medicina di Baghdad, che prima dell’occupazione americana era la più prestigiosa del Medio Oriente. Ho largamente descritto, nelle mie precedenti opere sull’Iraq, i disastri e i danni arrecati alla popolazione irachena dagli effetti delle armi all’uranio impoverito e delle armi chimiche utilizzate dalle forze anglo-americane, aventi come conseguenza l’esplosione di mostruose malformazioni infantili, l’aumento di cancri e patologie del sistema immunitario, che colpiscono un’importante parte di popolazione. Le democrazie occidentali, avvolte nei loro “diritti dell’uomo”, cancellano troppo facilmente la memoria storica di disastri, crimini e genocidi di cui sono responsabili. Dubito che nei libri di storia si insegni ai giovani studenti la verità su cosa era l’Iraq prima del 1990 e prima del 2003, su cosa questo paese è divenuto oggi e sulle responsabilità di questo disastro. Per parlare solo dell’Iraq. Si tratta di forgiare bene mentalità e coscienze, dalla più giovane età, a scuola, nell’indottrinamento al fondamentalismo laico e ai valori – e metodi – della Democracy Export.

D. – La popolazione, oltre alle innumerevoli perdite dovute agli scontri a fuoco, subisce ancor oggi quello che si potrebbe definire un lento sterminio di massa, dovuto all’uranio impoverito disperso nell’aria, nella terra e nell’acqua dalle esplosioni dei proiettili usati dalle nazioni della coalizione occidentale, al pari dei civili serbi, afghani, somali, bosniaci e dei tanti militari della Nato. Ci può parlare dei crimini di guerra commessi dalle forze statunitensi?

JMB – Ho dedicato numerose pagine del mio libro alla questione dei crimini di guerra degli americani in Iraq. Voglio solo ricordare questo: nel 1999 l’UNICEF ha pubblicato il suo rapporto annuale sulla situazione dei bambini nel mondo, questa volta interamente dedicato ai bambini in Iraq sottoposto all’embargo. Dal rapporto risulta che in Iraq l’embargo provoca la morte di un numero compreso tra i 5000 e i 6000 bambini al mese, circa 600.000 in undici anni. In occasione di una conferenza stampa, la Segretaria di Stato americana, Madeleine Albright, era stata interpellata da un giornalista: “L’UNICEF ha dichiarato che circa mezzo milione di bambini sono morti a causa dell’embargo. Si tratta di un numero di bimbi morti più elevato che a Hiroshima. È questo il prezzo da pagare?” Madeleine Albright ha risposto: “È una scelta difficile, ma ne vale la pena”. La morte di 600 000 bambini iracheni… certo, non sono bambini americani, ne vale la pena. Quando si sente il Segretario di Stato americano rilasciare dichiarazioni così orribili, mentre questa gente si riempie la bocca con parole quali “democrazia”, “diritti dell’uomo” e pretende di dare al mondo intero lezioni di morale, c’è di che restare irritati e indignati. Queste dichiarazioni non li turbano, ma li turba la barbarie dello “Stato Islamico” quando quest’ultimo viene a fare vittime a casa nostra. Circa la questione dell’uranio impoverito, sono intervenuto al riguardo due volte presso la Commissione dell’ONU per i Diritti umani, al parlamento inglese, presso la commissione Affari Esteri della Camera; nel 2000 Sergio Mattarella mi ascoltò a lungo, al ministero della Difesa, in relazione alla questione delle armi all’uranio impoverito. Inoltre, mi ha ultimamente inviato una lettera personale manoscritta, nella quale ricorda il nostro incontro. Anche Romano Prodi mi ha personalmente scritto di recente. Circa la questione degli effetti dell’uranio impoverito sulla popolazione irachena, l’argomento è troppo vasto per essere trattato qui. Propongo ai nostri lettori di consultare i miei libri e altri libri scritti da competenti autori, nonché di visitare il mio sito: www.jmbenjamin.org

D. – Chi governa attualmente l’Iraq e in che consiste la politica interna ed estera dello Stato iracheno?

JMB – Guardi che per rispondere a questa domanda si potrebbe scrivere un libro intero. Per sintetizzare, attualmente non c’è governo a Baghdad. Quello che chiamano il “governo di Baghdad” è stato messo dagli Stati Uniti, è un governo fantoccio. Chi governa quello che resta dell’Iraq sono i clan, le tribù, gli iraniani, gli americani, soprattutto dopo la firma dell’accordo con l’Iran.

D. – Lei pensa che si arriverà ad una normalizzazione nell’intera regione, prima o poi? E in che modo sarebbe possibile e auspicabile?

JMB – No. Oramai non potranno più fermare il mostro che hanno creato. Anche se riescono ad eliminare lo “Stato Islamico” in Siria e in Iraq, mi sa dire come faranno a eliminare l’ISIS, al-Qaeda, al-Nusra e altre circa 60 organizzazioni islamiste presenti in oltre 50 paesi, in Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco, Yemen, Mali, in Africa, in Oriente, in Asia e… in Europa?

* Jean-Marie Benjamin, francese, in Italia da oltre trent’anni, è stato ordinato sacerdote nel 1991. Già funzionario Onu, è presidente del “Benjamin Committee for Iraq”, membro della “Société des gens de Lettres de France” e segretario generale della Fondazione Beato Angelico. Impegnato dal 1997 nella denuncia della tragica situazione del popolo iracheno, ha realizzato tre documentari: Iraq: Genesi del Tempo(1988), Iraq: Viaggio nel regno proibito (1999) e Iraq: Il dossier nascosto (2002). Ha pubblicato Iraq, trincea d’Eurasia presso le Edizioni all’insegna del Veltro (2002).

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INTERJÚ VONA GÁBORRAL

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Az interjút az olasz „Eurasia. Rivista di studi geopolitici” című szemle igazgatója, Claudio Mutti, készítette a Jobbik Magyarországért Mozgalom elnökével. Az olasz fordítás “Eurasia”-ban meg fog jelenni.

Claudio Mutti – Az Ön által vezetett párt, vagyis a Mozgalom egy Jobbik Magyarországért, képezi a legfontosabb politikai erőt az aktuális kormánnyal szemben. És mégis a Jobbik támogatta Orbán Elnök Urat a migránsok és menekültek ügyében. Megmondaná-e, hogy mi a Jobbik párt legfőbb pozíciója ebben az ügyben és miben különbözik a kormány pozíciójával szemben?

Vona Gábor – Valóban a Jobbik Magyarországért Mozgalom jelenleg a legerősebb ellenzéki párt és minden jel arra mutat, hogy a 2018-as magyar parlamenti választásokkor mi leszünk a jelenleg kormányzó Fidesz legfőbb kihívói. Az elmúlt időszakban számos időközi választáson arattunk győzelmet a kormány jelöltjei fölött, illetve különösen nagy büszkeséggel tölt el, hogy pártom a jövőt jelentő 35 évnél fiatalabb szavazó állampolgárok és egyetemisták körében is a legnépszerűbb. Mindig büszkék voltunk arra, hogy képesek vagyunk függetleníteni magunkat a pártérdekektől, ha a haza helyzete azt kívánta. A migrációs krízis is egy ilyen súlyos probléma, ahol félre kell tenni a pártok közötti érdekellentéteket. Ha a kormány olyan lépéseket tesz az ügy megoldása érdekében, melyekkel a nemzet érdekeit szolgálja, akkor a Jobbik támogatni fogja. A kerítés kérdésében, az illegális határátlépés jogszabályi kereteinek szigorításában és a honvédség határhoz rendelésében mindannyiszor támogattuk a kormányt a Parlamentben. Mi sem bizonyítja jobban, hogy mi is ebben látjuk a megoldás kulcsát, hogy már ez év januárjában, amikor még senki se foglalkozott migránskérdéssel az egyik magyar – szerb határ menti városnak, Ásotthalomnak a jobbikos polgármestere, Toroczkai László javasolta elsőként a magyar-szerb határszakaszon a kerítés megépítését a közelgő veszélyre való tekintettel. A mi álláspontunk szerint mindenkit, aki illegálisan közelíti meg határainkat vissza kell fordítani, hiszen mindig is meg volt a legális módja a menekültkérelmek beadásának. Erre most is van lehetőség, megengedhetetlen, hogy emberek segítségért jönnek állítólag Európába és közben folyamatosan sárba tiporják törvényeinket, szabályainkat. Jelenleg a kormánnyal együtt elfogadhatatlannak tartjuk az egységes európai kvóta bevezetését, bár a Fidesz álláspontja annyiban eltér, hogy ők egy világkvótát tartanának megoldásnak. Számunkra ez is elfogadhatatlan, hiszen vigyék el a felelősséget azok a migráció miatt, akik destabilizálták a Közel-Keletet és Észak-Afrikát, illetve, akik felelőtlen politikájukkal behívták ide a jobb élet reményében útra kelt megélhetési bevándorlókat. Egy másik ennél erősebb különbség a mi és a kormány álláspontja között a migrációs kérdésben, hogy míg a kormány a határok védelmét a rendőrséggel és a honvédséggel végezteti el, mi szükségesnek látnánk, hogy visszaállítsuk az évekkel ezelőtt az Európai Unió nyomására megszüntetett határőrséget, hiszen minden rendvédelmi szervezetnek a maga kompetenciájába tartozó feladatokat kell ellátnia.

Claudio Mutti – A harvardi egyetemen készült egyik tanulmányban a szerző “mesterségesen felépített migrációk”-nak (coercive engineered migrations) nevezi azokat a népi mozgalmokat, amelyeket teljesen tudatosan teremtenek, illetve manipulálnak, hogy nyomást gyakoroljanak bizonyos államokra. Nem tartja-e valószínűnek, hogy ugyanebbe a kategóriába tartoznának az aktuális migrációs hullámok is?

