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Channel: Alassane Ouattara – Pagina 8 – eurasia-rivista.org
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NUOVO RAPPORTO DELL’OIL SUL LAVORO FORZATO

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L’ Organizzazione Internazionale del Lavoro rivede le sue stime sul lavoro forzato nettamente al rialzo: 21 milioni di lavoratori coinvolti, per un profitto di 150 miliardi di dollari all’ anno.

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I nuovi dati sono stati esposti nel documento “Profits and Poverty: The Economics of Forced Labour”. Il riscontro più agghiacciante emerso da questo studio è che ben 99 miliardi di proventi, sui 150 totali, derivano dallo sfruttamento sessuale; i restanti 51 miliardi sono ricavati invece da lavori forzati in ambito commerciale: principalmente lavoro domestico e agricoltura. Da quanto emerge dalla ricerca sono quindi le donne e le bambine ad essere più soggette ai lavori forzati, mentre gli uomini svolgono la loro attività nell’ambito edile e minerario. Analizzando i proventi derivati dai diversi settori produttivi si nota che mettendo insieme il lavoro industriale, quello in miniera ed il settore edile, i ricavi raggiungono i 34 miliardi di dollari; altri 9 miliardi derivano dagli sfruttamenti nel settore primario ed altri 8 dal lavoro forzato nelle mura domestiche.
La ricerca dell’ OIL ha anche trattato l’impatto che il lavoro forzato manifesta nelle diverse aree geografiche. Nell’ Asia-Oceano Pacifico gli sfruttamenti sono più diffusi: quasi 12 milioni di persone sono sottoposte ad abusi, garantendo un ricavo annuo di 40 miliardi. Nelle economie sviluppate invece il profitto è di 34 miliardi, prodotti da un milione e mezzo di lavoratori sfruttati. Le stime del numero di lavoratori coinvolti sono date da una precedente ricerca del 2012, condotta sempre dall’ International Labour Organization.

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L’OIL, oltre ad aver garantito dei dati empirici, si è anche preoccupata di sviluppare un’analisi su quelle che sono le cause principali di questo fenomeno, ancora così diffuso in molte parti del mondo. Contribuiscono in maniera sostanziale la scarsa educazione di base, la povertà, i fenomeni migratori ed una cultura in cui è assente la parità di genere. Da specificare, riguardo all’ elaborato in questione, resta il fatto che lo studio prende in considerazione solamente il lavoro forzato privato, perché “si registrano progressi nella riduzione del lavori forzati imposti dai vari stati (come ad esempio il lavoro carcerario non regolamentato o il reclutamento forzoso dei bambini soldato) e gli sfruttamenti ormai riguardano per il 90% l’economia privata, perciò dobbiamo soffermare maggiormente la nostra attenzione sui fattori socioeconomici che rendono le persone vulnerabili alle pratiche di lavoro forzato nel settore privato”: questa l’opinione di Beate Andrees, Direttore del Programma Speciale di Azione dell’OIL per combattere il lavoro forzato.
Dopo l’analisi approfondita è essenziale sviluppare nuove strategie per limitare gli abusi sui lavoratori. In primo luogo si cercherà di garantire maggiori risorse al fine di incrementare gli investimenti nell’educazione e nella formazione professionale, per aumentare le opportunità di lavoro dei soggetti più svantaggiati. Si tenterà inoltre di garantire maggiori prestiti a soggetti che hanno perso il lavoro o hanno subito una imprevista diminuzione di guadagni, al fine di scoraggiare l’usura e la dipendenza economica dagli sfruttatori. Un altro obiettivo sarà quello di prevenire ed evitare gli abusi sui migranti ed il lavoro clandestino; sarà, infine, importante tutelare maggiormente le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori che fanno parte dei settori più colpiti dallo sfruttamento.
Dopo aver dichiarato tutti questi obiettivi il direttore dell’OIL, Guy Ryder, ha ribadito nuovamente che “se vogliamo dare un cambio significativo nella vita di questi 21 milioni di uomini, donne e bambini vittime del lavoro forzato, dobbiamo adottare misure concrete e immediate. Questo significa collaborare maggiormente con i governi per migliorare le legislazioni in materia, adottare nuove politiche e preoccuparci della loro successiva applicazione. Indispensabile sarà continuare il dialogo con i diversi sindacati, affinché continuino a rappresentare tutti i lavoratori in situazioni di disagio”. Riferendosi al Profits and Poverty: The Economics of Forced Labour il direttore ha aggiunto che “il nuovo studio porta ad un livello superiore la nostra conoscenza sulla tratta di persone, sul lavoro forzato e sulla schiavitù moderna. Questo documento aggiunge un nuovo carattere di urgenza ai nostri sforzi per sconfiggere questa piaga dell’umanità”.
Un prossimo passo importante per l’OIL sarà certamente quello di aggiornare la Convenzione internazionale sul lavoro forzato, datata 1930, messa in campo per lottare contro le pratiche del colonialismo e che risulta ormai in buona parte obsoleta. L’appuntamento è fissato alla prossima riunione generale dell’Organizzazione, in cui verrà discusso un protocollo per allargare la Convenzione anche al settore privato.