Vona Gábor – Véleményem szerint a történések folyamatait tekintve egyértelmű, hogy a német politikai elit tudatosan invitálta be a bevándorlók sokaságát Európába, azon belül is főként Németországba. Ennek a magyarázata az, hogy a dinamikusan dübörgő német gazdaság komoly munkaerő hiánnyal küzd, melyet a tagállamokból bevándorolt európai migránsokkal már nem tud pótolni, ezért szüksége van nagy mennyiségű olcsó munkaerőre, ezt ők a közel-keleti és afrikai migránsoktól várják. A német érdekeket félretéve az is teljesen egyértelmű, hogy ez a népvándorlásba átcsapó folyamat Európa fennmaradását veszélyezteti, illetve komolyan gyengíti a világban betöltött szerepét. Sokak örömére szolgálhat, hogy gyengülésével párhuzamosan csökkenhet a gazdasági vetélytársi státusza a nagyhatalmakkal szemben.

Claudio Mutti – Ön szerint az Európai Unió miért nem támogatta Magyarországot, hogy megvédje saját határait, amelyek jó részben egybeesnek az úgynevezett schengeni térséggel?

Vona Gábor – Azt látni kell, hogy az Európai Unió vezetése és a nemzetállamok vezetései között, mint ahogy sok más kérdésben is, itt is hatalmas ellentét van. Magyarország migrációs politikáját nem szemlélte mindenki olyan kritikusan Európában, így a csehek, szlovákok, részben a britek és spanyolok is támogatták a magyar védekezési mechanizmust az illegális határátlépés megakadályozására. A magyar intézkedések még mindig egyedülállóak, bár sokan, akik korábban elképesztő negatív hangnemben beszéltek Magyarországról, most hasonló lépések bevezetéséről beszélnek, így Ausztria is, vagy éppen a skandináv országok. Ha az előző kérdésben kifejtett német gazdasági érdekeket vesszük alapul, akkor teljes mértékben érthető, hogy a Merkel vezette német kormány miért is ellenezte a magyar intézkedéseket, pedig mi jogszerűen jártunk el, hiszen a Schengeni külső határok megvédését jogszabály írja elő.

Claudio Mutti – Az Ön véleménye szerint milyen okokból kifolyólag támadták Magyarországot a liberális politikai körök és ezek legfontosabb médiái?

Vona Gábor – Magyarország az elmúlt években rendszeresen és immár törvényszerűen a liberális médiának és politikai elitnek a kereszttüzében van. Ennek oka, hogy országunk konzervatívabb és hagyománytisztelőbb értékrenddel bír, mint számos más nyugati ország. Ezt képviseli a jelenlegi magyar kormány is, amennyire azt neki Brüsszelből engedik, és ezt képviseljük teljes nyíltsággal mi is, az ország legerősebb ellenzéki pártja. Jelenleg nem is létezik életképes liberális párt Magyarországon, nincs rá társadalmi igény. A migrációs problematika tekintetében a liberálisok köztudottan a multikulturális, minden szinten globalista társadalmi szerkezetet támogatják, ennek állta útját Magyarország a kerítéssel.

Claudio Mutti – Mit ajánl a Jobbik a magyarországi határok megvédésének érdekében?

Vona Gábor – A Jobbik a határvédelem további határozott és következetes védelmét követeli a magyar kormánytól, s az ennek biztosításához szükséges feltételek megteremtését. Ilyen feltételek a honvédség és a rendőrség valódi kompetenciáinak visszaadása és a reguláris határőrség visszaállítása. E mellett az illegális határátlépés és a migrációs törvények tovább szigorítása és a kerítés fenntartása, esetleges bővítése szükséges. Nagyon fontos lenne, ha a többi tagállam is megértené a migrációs krízis Európa számára életveszélyes következményeit és ha nem is egységes migrációs politikával védekeznénk, de legalább nem akadályoznák egyes nemzetállamok törekvéseit abban, hogy megvédjék saját országukat, népességüket, nemzeti egyediségüket.

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CARLO TERRACCIANO E LA RUSSIA

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Il 20 novembre 2015, nel decennale della morte di Carlo Terracciano, l’associazione Caposaldo ha organizzato a Bergamo un convegno dal titolo “La Russia nello scacchiere geopolitico globale”. Il testo che pubblichiamo qui di seguito si riferisce all’intervento del direttore di “Eurasia” .

Conobbi Carlo Terracciano trentasei anni fa. Il nostro rapporto, abbastanza regolare, interrotto soltanto dai ritiri conventuali suoi e miei, è durato un quarto di secolo, nel corso del quale abbiamo condiviso diverse attività.
Tra i convegni ai quali prendemmo parte insieme, qui mi limiterò a rievocare il congresso che subito dopo il crollo dell’URSS venne organizzato a Mosca dalle forze politiche dell’opposizione cosiddetta “rosso-bruna”, sotto la presidenza onoraria della signora Sazhi Umalatova, presidentessa del parlamento sovietico disciolto da Eltsin.
Nel febbraio 1993 Carlo Terracciano, Marco Battarra ed io fummo invitati a partecipare al “Congresso dei Popoli Umiliati, contro il Nuovo Ordine Mondiale”, che si sarebbe svolto a Mosca il 2 marzo, nel salone del Palazzo della Stampa di Ulica Pravda. Il convegno era stato indetto dal Fronte di Salvezza Nazionale, all’epoca presieduto congiuntamente da Gennadij Zjuganov (Presidente del Comitato Esecutivo del C.C. del Partito Comunista Russo), dal giornalista Eduard Volodin (Copresidente del Consiglio di Coordinamento delle forze patriottiche) e dal romanziere Aleksandr Prochanov (Direttore del periodico “Den”).
La settimana che trascorremmo a Mosca cominciò lunedì 1 marzo con una visita alla moschea principale della capitale russa, subito seguita da un incontro con le rappresentanze diplomatiche dell’Iraq e dell’OLP. Poi, nei locali della sede del Partito della Rinascita Islamica, partecipammo ad una lunga riunione presieduta da Gejdar Džemal, dirigente del Partito, che per le Edizioni all’insegna del Veltro aveva appena pubblicato Tawhid. Prospettive dell’Islam nell’ex URSS.
Il giorno successivo ebbe luogo il Congresso dei Popoli Oltraggiati, al quale partecipavano numerosi delegati provenienti dai territori della Russia e dai paesi che avevano fatto parte dell’URSS, in rappresentanza di comunità nazionali, movimenti politici, associazioni, organi di stampa ecc. A presiedere era Aleksandr Dugin, direttore della rivista “Elementy” di cui ero redattore fin dal primo numero.
La serie degli interventi venne aperta da Aleksandr Prochanov, il quale identificò il “Nuovo Ordine Mondiale” preconizzato da Bush senior con la versione moderna della Torre di Babele e indicò nella lotta per la restaurazione dell’impero sovietico la fase decisiva nella guerra contro il Nuovo Ordine Mondiale.
Prese poi la parola Carlo Terracciano. “La nostra delegazione – esordì – viene da un paese che da decenni è sottoposto all’occupazione americana. Abbiamo un governo e un parlamento asserviti totalmente agli interessi stranieri: all’alta finanza internazionale, all’imperialismo americano, al sionismo cosmopolita, in una parola al mondialismo”. E proseguì: “Sionismo e imperialismo vogliono distruggere l’anima stessa dei popoli. E voi Russi oggi state provando sulla vostra carne viva la lama sanguinaria di questi criminali: miseria, fame, disonore, corruzione, droga, alcol e criminalità, odi e divisioni nel popolo, tradimento della Patria e abbandono dei popoli ieri amici”. Dopo aver richiamato la necessità di unire tutte le forze antimondialiste in una “grande internazionale dei popoli diseredati della terra, come li definì l’Imam Khomeini”, l’oratore italiano rivolse questo appello ai rappresentanti della nazione russa: “Noi, eredi senza più patria di un Impero che fece la storia civile del mondo antico, chiediamo al popolo che ha raccolto l’eredità storica e spirituale di Roma e di Bisanzio: aiutateci a riscattare insieme il nostro ed il vostro passato! Perché nella tradizione e nella memoria storica ed ancestrale dei popoli è la chiave che apre le porte dell’avvenire”.
Al discorso di Terracciano fece seguito quello di Eduard Volodin, capo redattore del quotidiano “Sovetskaja Rossija” e copresidente del Fronte di Salvezza Nazionale, il quale, individuando alle radici del conflitto interetnico jugoslavo la medesima ispirazione che aveva originato la distruzione dell’URSS, sottolineò la necessità di un impegno dei Russi a combattere in difesa dei popoli minacciati di asservimento dall’imperialismo statunitense.
Fu poi la volta del diplomatico iracheno Abd el Wahhab Hashshan, che citò l’esempio del proprio paese per illustrare la sorte incombente su quanti non accettano le direttive del Nuovo Ordine Mondiale e paventò per la Russia uno sviluppo della manovra già iniziata con la distruzione dell’URSS.
L’argomento fu ripreso dal professor Kobazov, capo della delegazione osseta, secondo il quale era necessario ricostituire in un modo o nell’altro una comunità di paesi analoga all’URSS, allo scopo di salvaguardare le identità dei popoli dell’area ex-sovietica contro le minacce del mondialismo.
Prese allora la parola l’estensore di queste righe, il quale, al termine di un’analisi geopolitica, formulò l’auspicio di un impegno della Russia nella lotta di liberazione del Continente. “Se vuole liberarsi dalle catene del Nuovo Ordine Mondiale – dissi –, la Russia deve aiutare il resto dell’Europa in questa liberazione, contribuendo con le sue possibilità, che rimangono tuttavia enormi, a questa impresa storica”. Nei giorni successivi, il discorso fu riportato integralmente sul “Kayhan” di Teheran.
Toccò poi a un redattore di Radio Tallinn, che illustrò la situazione dell’Estonia in seguito alla secessione dall’URSS: imposizione della russofobia come ideologia ufficiale del neonato staterello baltico e diffusione degli pseudovalori dell’Occidente.
Fu quindi la volta di Gejdar Džemal, il quale sostenne che un’alternativa globale al Nuovo Ordine Mondiale è rappresentata dall’Islam, il quale contrappone un’escatologia autentica alla parodistica concezione mondialista della “fine della storia”. Non solo, ma alla concezione della legge come opportunistico “contratto sociale”, concezione propria del fariseismo mondialista, l’Islam oppone la Legge sacra, nata dalla Rivelazione divina.
In assenza della delegazione serba, Aleksandr Dugin commentò lui stesso la situazione in Jugoslavia, esponendo le ragioni delle diverse parti in lotta (Serbi, Croati, Musulmani) ed auspicando un’intesa tra esse. La stessa impostazione emerse dal messaggio di cui diede lettura un rappresentante dell’Associazione d’Amicizia Russo-Serba. I firmatari del messaggio, il capo del Partito Radicale Šešelj e l’intellettuale tradizionalista belgradese Dragoš Kalajić avevano scritto: “Per lottare contro il programma mondialista, che si trova riassunto sulla stessa banconota stampata dagli USA, bisogna porre fine alle guerre interetniche. Il conflitto in Bosnia non può essere risolto con la vittoria di una parte sulle altre, ma con l’intesa tra le parti”.
L’ospite d’onore del Congresso, la signora Saži Umalatova, presidentessa del parlamento sovietico disciolto da Eltsin, ribadì che tale provvedimento era un fatto illegale e che la restaurazione dell’URSS doveva essere il primo passo verso l’eliminazione dell’influenza americana e sionista nel continente. Americani e sionisti, concluse la signora Umalatova, sono il nemico numero uno dei popoli liberi.
I sionisti, precisò subito dopo Sha’ban H. Sha’ban, redattore capo di un giornale russo-palestinese, “Al Kods”, devono essere combattuti dappertutto, perché non agiscono soltanto in Palestina, ma in tutto il mondo. Il pericolo sionista non minaccia solo i Palestinesi, disse Sha’ban, ma tutti i popoli. La parola d’ordine, dunque, deve essere: “Intifada dappertutto!”
A questo punto parlò il terzo delegato italiano, il redattore di “Orion” Marco Battarra, il quale illustrò i rapporti tra finanza, libero mercato e Stati facendo ricorso a uno studio di “Le Monde”.
Il rappresentante degli Abcazi, Jurij Ancabadze, denunciò il ruolo che Shevardnadze voleva fare svolgere alla Georgia nell’area caucasica. La Georgia, affermò il delegato abcazo, è un corridoio di influenza mondialista, perché la classe dirigente georgiana vuole essere l’avamposto dell’Occidente nella zona.
Dopo aver confermato che effettivamente molti georgiani sono stati agenti del mondialismo nella politica russa e dopo aver sollecitato il sostegno dei Russi ai musulmani dell’Abcazia, Aleksandr Dugin diede la parola a una delegata proveniente da Chişinău, la quale illustrò la situazione della comunità russa della Repubblica Moldava (Bessarabia) in seguito alla secessione.
Intervenne quindi l’ambasciatore dell’OLP, Musa Mubarak. Sionismo e americanismo, disse, sono i due lati del medesimo angolo. Ingerenza nelle faccende politiche altrui e pressione economica sono i due principi basilari dell’azione statunitense. Contro il Nuovo Ordine Mondiale, che si caratterizza in questa maniera, bisogna creare un vero Ordine Nuovo.
Apti Saralejev, delegato ceceno, denunciò la penetrazione sionista nella vita dei popoli caucasici e sostenne il progetto relativo a un’intensificazione degli studi sull’azione sionista.
Infine, Aleksandr Dugin diede lettura della risoluzione finale, cui vennero apportate alcune aggiunte e modifiche suggerite dall’assemblea. Fu creato un comitato permanente, nel quale vennero inseriti anche i delegati italiani.
Il Congresso ebbe ampia risonanza sulla stampa russa; i giornali “patriottici”, in particolare, riferirono per esteso gli interventi dei congressisti. Di una esemplare falsificazione, invece, fu autore il giornalista di Radio Svoboda (l’emittente finanziata dagli USA e nota fuori dalla Russia come Radio Free Europe), il quale nella sua corrispondenza attribuì a me e a Terracciano dichiarazioni che noi non avevamo mai fatte.
* * *

Mercoledì 3 marzo la nostra delegazione fu ricevuta da Šamil Sultanov, politologo e polemologo di fama e redattore di “Den”, che mi intervistò a lungo per il suo giornale.
Nel pomeriggio ci recammo nei locali di “Sovetskaja Rossija”, dove avemmo un lungo colloquio con Eduard Volodin, uno dei firmatari dell’Appello al Popolo dell’agosto 1991. L’incontro terminò con la decisione di istituire a Milano un ufficio stampa del Fronte di Salvezza Nazionale, di cui Volodin era copresidente. Il direttore di “Sovetskaja Rossija”, Valentin Čikin, sottolineò la fondamentale importanza della collaborazione fra tutte le forze antimondialiste. Il rapporto di collaborazione ebbe un ulteriore sviluppo in un documento firmato da Eduard Volodin, Aleksandr Prochanov e Gennadij Zjuganov: dato il nostro “esemplare contributo alla comprensione reciproca tra i popoli russo e italiano sia a livello politico che culturale”, il documento (riprodotto nell’originale e tradotto in italiano a pag. 8 del numero di “Orion” del luglio 1993) riconosceva in noi i rappresentanti politici dell’opposizione russa al governo di Eltsin.
Nella giornata di giovedì ebbe luogo presso l’Associazione Ufficiali un lungo dibattito di natura geopolitica organizzato da Aleksandr Dugin e dal colonnello Evgenij Morozov. Tralascio gli interventi di Dugin e di Morozov ed il mio per riferire il passo culminante del discorso di Carlo Terracciano.
“Attualmente – disse quest’ultimo – la situazione è molto chiara. Nel mondo c’è soltanto un imperialismo: è l’imperialismo talassocratico degli Stati Uniti d’America. E’ il Nuovo Ordine Mondiale. Allora la Russia, la nuova Russia del futuro, deve presentarsi come il paese liberatore dell’Eurasia e del mondo intero contro questo imperialismo. E’ molto difficile, ma il mondialismo non è un blocco unico. Dopo la scomparsa del Patto di Varsavia, Europa e Giappone devono giocare un ruolo molto importante. Secondo la nostra visione, la base della rivincita si fonda sull’asse Berlino-Mosca-Pechino e/o Tokyo. L’importante è che le potenze terrestri non ripetano lo stesso errore del passato: di farsi la guerra tra loro. E’ interesse di tutta l’Eurasia di unificare le forze terrestri contro l’unica potenza talassocratica predominante. Per questo Mosca ha un ruolo essenziale. Dal Nord dell’Eurasia noi possiamo sollevare tutto il Sud del mondo contro l’Occidente americanocentrico”.
Passando a considerare l’area geopolitica mediterranea, Terracciano si soffermò sul “nodo di tutti i problemi” del Vicino Oriente. “Lo Stato sionista – disse – controlla attualmente tutta quest’area con la minaccia incombente della bomba atomica. E’ anche la vera causa degli attacchi americani prima contro l’Iran e poi contro l’Iraq. A questo proposito noi pensiamo che il futuro ‘nemico principale’ dell’America sarà, di nuovo, l’Iran. Per quanto poi riguarda tutto il centro-Asia musulmano, c’è un chiaro tentativo dell’America di spingere il Rimland contro il pivot centrale eurasiatico. Ma è un gioco molto pericoloso anche per gli americani”.
Terracciano concluse così il proprio intervento: “Per finire, consideriamo che sia interesse di tutte le piccole e grandi potenze dell’area unificare le proprie forze contro l’unico nemico del mondo: l’americanosionismo. Quando si potrà cacciare dal Medio Oriente la potenza sionista, avremo fatto un grosso passo per la liberazione di tutto il ‘Vecchio Mondo’. Ma questo per una potenza talassocratica sarebbe la fine. Quando ci sarà una Nuova Russia, però, noi saremo prossimi alla Terza Guerra Mondiale: sarà veramente la guerra definitiva per il controllo del mondo nel prossimo millennio”.
Nella serata Aleksandr Dugin ci accompagnò nello studio del pittore Evgenij Vidilanskij, autore di un incisivo ritratto di Ungern Khan che tutti fotografammo con cura e che fu successivamente riprodotto sulla copertina del numero di “Orion” del mese di aprile.
* * *