Ecco il testo integrale del documento dell’OIL, di seguito il rapporto 2012
http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—ed_norm/—declaration/documents/publication/wcms_243027.pdf
http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—ed_norm/—declaration/documents/publication/wcms_182004.pdf

Immagini tratte dal sito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro www.ilo.org


L’IMPERIALISMO STATUNITENSE IN CAMBOGIA DURANTE LA GUERRA DEL VIETNAM

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Gli Accordi di Ginevra del 1954 posero fine alla guerra di Indocina, che si era conclusa con la sconfitta dei francesi ad opera del Vietminh a Dien Bien Phu. I firmatari, fra cui Francia, URSS, Cina e Vietnam del Nord, riconobbero l’indipendenza della Cambogia e la sua posizione internazionale come stato neutrale. Tuttavia, la Cambogia indipendente dovette subire le politiche imperiali statunitensi a causa della sua posizione strategica. Gli USA, sempre più coinvolti nel conflitto vietnamita e decisi ad impedire l’avanzata del comunismo nel sud-est asiatico, pretendevano che la Cambogia entrasse a far parte della SEATO (Organizzazione del Trattato del Sud Est Asiatico) che comprendeva Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Australia, Nuova Zelanda, Thailandia e Filippine. Il principe Sihanouk, che all’epoca era alla guida di quella nazione, oppose sempre un netto rifiuto, poiché era deciso a conservare la neutralità del proprio paese. Gli Stati Uniti, irritati dal comportamento di Sihanouk, alternarono aiuti economici, minacce e appoggio alla sovversione interna ed esterna. La CIA creò una classe militare cambogiana conservatrice e apertamente filoamericana, finanziando allo stesso tempo alcuni gruppi armati di opposizione anticomunisti che intendevano instaurare un regime repubblicano. Inoltre, gli Stati Uniti sostenevano le rivendicazioni territoriali dei paesi alleati Thailandia e Vientam del Sud, che rifiutavano di riconoscere i confini con la Cambogia. Fra il 1957 e il 1958 le truppe sud-vietnamite, sostenute dagli USA, invasero Stung Treng, una provincia cambogiana nord-orientale in cui vi era una presenza significativa dell’etnia vietnamita, ma furono respinte dopo violenti combattimenti. Le truppe sud-vietnamite, coadiuvate dalla CIA, proseguirono le proprie incursioni in territorio cambogiano per tutti gli anni ’60. La Thailandia, forte dell’appoggio statunitense , occupò la provincia cambogiana occidentale di Preah Vihear nel 1958, ma soltanto nel 1962, dopo l’intervento della Corte Internazionale di Giustizia, acconsentì al ritiro delle sue truppe. In questo periodo la CIA, intenzionata a creare un corridoio strategico tra il Vietnam del Sud e la Thailandia, tentò invano di fomentare una rivolta secessionista nelle provincie di Siem Reap e di Kompong Thom per creare uno stato fantoccio degli USA che comprendesse il nord della Cambogia e il Laos meridionale. La CIA organizzò inoltre, senza successo, numerosi attentati contro Sihanouk, assoldando sicari e recapitando pacchi esplosivi. Alla fine del 1965, gli Stati Uniti bombardarono con i B-52 il confine fra il Vietnam del Sud e la Cambogia provocando migliaia di morti e feriti fra i civili di entrambi i paesi. Questi avvenimenti costrinsero Sihanouk ad accettare gli aiuti economici e militari cinesi e a permettere tacitamente ai nord-vietnamiti e ai vietcong di utilizzare il Sentiero di Ho Chi Minh, che attraversava la Cambogia orientale, per penetrare nel Vietnam del Sud dove effettuavano le proprie missioni militari contro il regime di Saigon, fantoccio degli USA. Alla fine degli anni ’60, l’instabilità della Cambogia fu ulteriormente aggravata dalla presenza di un crescente movimento comunista di opposizione, dominato dai khmer rossi, che stava prendendo piede nelle campagne cambogiane. I bombardamenti americani in Cambogia cominciarono nel marzo 1969 per volontà del presidente Nixon. A partire da quell’anno, la Cambogia fu sempre più coinvolta nel conflitto in corso nel vicino Vietnam, con conseguenze devastanti. Tramite i bombardamenti sulla Cambogia, gli USA intendevano proteggere la sicurezza del traballante regime di Saigon. Fino all’estate del 1973 i B-52 americani sganciarono sulla sola Cambogia 539.129 tonnellate di bombe, tre volte il tonnellaggio complessivo, armi atomiche comprese, sganciato sul Giappone durante la II Guerra Mondiale. I bombardamenti americani distrussero l’economia cambogiana e ne disgregarono la società, favorendo la crescita dell’opposizione armata dei khmer rossi. Tuttavia, pur causando enormi distruzioni del territorio con centinaia di migliaia di vittime e di profughi, le missioni di bombardamento americane non affievolirono mai le capacità di combattimento dei comunisti vietnamiti che, invece, consolidarono la propria presenza militare in Cambogia. Anche le numerose missioni terrestri di infiltrazione e sterminio, promosse dalla CIA, non riuscirono a localizzare le basi comuniste e a distruggerle. Il 18 marzo 1970 il generale Lon Nol, forte del sostegno della CIA, effettuò un colpo di stato, instaurando un regime militare. Il 23 marzo dello stesso anno, a Pechino, Sihanouk riunì l’opposizione cambogiana, fra cui i khmer rossi, nel FUNK (Fronte Unito Nazionale della Kampuchea) e chiese ai suoi compatrioti di ribellarsi al regime di Lon Nol. Il conflitto cambogiano si aggravò nell’aprile 1970, quando Stati Uniti e Vietnam del Sud invasero la Cambogia per distruggere le basi comuniste. I sud-vietnamiti, forti del sostegno americano, perpetrarono saccheggi e massacri ai danni dei civili cambogiani, spingendone un gran numero ad entrare nella resistenza ed aggravando la guerra civile in corso che si concluse il 17 aprile 1975, con la caduta della capitale Phnom Penh nelle mani dei khmer rossi di Pol Pot.