Venerdì 5 marzo, nel corso di una seconda visita alla redazione di “Den”, avemmo un incontro con Aleksandr Prochanov, il quale ci spiegò che il suo giornale rappresentava la sinergia delle diverse componenti politiche dell’opposizione, in quanto l’ideale della giustizia sociale e quello della sovranità dello Stato non potevano essere dissociati. Analogamente, proseguì, occorre respingere il tentativo americano di attizzare lotte di religione tra Ortodossi e Musulmani e proporsi come obiettivo finale la restaurazione dello spazio geopolitico eurasiatico, del quale Ortodossia e Islam sono componenti fondamentali.
Alla sera, accompagnati da Gejdar Džemal, accettammo l’invito a cena fattoci pervenire da un gruppo di mugiahidin del Tagikistan. Fu necessaria tutta una serie di precauzioni, poiché i Tagiki vivevano in clandestinità, in quanto erano ricercati dai servizi segreti di Eltsin. Terracciano rimase profondamente impressionato da quell’incontro, del quale riferì ampiamente sul numero di “Orion” del maggio 1993.
“Dopo la cena – scrisse rievocando quell’incontro – l’intervista, la discussione politica, le domande e risposte. Ci aspetteremmo odio, risentimento, furore, forse disperazione per quanto hanno subito. Ed invece eccoli descrivere gli orrori di una guerra civile tra le più cruente con una serenità d’animo, una virile accettazione del destino che lascia turbati noi, più che se inveissero o piangessero sulle loro disgrazie. La loro totale fede religiosa nell’Islàm è una corazza invincibile contro i colpi della sorte, accettata come volere e prova di Allah. (…) Un’altra caratteristica che ci stupisce è la loro profonda preparazione culturale e politica, la loro coscienza delle reali forze in campo, il loro determinato e cosciente impegno di lotta globale al Mondialismo (lo definiscono proprio così) e al Sionismo, ben presente anche in Tagikistan. Conoscono certo più loro la situazione occidentale ed italiana di quanto si sappia noi del Tagikistan!”
La giornata di sabato fu interamente dedicata alla manifestazione organizzata dal Fronte di Salvezza Nazionale nella sala del cinema Udarnik, dove tremila persone si affollarono per festeggiare i protagonisti del putsch di agosto, mentre altre duemila rimasero in piedi nel salone d’ingresso. (A titolo di cronaca: la stampa italiana del giorno successivo parlò, testualmente di “cinquecento persone”).
A margine della manifestazione Terracciano ed io potemmo incontrare alcuni esponenti dell’opposizione, i quali ci pregarono di diffondere il giorno successivo, appena rientrati in Italia, una serie di informazioni che secondo loro potevano servire a sventare il golpe progettato da Eltsin.
Fu così che il 7 marzo diffondemmo in Italia, Francia e Belgio un comunicato, firmato “Ufficio Stampa italiano del Fronte di Salvezza Nazionale”, che esordiva così: “Fonti altamente qualificate dell’opposizione al governo di Eltsin informano che è in preparazione una svolta autoritaria per esautorare il potere del Parlamento”. Il comunicato elencava una serie di informazioni riservate, relative a manovre militari in atto in quei giorni, che rendevano credibile la denuncia del golpe imminente.
Martedì 9 marzo, alla vigilia della riunione del Congresso dei Deputati del Popolo, il Ministro della Difesa, il generale Gracëv, comunicò che le previste manovre militari nella regione di Mosca erano momentaneamente sospese.
Carlo Terracciano fu sempre convinto che il nostro comunicato, divulgando fuori dalla Russia notizie tenute segrete dal governo di Mosca, avesse indotto quest’ultimo a cambiare i propri programmi o quanto meno a rinviarli. Infatti fu solo il 20 marzo che Eltsin ruppe gl’indugi e in un discorso televisivo annunciò la decisione di assumere poteri speciali.

* * *

Carlo ha collaborato con la casa editrice da me fondata e diretta, le Edizioni all’insegna del Veltro, scrivendo saggi d’argomento geopolitico che sono apparsi come prefazioni e postfazioni ad alcuni testi di Karl Haushofer, Stefano Fabei e Jean-Marie Benjamin.
Sono stato testimone dell’impegno di Carlo nel periodo in cui egli approfondì lo studio delle dottrine geopolitiche, impegno che sfociò nella sua collaborazione ad “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”. Anzi, fu proprio lui a darmi l’idea di dar vita ad una rivista di studi geopolitici. La proposta me la fece il 29 maggio 2004, a Verona: “Tu sei un editore. Perché non pubblichi una rivista di studi geopolitici?” Tre mesi dopo uscì il primo numero di “Eurasia”. Purtroppo, soltanto nei primi quattro numeri, usciti tra il 2004 e il 2005, si trovano articoli a firma Carlo Terracciano. Si tratta di quattro articoli dei quali farò una sintesi obiettiva, esaminandoli uno per uno e riportandone i passi più significativi.
Dal primo articolo, Turchia, ponte d’Eurasia (“Eurasia” 1/2004, ott.-dic. 2004) traspare l’influenza di due autori particolarmente cari a Carlo: Julius Evola e Adriano Romualdi.
Da buon lettore di Evola, Carlo attribuisce al fattore mitico un’importanza fondamentale. Ricordo che in una conferenza tenuta a Brescia esordì richiamandosi al mito di Europa, la principessa fenicia che fu rapita da Zeus sulla spiaggia di Tiro. In questo articolo invece Carlo esordisce citando due miti d’origine relativi ai popoli turchi. Il primo è quello del bambino sopravvissuto alla strage dei T’u-küe (così venivano chiamati i Turchi nelle fonti cinesi) che, allattato da una lupa come Romolo e Remo, diede origine alle dieci tribù turche. Il secondo mito è quello famoso del lupo grigio che, attraverso deserti e montagne condusse una parte del popolo turco nella nuova patria anatolica.
All’inizio dell’articolo, viene fatto cenno al rapporto fra Prototurchi e Indoeuropei, popolazioni nomadi di cacciatori-allevatori che, scrive Carlo con quel certo pathos un po’ romantico che a volte caratterizza la sua prosa, “correvano libere nell’immenso spazio settentrionale dell’Eurasia, dalle gelate steppe siberiane agli aridi deserti del centro Asia, fino ai contrafforti del Pamir e dell’Altai”. Si intravede qui la lezione di Adriano Romualdi, che nel suo studio su Gli Indoeuropei (Ar, 2004, p. 82) aveva fatto notare come ancora nel sec. X un popolo indoeuropeo fosse presente nel Turkestan cinese.
Ma accanto all’influenza di Evola e di Romualdi, questo articolo sulla Turchia rivela anche altri debiti culturali. Carlo attinge le proprie nozioni sui Turchi dall’opera del grande turcologo Jean-Paul Roux, del quale riporta in esergo un brano che deve essergli sembrato particolarmente significativo. Il brano inizia così: “I Turchi hanno la vocazione imperiale. Essi sono per eccellenza i sovrani della terra”. (Dove il termine “terra” è da intendersi, ovviamente, in relazione a quel dualismo tipicamente geopolitico, “terra-mare”, che per Carlo è un concetto fondamentale). Il brano citato prosegue così: “I loro imperi (…) sono dei mosaici di popoli che essi tentano di far vivere insieme nell’armonia lasciando loro, sotto un potere fortemente centralizzato e dispotico, la loro identità, la loro lingua, la loro cultura, la loro religione, spesso i loro capi”. È facile capire che in questa caratterizzazione degli imperi turchi Carlo ha visto un profilo che si avvicina notevolmente a quello che egli riconosce come il modello ideale di impero.
L’articolo passa in rassegna le vicende storiche dei Turchi Ottomani, che secondo Carlo hanno ereditato la funzione imperiale di Bisanzio; arrivato ai giorni nostri, si sofferma sulla vexata quaestio dell’ingresso turco nell’UE. Secondo Carlo, “la chiusura alla Turchia su base religiosa” (vale a dire “sulla base di una presunta ‘unità cristiana’ dell’Europa”) “è ovviamente pretestuosa, se solo si consideri come l’Albania e la Bosnia (…) siano paesi (…) a grande maggioranza islamica” e che “forti minoranze musulmane (…) sono presenti in Stati come la Macedonia, la Bulgaria, la Moldova, la Serbia (…), per non parlare ovviamente della Federazione Russa. Senza considerare l’immigrazione (…) turco-curda (…) che, solo in Germania, conta un milione e mezzo di lavoratori con le loro famiglie”.
Parimenti pretestuosa è la chiusura alla Turchia fondata su criteri etnolinguistici, poiché, argomenta Carlo, “anche gli Ugrofinni hanno una base linguistica certo non indoeuropea e più vicina ai Turchi; eppure le nazioni moderne che nascono da queste migrazioni sono considerate europee a tutti gli effetti: Finlandia, Estonia, Ungheria”.
La Turchia, secondo Carlo, costituisce un vero e proprio ponte eurasiatico, poiché fonde in un unico Stato “la componente originaria turanica del centro dell’Asia, quella europea, retaggio di 500 anni di storia (ma anche di recenti migrazioni e future aspettative politiche) e la religione e cultura islamica. Sotto il profilo geostrategico la Turchia è “ponte d’Eurasia” per il fatto che costituisce un “anello di congiunzione tra l’Europa e l’area del Golfo Persico e del Vicino Oriente, così strategicamente importante e determinante anche per le economie mondiali, con i suoi giacimenti petroliferi”.
Applicando un criterio tipicamente geopolitico, Carlo afferma che il “destino della nuova Turchia” è, se non determinato, “segnato” dalla stessa collocazione geografica di questo paese. E il destino dell’Europa, aggiunge, “è a sua volta strettamente connesso a quello turco”. Sarà perciò “necessario, indispensabile per l’Europa come per la Turchia riannodare e rinsaldare l’alleanza dell’inizio del secolo scorso”, cioè quell’alleanza che con la Turchia era stata stabilita dagli imperi centrali: l’Austria-Ungheria e il Secondo Reich.
Oggi più che mai, conclude Carlo, la “fortezza turca” è una delle chiavi di volta dell’alleanza eurasiatica.

*

Il secondo articolo, intitolato Il Libro, la spada, il deserto (“Eurasia” 1/2005, genn.-marzo 2005) riguarda la diffusione dell’Islam sul continente eurasiatico.
Anche qui troviamo in epigrafe un brano rivelatore del gusto un po’ romantico di Carlo; si tratta di un passo degli Eroi di Thomas Carlyle, nel quale viene sintetizzato il risultato storico dell’azione del Profeta Muhammad, uno dei personaggi scelti dallo scrittore scozzese per rappresentare l’Idealtypus dell’eroe. E il brano di Carlyle fa degnamente il paio con un altro brano celeberrimo, che Carlo riporta nel contesto dell’articolo: sono le parole della nostalgica ammirazione di Nietzsche per la civiltà moresca della Spagna, parole che Carlo qualifica come “struggenti”, perché ne condivide lo spirito, lui che in uno dei suoi numerosi viaggi ha visitato l’Alhambra di Granada.
Ed anche in questo articolo viene rievocato un episodio avvenuto, direbbe Eliade, in illo tempore, un episodio che, se non può essere propriamente definito “mitico”, appartiene tuttavia alla ierostoria: è la vicenda di Agar e di Ismail, ambientata nel luogo centrale della geografia sacra islamica.
Dovendo esaminare il fenomeno della nascita e della diffusione dell’Islam da un’angolatura geopolitica, che in quanto tale sottolinei lo stretto rapporto dell’evento spirituale, culturale e politico con l’ambito geografico, Carlo non poteva non citare la concezione riduzionista, tipica del positivismo ottocentesco, secondo la quale, mentre il politeismo sarebbe la “religione della foresta”, il monoteismo sarebbe invece la “religione del deserto” e l’area dell’espansione islamica coinciderebbe con quella in cui la media della piovosità annua è inferiore ai dieci pollici!
Per quanto propenso a rivolgere un’attenzione particolare al fattore geografico (lui stesso riferisce una definizione del deserto come luogo del risveglio, della luce, dell’impersonalità), Carlo respinge nettamente i luoghi comuni di matrice positivista che assolutizzano il fattore ambientale, giudicandoli frutto di un “determinismo geopolitico inadatto a spiegare grandi costruzioni storiche, politiche, militari e religiose ben più complesse e peraltro sviluppatesi in ambienti urbani”. E questa puntualizzazione mi pare piuttosto importante, perché smentisce quella bizzarra accusa di “marxismo geografico”, cioè di determinismo geografico, che è stata lanciata all’indirizzo del metodo geopolitico rappresentato dalla rivista “Eurasia”.
Ripercorrendo le vicende storiche che videro l’Islam unificare nel giro di poco più d’un secolo lo spazio compreso tra Gibilterra e l’Indo, Carlo mostra molto bene come lo stereotipo dell’Islam quale presunta “religione del deserto” non regga affatto al confronto con la complessità del fenomeno islamico. Ad esempio, egli sottolinea con notevole acume il fatto che “lo scontro fra l’idealizzato Islam meccano e medinese delle origini e quello oramai vittorioso e insediato nelle grandi capitali del Vicino Oriente”, quello scontro che potrebbe essere riduttivamente definito come “lo scontro fra il deserto e la terra fertile dei sistemi potamici irrigui”, abbia dato luogo all’opzione sciita dell’Iran: sarà proprio “la terra indoeuropea dello zoroastrismo”, osserva Carlo, a rivendicare “la linea diretta con il Profeta”, cioè l’eredità privilegiata dell’Islam originario!
L’articolo si conclude con una valutazione dell’importanza dell’Islam per l’Eurasia. L’area storicamente islamica, secondo Carlo, “rappresenta una cerniera, un collegamento ideale, una saldatura tra l’Eurasia a nord, cioè l’Europa con la Russia siberiana fino a Vladivostok, e le altre parti della massa eurasiatico-africana: l’Africa nera appunto, il subcontinente indiano, la stessa Cina, l’Indocina e l’Indonesia. Ovunque infatti, anche in questi territori più o meno estranei al fenomeno dell’esplosione islamica dei primi due secoli dell’Egira, sono presenti forti comunità musulmane. Un patrimonio per l’Eurasia e non certo un pericolo, come vorrebbe oggi la propaganda terroristica occidentalista, sullo stile dello ‘scontro di civiltà’ alla Huntington”.

*

Nel terzo articolo, Europa-Russia-Eurasia: una geopolitica “orizzontale” (“Eurasia” 2/2005, apr.-giugno 2005), Carlo affronta alcuni concetti squisitamente geopolitici, instaurando un rapporto dialettico con le tesi esposte da Aleksandr Dugin in un lungo scritto intitolato L’idea eurasiatista e apparso sul primo numero di “Eurasia”.
Aleksandr Dugin prospetta l’Eurasia dei “tre grandi spazi vitali, integrati secondo la longitudine”, tre cinture eurasiatiche che si estendono da nord a sud, nel senso dei meridiani. Tale suddivisione secondo sfere d’influenza verticali, osserva Carlo, costituisce una ripresa delle pan-idee di Karl Haushofer, il quale teorizzava un emisfero orientale – il nostro emisfero – geopoliticamente diviso in uno spazio eurafricano, uno spazio panrusso esteso fino all’Oceano Indiano ma privo dello sbocco al Pacifico e, infine, uno spazio estremo-orientale comprendente Giappone, Cina, Sud-Est asiatico e Indonesia. A questo schema haushoferiano Dugin ha apportato alcune modifiche richieste dalla situazione internazionale odierna, assegnando alla seconda fascia anche il Vicino Oriente e la Siberia fino a Vladivostok.
Carlo, che giudica fondamentale il contributo dato da Dugin alla dottrina geopolitica e alla lotta di liberazione eurasiatica, ritiene necessario allargare la prospettiva dughiniana delle aree verticali, e scrive: “Alle pan-idee ‘verticali’ haushoferiane, che interpretate alla luce dell’assetto internazionale attuale assumono oggi vago sapore neocolonialista (l’esatto contrario delle posizioni anticoloniali del padre della geopolitica tedesca), noi sostituiamo la visione di una collaborazione paritaria e integrata fra realtà geopolitiche omogenee disposte a fasce orizzontali in Eurasia e in Africa”.
Che cosa sia la prospettiva geopolitica orizzontale, Carlo lo spiega fin dalle prime righe di questo studio. “L’Eurasia – egli esordisce – è un continente ‘orizzontale’, al contrario dell’America che è un continente ‘verticale’”. Anzi, tutta quanta la massa continentale dell’emisfero orientale è costituita di unità omogenee disposte in senso orizzontale: “È lo stesso senso di marcia – scrive – seguito dai Reitervölker, i ‘popoli cavalieri’ che corsero l’intera Eurasia fin dai più remoti tempi preistorici, i tempi dei miti e delle saghe dell’origine”.
Traducendo questa visione in termini geopolitici, Carlo prospetta “l’integrazione della grande pianura eurasiatica settentrionale dal canale della Manica allo stretto di Bering”. A questa prima fascia orizzontale si affiancano, in altre fasce orizzontali, le altre unità geopolitiche dell’Eurasia e dell’Africa: il grande spazio arabo del Nordafrica e del Vicino Oriente, il grande spazio trans-sahariano, il grande spazio islamico compreso fra il Caucaso e l’Indo eccetera.
In questa prospettiva, è naturale che l’Europa si integri in “una sfera di cooperazione economica, politica e militare con Mosca”, altrimenti “sarà usata nell’ambito NATO dagli americani come una pistola puntata su Mosca”. La Russia infatti non può pensare di fare a meno dell’Europa, anzi. Da un punto di vista russo “l’unica sicurezza per i secoli a venire non può esser rappresentata che dal controllo sotto qualsiasi forma delle coste della massa eurasiatica settentrionale, quelle coste che si affacciano sui due principali oceani mondiali, l’Atlantico e il Pacifico”.
La necessità dell’integrazione geopolitica di Europa e Russia impone sia agli Europei sia ai Russi la revisione definitiva di certe contrapposizioni. La “contrapposizione ‘razziale’ tra euro-germanici e slavi”, scrive Carlo, “fu uno dei grandi errori della Germania”. Ma anche i Russi devono eliminare i residui di quella eurofobia che, nata dalla giusta esigenza di rivalutare la loro componente turco-tatara, li ha indotti talvolta a contrapporre in maniera radicale la Russia all’Europa germanica e latina, magari confondendo quest’ultima con l’Occidente “atlantico” e, aggiunge Carlo, “con la mentalità razionalista, positivista e materialista propria degli ultimi secoli”.
Invece, incalza Carlo, “se ancora di Occidente ed Oriente si può e si deve parlare, la linea di demarcazione deve essere posta tra i due emisferi, tra le due masse continentali separate dai grandi oceani”, cosicché il vero Occidente, la terra del tramonto, risulterà essere l’America, mentre l’Oriente, la terra della luce, coinciderà col Continente antico: il blocco euroafroasiatico.

*

Il canto del cigno di Carlo è un articolo di cinque o sei pagine intitolato I Mediterranei del mondo (“Eurasia”3/2005, ott.-dic. 2005). E’ il più breve tra gli articoli scritti da Carlo per “Eurasia”, ma non sfigurerebbe affatto in una eventuale antologia di scritti geopolitici.
Anche qui le citazioni epigrafiche iniziali sono ben rappresentative del pensiero di Carlo in generale e del contenuto di questo articolo in particolare. La prima citazione, infatti, è una frase di Schmitt relativa a quel dualismo terra-mare al quale Carlo si richiama costantemente, mentre le altre tre citazioni si riferiscono ad altrettanti miti (uno greco, uno giapponese e uno azteco) concernenti i tre “mediterranei del mondo”.
Oltre al Mediterraneo propriamente detto, la cui caratteristica consiste nel “penetrare a fondo nella massa euro-afro-asiatica nel senso orizzontale, quello dei paralleli”, esistono altri due mari che, in quanto situati “in mezzo alle terre”, potrebbero esser chiamati “mediterranei”: uno si trova in Asia, “tra la costa della massa continentale sino-indocinese e la collana di isole che si frappongono al grande Oceano Pacifico”, mentre l’altro è in America ed è formato dal Golfo del Messico e dal Mar dei Caraibi.
Carlo nota una caratteristica che li accomuna tutti e tre: “al centro di questi sistemi marittimi interni vi è sempre un’isola di grandi dimensioni che li divide in due metà pressappoco equivalenti”: rispettivamente la Sicilia, Taiwan, Cuba. Ciascuna di queste isole rappresenta la “chiave di volta” strategica per il controllo del sistema marittimo interno e ciascuna di esse ha rivestito e riveste una grande importanza nelle strategie delle potenze talassocratiche, si tratti dell’Inghilterra o degli Stati Uniti.
Per quanto concerne questa idea di altri mari analoghi al Mediterraneo, Carlo cita espressamente il Dictionnaire de Géopolitique di Yves Lacoste. In realtà, già Friedrich Ratzel aveva definito “mediterraneo” un mare che mette in comunicazione due oceani e aveva individuato, oltre a quello euro-africano, quello australe-asiatico e quello centroamericano. La mancanza di questo riferimento, così come la relativa brevità dell’articolo, sono probabilmente indizi dell’esaurimento delle energie dell’autore, il quale d’altronde si ripromette di sviluppare l’argomento, trattandolo in maniera più approfondita, nel numero di “Eurasia” dedicato alla Cina.
Purtroppo ciò non avverrà. Il medesimo numero di “Eurasia” che ospita l’articolo sui Mediterranei del mondo si conclude con due pagine in memoriam di Carlo delle quali voglio ripetere qui le parole finali, scritte in una lingua che lui amava e talvolta cercava di usare nella nostra corrispondenza: Vale, amice carissime, ave atque vale.

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ATTACCHI TERRORISTICI IN EUROPA: UN’ANALISI STRATEGICA

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I tragici fatti di Parigi hanno definitivamente portato alla ribalta il tema dell’insurrezione terrorista come problema veramente globale. La reazione delle classi dirigenti europee, siano esse politiche e culturali, deve tener conto di precisi elementi strategici. Non siamo di fronte ad un problema di ordine pubblico ma nemmeno ad un classico avversario militare. Le risposte sin qui approntate ed implementate – che vanno dall’aumento dell’attività di sorveglianza visibile nelle città e dal tentativo di sigillare le frontiere (a tragedia avvenuta) al lanciare contro il gruppo “Stato Islamico” bombardamenti di rappresaglia – rischiano pertanto di risultare completamente inefficaci.

Il problema: terrorismo e sicurezza.

Ci si conceda una metafora. Vi fu un’epoca in cui, nel codice penale italiano, lo stupro era considerato non reato contro la persona ma contro la morale. E’ ovvio che lo stupro sia anche un delitto che aggredisce il pubblico senso di moralità, ma è altrettanto chiaro che il primo bene giuridico da tutelare è l’incolumità fisica e psicologica della vittima e che quindi sia la violazione di questo interesse giuridico il principale effetto negativo da colpire. Si badi bene: siamo costretti a dire “colpire” e non “punire”, perché, in accordo con la costituzione italiana e le leggi dei paesi europei, la pena mira a recuperare e non solo a punire. Il tema della sicurezza si limita a sfiorare superficialmente i principi ispiratori del nostro ordinamento – e proprio su questo verterà il presente paragrafo. Col terrorismo è necessaria una traslazione concettuale: non possiamo trattare come problema di ordine pubblico quale una rapina a mano armata o una rissa da stadio quello che è un attacco militare. Il salto concettuale è quindi più impegnativo: non dobbiamo solo mutare la tipologia di interesse giuridico da tutelare (dalla morale pubblica all’integrità fisica di una persona, dal quieto vivere alla sicurezza ed integrità nazionale) ma anche il livello operativo preposto alla tutela. Le nostre leggi, come sopra si accennava, sono inadeguate come i sistemi preposti a sanzionarne la violazione. I sistemi giudiziari europei e le magistrature non sono concepiti per attuare prevenzione di simili tragedie ex ante e nemmeno per punirne gli autori ex post bensì per – sempre ex post – erogare ai colpevoli (nel caso in un lungo ed incerto processo siano riconosciuti come tali) una qualche forma di pena. Tutto ciò è quanto di più inadeguato ad affrontare il problema: non impedisce al terrorista di colpire. Non impedisce che veri e propri atti militari siano compiuti contro la nostra popolazione civile. La cronaca restituisce di frequente casi di individui sospetti – che poi si rivelano effettivi membri di aggregazioni terroristiche – liberati dalla magistratura per assenza di prove concrete dopo che le forze di polizia ne avevano richiesto l’arresto ed attuato il fermo. Concettualmente non potrebbe essere diversamente: la magistratura non condanna sulla base di pur fondati indizi di intelligence, ma solo sulla base di prove e a fronte di reati effettivamente compiuti.
Il terrorismo va riconosciuto come tema di natura militare ed affidato agli apparati militari e di intelligence concedendo a questi adeguata franchigia operativa rispetto al resto del sistema giuridico per quanto concerne le indagini, la raccolta informativa, gli arresti, gli interrogatori e le detenzioni dei terroristi. Bisogna sottrarre il terrorismo al normale sistema giurisdizionale.

Il terrorismo: un quadro strategico e geopolitico.

Stabilire che un problema è di natura militare ci tiene ancora distanti dalle cause del problema stesso. E’ necessaria una corretta eziologia del fenomeno del terrorismo sedicente gihadista. Alle origini della quasi totalità delle principali aggregazioni terroristiche di marca salafita vi è, storicamente, il finanziamento, la collaborazione logistica o quanto meno la benevola neutralità di:
Paesi ufficialmente alleati dell’Occidente (inteso come NATO). Parliamo di Qatar, Arabia Saudita, altre monarchie del Golfo, Pakistan. Questi paesi vengono insensatamente definiti “paesi islamici moderati” per il loro legame finanziario ed economico con l’Occidente nonché per la loro comune ostilità ai nemici strategici della NATO (principalmente Russia ed Iran).
Paesi membri della NATO: Turchia, Francia e Regno Unito. Questi paesi hanno giocato un ruolo assai ambiguo nel loro rapporto col terrorismo salafita. La Turchia non ha mai combattuto il Daesh e ha invece permesso a migliaia di volontari europei di raggiungerlo e all’organizzazione stessa di esportare il proprio petrolio, il tutto in funzione anticurda e anti–Assad. Francia e Regno Unito hanno chiuso gli occhi sui terroristi diretti verso la Siria, hanno fornito appoggio politico e forse anche armamenti a ribelli siriani (diversi dal Daesh ma la cui moderazione è, per essere eufemistici, più che dubbia). Il Regno Unito ospita da decenni salafiti radicali cui fornisce asilo politico anche quando ricercati dai loro governi, ed è stato molto probabilmente coinvolto nell’armamento e nel sostegno tanto ai talebani afghani quanto ai ribelli ceceni.
I due paesi cardine dell’Occidente nell’area del Vicino Oriente: USA e Israele. Che gli Stati Uniti abbiano contribuito in modo sostanziale all’insurrezione globale dell’estremismo salafita e wahhabita è tema definitivamente e irrevocabilmente sottratto al complottismo e consegnato all’oggettività storica. Quanto ad Israele, spesso si sottace non solo il reciproco ignorarsi tra Israele da un lato e Al Qaeda e “Stato Islamico” dall’altro, ma anche il ruolo che il regime sionista ha svolto nel sostegno alla guerriglia antirussa in Afghanistan. Soprattutto è utile ricordare che Israele e “Stato Islamico” non si combattono
perché hanno due nemici comuni: il nazionalismo palestinese e l’Islam sciita.
I governi europei non possono condannare e additare come nemico il terrorismo che colpisce i loro cittadini e continuare ad intrattenere forti legami politici e militari coi suoi finanziatori, creatori e protettori – isolando i governi arabi che lo subiscono come minaccia alla propria sopravvivenza e i governi iraniano e russo che sono impegnati contro il medesimo nemico. Il terrorismo potrà anche sembrare religioso nei suoi pretesti, ma è geopolitico nelle origini e negli scopi. Due domande sono da porre alle classi dirigenti europee: come mai si concede la rappresentanza del mondo sunnita a paesi autoritari come la Turchia o a monarchie oscurantiste come quelle del Golfo che hanno come capofila l’Arabia Saudita, cardine dell’eterodossia wahhabita? Come mai si alimenta dall’altro lato la retorica del settarismo – tragica profezia autoavverantesi del sedicente califfato? Non tutti i musulmani sunniti del Vicino Oriente appoggiano il sedicente “Stato Islamico”; anzi la maggior parte di loro ne sono vittime. I Palestinesi sognano ancora un loro Stato indipendente e sovrano, e molti di loro sono ancora animati da ideali secolari e di sinistra. Tra i sunniti siriani molti sono ancora coloro che appoggiano il governo baathista, preferendolo al Daesh. Il pur travagliato cammino della Tunisia, paese omogeneamente sunnita in cui i sentimenti repubblicani cercano di prevalere, dovrebbe essere la risposta definitiva a chi per ignoranza e malafede vorrebbe consegnare tutti gli Arabi sunniti all’estremismo wahhabita e salafita.

Il terrorismo: cos’è e cosa non è

In primis, abbiamo dunque inquadrato il terrorismo come fenomeno militare e non di ordine pubblico. In secundis abbiamo riconosciuto che le cause del terrorismo – non esclusive ma principali – afferiscono al contesto geopolitico più che a quello religioso. In terzo luogo sappiamo anche che una trattazione a parte meriterebbe il ruolo giocato dall’emarginazione sociale dei migranti e dei loro discendenti nei paesi europei; il tema è assai significativo e complesso, di sicuro più che non la religione in qualche modo professata o presentata come giustificazione del loro operato da parte dei terroristi (molti dei quali sono però dei piccolo-borghesi in cerca di identità e non proletari emarginati: da qui un ulteriore livello di riflessione sul nichilismo strisciante e sull’alienazione nella società liberaldemocratica). La recente letteratura riconosce il percorso di radicalizzazione come un percorso si conversione in sé e indipendente dalla precedente esperienza di pratica della religione islamica. Il percorso con cui si diventa jihadista è spesso scollegato dall’essere musulmano praticante o persino rigoroso. Molti terroristi sono europei convertiti, ex criminali e sbandati, emarginati sociali e appunto anche piccolo-borghesi. La radicalizzazione avviene spesso in carcere, attraverso la rete o la frequentazione di associazioni radicali, più che non nelle moschee. La conoscenza dell’Islam e delle sue tradizioni da parte dei terroristi è spesso superficiale, esteriore ed abbozzata. Purtroppo i nostri media continuano ad insistere sul tema del rapporto tra Occidente ed Islam come culture, il che è concettualmente fuorviante e spinge le opinioni pubbliche a credere che gli attentatori di Parigi rappresentino in qualche modo – monoliticamente – un miliardo e mezzo di musulmani nel mondo.

Conclusioni: il livello tattico e la visione geopolitica

Tutto questo ci conduce al culmine del nostro discorso: fare sicurezza a livello operativo e tattico. Il terrorista contemporaneo è sì un obiettivo militare, ma non un obiettivo militare classico che si possa colpire da un bombardiere con azioni di alto livello propagandistico ma di scarsa, nulla o controproducente efficacia effettiva. I terroristi contemporanei si radicalizzano spesso in modo “fai da te” e operano per cosiddetti “sciami” (nella letteratura anglosassone si parla di “swarming”) più che per “eserciti” o “cellule”. Si tratta di strutture non rigidamente gerarchiche o verticali ma nemmeno basate su cellule indipendenti o lupi solitari. Gli sciami sono strutture “network-centered”, cellule sì autosufficienti, ma inserite in reti di terroristi (networks) che condividono conoscenza, informazioni, tattiche e spesso logistica a livello orizzontale (il che le rende difficili da decapitare) e con un riferimento verticale a livello ideologico, di immagine, finanziario e di addestramento. Le reti sono famigliari, amicali o costruite sul campo nei combattimenti in Siria o negli altri teatri del fronte terrorista. Le aggregazioni di questo tipo garantiscono flessibilità, elasticità e segretezza superiori a quello delle strutture gerarchiche ma anche una capacità offensiva superiore a quello dei semplici “lupi solitari”. Il processo di radicalizzazione è destrutturato, individuale e più difficile da monitorare. Gli strumenti tecnologici di comunicazione garantiscono la possibilità tecnica di mantenere vivo il network e quelli mediatici di terrorizzare l’opinione pubblica. I livelli gerarchici superiori (cui chiaramente non si rinuncia) basati in Medio Oriente, garantiscono addestramento militare, riferimento ideale e contribuiscono al coordinamento del finanziamento.
Una guerra contro un simile nemico non si vince bombardando alcuni campi di addestramento in Siria e nemmeno ripetendosi che l’Islam sia una “religione cattiva”. Si può quantomeno provare a combattere aumentando il livello operativo dell’intelligence potenziando il coordinamento tra le agenzie europee, non confidando solo sulla tecnologia (fondamentale data la difficoltà di infiltrare gli “sciami” e alla quale non frapporre eccessivi limiti legali) bensì anche su un ritorno all’HUMINT (raccolta informativa basata su fattori ed operatori umani, sull’infiltrazione laddove possibile e sull’interrogatorio una volta catturati i terroristi, collaborazione con i paesi d’origine e con le altre intelligence: la tecnologia fornisce molte informazioni, ma quelle di origine HUMINT sono forse più significative, di certo più dirette, più facili da gestire per la minor mole e più interpretabili) e sottraendo la lotta al terrorismo allo schema concettuale della tutela dell’ordine pubblico e alla magistratura civile e consegnandolo invece al livello militare. Dare la caccia ai terroristi è fondamentale: vanno trasformati da predatori a prede. Aumentare il livello di sorveglianza passiva ha efficacia limitata. Rende forse più complesso attuare un attentato, non lo rende impossibile. E’ poi fondamentale mostrare assoluta inflessibilità con i paesi protettori o anche solo ambigui con il terrorismo. Inflessibilità con Turchia, con Qatar e Arabia Saudita (questi ultimi non certo gli unici produttori di idrocarburi al mondo), presa atto della diversità delle priorità della politica estera di Washington (interessata al contrasto strategico di Russia e Cina e non alla sicurezza dei cittadini europei) e di quella europea (che dovrebbe mirare alla sicurezza dei propri civili ed alla propria indipendenza strategica) nonché maggior solidarietà col popolo curdo e con quello palestinese, con paesi sunniti quali l’Algeria e la Tunisia, con l’Iran e con la Russia – impegnati in prima linea nel contrasto al terrorismo di matrice salafita e wahhabita: ecco i capisaldi di una vera risposta geopolitica ai fatti di Parigi.

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ENTREVISTA A CLAUDIO MUTTI: “LA GUERRA CIVIL ISLÁMICA”

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¿Un choque de civilización entre Occidente y el Islam? Qué va, el conflicto actualmente en curso es (sobre todo) interior al mismo mundo musulmán. De ello está convencido Claudio Mutti, director de la revista Eurasia, que dedica en su último número un dossier a “La guerra civil islámica”. Y en este choque las facciones aparentemente más aguerridas (salafistas y wahhabitas), son justo las que tienen vínculos históricos con las fuerzas de occidente.

Adriano Scianca – El último editorial de Eurasia, la revista de geopolítica que usted dirige, se titula “La guerra civil islámica”. ¿Quiénes son los actores de este conflicto dentro de la religión musulmana y qué es lo que está en juego?

Claudio Mutti – La expresión “guerra civil islámica” utilizada en el editorial del trigésimo noveno número de Eurasia debe entenderse en un sentido amplio, ya que el actualmente en curso no es propiamente un conflicto en el que se enfrentan los ciudadanos de un mismo Estado, incluso si no faltan casos de guerra civil real; tratándose en cambio de un conflicto que opone a Estados, instituciones, corrientes, grupos pertenecientes al mundo musulmán, sería más exacto hablar de “guerra intraislamica”. El enfrentamiento en cuestión debe remontarse a la tentativa puesta en práctica por fuerzas históricamente cómplices del Occidente británico y estadounidense, para instaurar su hegemonía en el mundo musulmán. Gracias además a los petrodólares de los que pueden disponer, estas fuerzas, que sobre el plano ideológico se expresan (sobre todo, pero no solamente) en las desviaciones wahhabita y salafista, ejercen su influencia sobre una parte considerable de la comunidad de creyentes. Esta tentativa hegemónica, además de encontrar las renuencias del Islam tradicional, ha suscitado durante mucho tiempo la fuerte oposición del nasserismo (hasta Gaddafi) y de las corrientes revolucionarias. Hoy su principal obstáculo está representado por el Islam chiíta. De ahí el feroz sectarismo anti-chií que anima a los corrientes heterodoxas y que, por desgracia, también se ha extendido a áreas del Islam que se suponía exentas de ello.

AS – La intervención rusa en Siria parece haber cambiado el rumbo del conflicto. ¿Cree que es posible, para Assad, volver a la situación pre-bélica o ya una porción de su poder y de su soberanía puede darse en todo caso por perdida para siempre?

CM – El gobierno sirio, que todos daban ya por desahuciado, logró sobrevivir a una agresión y a una guerra civil durante más de cuatro años. La alianza euroasiática de Siria, Irán, Hezbollah y Rusia ha prevalecido sobre la coalición occidental y sobre el sedicente “Estado islámico” que la primera ha diseñado, financiado, armado y entrenado. Se trata de la primera derrota geopolítica infligida a los Estados Unidos y sus satélites desde el fin de la Guerra Fría. En este contexto, no creo que Assad deba temer una pérdida del propio poder, tanto es así que el presidente sirio se ha declarado dispuesto a afrontar nuevas elecciones presidenciales. Hace unos días, el 23 de octubre, después de reunirse con John Kerry y los ministros de exteriores turco y saudí, el ministro de Asuntos Exteriores ruso, Sergei Lavrov, ha desmentido del modo más categórico que durante las negociaciones sobre la crisis siria los participantes hayan abordado la cuestión de la dimisión del presidente Assad. Algo antes, Dmitrij Trenin, director del Carnegie Center de Moscú, dijo que para Putin “Assad no es una vaca sagrada” y que su único interés es “salvar el estado sirio, evitando que se fragmente como ha sucedido en Libia o en Yemen”. Sin embargo, una cosa es cierta: Rusia tiene considerables intereses geoestratégicos en Siria, un país que durante más de cuarenta años es su aliado y que alberga en Tartus la única base mediterránea de la Armada rusa. No sólo eso, sino que los rusos han construido una base aérea en Al-Ladhiqiyah (Laodicea), que es un bastión de Assad. No creo, por tanto, que Rusia quiera crear en Damasco las condiciones de un vacío de poder que daría a los aliados de los EEUU la forma de soplar de nuevo sobre el fuego del terrorismo.

AS – En estos días la situación se está caldeando demasiado en los territorios palestinos. ¿Por qué precisamente ahora se vuelve al borde de una “tercera Intifada”? ¿Es un fenómeno que puede ser enmarcado de alguna manera en la convulsión general de la zona?

CM – La “tercera Intifada”, la denominada “Intifada de los cuchillos”, es una gran oportunidad para el eje ruso-iraní, cuya línea estratégica puede abrir perspectivas de victoria para la causa palestina. Acabando con la monstruosidad representada por el sedicente “Estado islámico” y garantizando la seguridad de la República Árabe de Siria, el eje ruso-iraní conseguirá en efecto el resultado de modificar radicalmente la situación en el Oriente Medio. Como consecuencia de ello, el papel de Estados Unidos en la región resultará fuertemente redimensionado, y por lo tanto también la hegemonía de la entidad sionista será puesta en tela de juicio. Si la alianza ruso-iraní quiere llevar hasta el final las medidas adoptadas hasta el momento, tendrá que sostener de manera decisiva la lucha del pueblo palestino; pero los líderes palestinos deberán a su vez romper los vínculos con aquellos gobiernos de la región que sustentan la presencia estadounidense y son cómplices del régimen de ocupación sionista.

AS – ¿Cuál es la relación de las corrientes wahhabita y salafista con la religión islámica? ¿No representan una exacerbación o una perversión? ¿Y cuáles son, en cambio, sus vínculos con el Occidente anglo-americano?

CM – Los movimientos wahhabitas y salafistas, aunque nacidos en lugares y circunstancias históricas diferentes, declaran ambos luchar por un objetivo esencialmente idéntico: reconducir el Islam a aquello que era, al menos en la imaginación de sus seguidores, en el momento de las primeras generaciones de musulmanes. Estas corrientes rechazan tanto el magisterio espiritual ejercido por los maestros de las hermandades sufíes, como las normas de la Ley sagrada (Sharia) elaborada por las escuelas jurídicas tradicionales (sunitas y chiítas). Su interpretación del Corán y de la Sunna Profética (únicas fuentes de la doctrina que ellos reconocen) se caracteriza por un obtuso literalismo anti-espiritual que no rehúye incluso el antropomorfismo.

Desde su creación, estos movimientos heterodoxos y sectarios han actuado en connivencia con Gran Bretaña, convirtiéndose en instrumentos de sus planes de dominio en el mundo musulmán. El fundador del movimiento salafista, Al-Afghani, iniciado en la masonería en una logia del rito escocés de El Cairo, hizo entrar en la organización masónica a los intelectuales de su círculo, entre ellos a Muhammad ‘Abduh, quien en 1899 se convirtió en Mufti de Egipto con el plácet de los ingleses. Lord Cromer, uno de los principales artífices del imperialismo británico, definió a los seguidores de Muhammad ‘Abduh como “los aliados naturales del reformador occidental”.

En cuanto a los wahhabitas, Ibn Saud fue patrocinado por Gran Bretaña, que en 1915 fue el único estado en el mundo en establecer relaciones oficiales con el Sultanato wahhabita del Nejd y en 1927 reconoció el nuevo reino wahhabita del Nejd y del Hiyaz. Consejero de Ibn Saud fue Harry Philby, el organizador de la revuelta árabe anti-otomana, el mismo que apoyó ante Churchill, el barón Rothschild y Weizmann el proyecto de una monarquía saudita encargada de controlar por cuenta de Inglaterra la ruta a la India. Al patrocinio británico lo sustituyó luego el estadounidense; si ya en 1933 la monarquía saudí había otorgado en concesión a la Standard Oil el monopolio de la explotación petrolífera, y en 1934 había concedido a otra compañía estadounidense el monopolio de la extracción de oro, el 01 de marzo de 1945 el rey wahhabita selló la nueva alianza con los EEUU reuniéndose con Roosevelt a bordo del Quincy.

AS – Los dos recientes premios Nobel de la Paz y de Literatura tiene notables implicaciones geopolíticas. ¿Puede darnos su comentario?

CM – Debe tenerse presente que el premio Nobel no es en absoluto una institución neutral y libre de condicionamientos políticos. El Premio Nobel de la Paz, en particular, ha sido concedido más veces a personalidades de la política, de la cultura e incluso de la religión que han servido a los intereses de los Estados Unidos de América o del régimen sionista, quizás a través de la subversión, la mentira propagandística, la acción terrorista y la agresión militar contra otros países. Me limito a mencionar algunos nombres, sobre los que no es necesario hacer ningún comentario: Woodrow Wilson, Henry Kissinger, Menachem Begin, Lech Walesa, Elie Wiesel, el XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, Gorbachov, Aung San Suu Kyi, Shimon Peres, Yitzhak Rabin, Barack Obama. Este año el Premio Nobel de la Paz ha sido concedido al llamado Cuarteto para el diálogo nacional tunecino, en reconocimiento a su “contribución decisiva para la construcción de una democracia plural en Túnez a raíz de la Revolución del Jazmín en 2011”. En resumen, ha sido premiada la llamada “Primavera árabe”, es decir, el vasto movimiento de desestabilización que la “estrategia del caos” ha favorecido en las costas meridional y oriental del Mediterráneo. Análogo significado reviste también la decisión de conceder el Nobel de Literatura a una periodista sobre la que recae la acusación infamante de ser un agente de la CIA.

26 de octubre 2015

(Traducción de Página transversal)

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LA GUERRA CIVIL ISLÁMICA

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“Omnia divina humanaque iura permiscentur” (César, De bello civili, I, 6).

La guerra civil propiamente es un conflicto armado de amplias proporciones, en el que las partes beligerantes se componen principalmente de ciudadanos de un mismo Estado; objetivo de cada una de las dos facciones en lucha es la destrucción total del adversario, física e ideológica. Sin embargo, tal definición se puede aplicar ampliamente: Ernst Nolte, por ejemplo, llama “guerra civil europea” al conflicto de las dos ideocracias que, en el período comprendido entre la Revolución de Octubre y la derrota del Tercer Reich, trataron de aniquilarse recíprocamente. Guerra civil, pero combatida a escala global, fue también según Nolte la Guerra Fría, un “choque político-ideológico entre dos universalismos militantes, cada uno de los cuales estaba en posesión de al menos un gran estado, un choque en el que lo que estaba en juego era la futura organización de un mundo unitario” [1].

En cierta medida, es posible extender la definición de “guerra civil” al conflicto político y militar que, en el mundo musulmán de hoy, contrapone Estados, instituciones, movimientos, grupos y facciones pertenecientes a la misma comunidad (umma). Un conflicto de tal naturaleza se indica por el léxico islámico a través del término árabe fitna, al cual recurre el Corán, en donde se afirma “la sedición es más violenta que la matanza” (al-fitnatu ashaddu min al-qatl [2].

La primera fitna en la historia del Islam es la que rompió la comunidad musulmana durante el califato del Imam Alí. Concluida la revuelta de los notables de la Meca con su derrota en la Batalla del Camello, la fitna explotó una vez más con la rebelión del gobernador de Siria, Muawiya ibn Abi Sufyan, que, después de haber enfrentado en Siffín al ejército califal y después de apoderarse de Egipto, Yemen y otros territorios, dio comienzo en el 661 a la dinastía omeya. Una segunda fitna opuso al califa omeya Yazid Ibn Muawiya y al nieto del profeta Mahoma, al-Husayn ibn Alí, que el 10 de octubre de 680 conoció el martirio en la batalla de Karbala. La tercera fitna fue el choque dentro de la familia Omeya, que allanó el camino a la victoria abasí. La cuarta fue la lucha fratricida entre el califa abasí al-Amin y su hermano al-Ma’mun.

La primera y la segunda fitna, lejos de resolverse en un mero hecho político, están en el origen de la división de la umma islámica en las variantes sunita y chiíta: dos variantes correspondientes a dos perspectivas de la misma doctrina y por lo tanto definibles como “dimensiones del Islam inherentes a ella no para destruir su unidad, sino para hacer participar a una mayor parte de la humanidad y de individuos de diferente espiritualidad” [3]. Ahora, mientras la mayoría de los árabes, de los turcos, de los pakistaníes es sunita, como sunita es igualmente Indonesia, que es el más populoso de los países musulmanes, el núcleo más compacto y numéricamente consistente del Islam chiíta es representado por el pueblo iraní. Esta estrecha relación de Irán con la Chía se utiliza ahora en un marco estratégico inspirado en la teoría del “choque de civilizaciones”: los regímenes del mundo musulmán aliados de los Estados Unidos y de Israel recurren instrumentalmente al dualismo “Sunna-Chía” con el fin de excitar el espíritu sectario y dirigir las pasiones de las masas contra la República Islámica de Irán, pintada como enemiga irreductible de los suníes y presentada como el núcleo estatal de la hegemonía regional “neosafávida” (fue bajo la dinastía safávida cuando en la Persia del siglo XVI la Chía se convirtió en la religión del estado).

El alimento ideológico del sectarismo anti-chií consiste principalmente, aunque no exclusivamente, en las corrientes wahabitas y salafistas, que desde su aparición han sido objeto de reprobación y condena por parte de la ortodoxia suní. Acerca de la relación histórica de solidaridad que une tales manifestaciones de heterodoxia al imperialismo británico y estadounidense, ya lo hemos visto en otro lugar [4]. Aquí será oportuno observar que el producto más reciente y virulento de estas corrientes, es decir, el autodenominado “Estado Islámico” (Daesh, Isis, Isil, etc.), abiertamente apoyado por Arabia Saudita, Qatar y Turquía, es el instrumento de una estrategia norteamericana destinada a asegurar al régimen sionista la hegemonía en el Medio Oriente y por lo tanto a impedir la formación de un bloque regional que, desde Irán, se extienda hasta el Mediterráneo.

También es necesario señalar la significativa similitud entre el caricaturesco y paródico “Califato” de al-Baghdadi y la petromonarquía saudita. Los feroces y bestiales actos de sadismo perpetrados por los secuaces del así llamado “Estado Islámico”, la destrucción sacrílega de lugares de culto tradicionales y la vandálica destrucción de los sitios de la memoria histórica en Siria e Irak, de hecho, representan otras tantas réplicas de análogos actos de barbarie cometidos por los wahabitas en la Península Arábiga [5]. El así llamado “Estado islámico”, como se ha demostrado ampliamente en las páginas de esta revista [6], no es sino una forma radical y paroxística de aquella particular heterodoxia que tiene su propio epónimo en Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab. Por otra parte, tanto la entidad saudita como su réplica denominada “Estado Islámico” deben ambas su nacimiento y su desarrollo a los intereses angloamericanos y a las decisiones operativas de la geopolítica atlántica.

La “guerra civil” islámica, la fitna que estalla en el mundo musulmán de hoy, tiene por lo tanto en su origen la acción combinada de una ideología sectaria y de una estrategia que sus propios diseñadores han llamado “la estrategia del caos.”

* Claudio Mutti es director de “Eurasia”.

Notas

[1] Ernst Nolte, Deutschland und der Kalte Krieg (2ª ed.), Klett-Cotta, Stuttgart 1985, p. 16.
[2] Corán, II, 191.
[3] Seyyed Hossein Nasr, Ideali e realtà dell’Islam, Rusconi, Milán.
[4] Claudio Mutti, L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. IX, n. 4, octubre-diciembre 2012, pp. 5-11.
[5] Carmela Crescenti, Lo scempio di Mecca, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, no. 4, octubre-diciembre 2014, pp. 61 a 70.
[6] Jean-Michel Vernochet, Le radici ideologiche dello “Stato Islamico”, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. XI, no. 4, octubre-diciembre 2014, pp. 81 a 85.

(Traducción de Página transversal)

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