Marco Musumeci, 34 anni, laureato in Scienze internazionali e diplomatiche nell’ottobre 2006. Fra il 2009 e il 2010 autore di alcuni saggi brevi incentrati sulla politica estera di Cuba, pubblicati sul “Moncada”, periodico dell’Associazione di Amicizia Italia-Cuba.

LA CENTRALITÀ DELLA BULGARIA NELLE STRATEGIE EURASIATICHE DELLA RUSSIA

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La nuova fase politica in Bulgaria caratterizzata dall’elezione di Borisov alla guida di un governo di minoranza, potrebbe rappresentare una delle pagine più importanti per il Paese soprattutto in politica estera.
Nella “partita del gas” tra Russia ed Unione Europa, la Bulgaria rivelerebbe tutta la sua centralità geopolitica convincendo Putin ad iniziare nuove strategiche relazioni.
La cooperazione potrebbe seguire quella che nei Balcani hanno promosso Bulgaria, Ungheria e Austria in merito al ripristino dei lavori del South-Stream.
La conclusione del gasdotto aumenterebbe la leadership russa all’interno del settore energetico che, oltre al North-Stream nel Mar Baltico, permetterebbe alla Russia di aggirare il campo minato ucraino, uno dei governi più ostili come quello romeno, il Bosforo ed il Dardanelli.
Inoltre, il South-Stream ridurrebbe l’importanza dell’altro gasdotto bulgaro voluto dall’Unione Europea, il Nabucco, ufficializzando per quest’ultima una doppia sconfitta dopo le sanzioni contro Mosca.

La scarsa informazione dei media occidentali sugli avvenimenti politici legati alla Bulgaria non tolgono al Paese l’importante ruolo all’interno della regione dei Balcani e, soprattutto, all’interno del blocco eurasiatico.
La centralità della Bulgaria sembra essere riemersa, sia da un punto geopolitico che strategico, in una delle pagine più negative della sua storia nazionale.
Le elezioni di inizio ottobre, infatti, sembrano aprire una nuova fase di instabilità politica rappresentata dall’elezione di Bojko Borisov, leader del partito GERB, che governerà in un esecutivo di minoranza dopo l’uscita dalla coalizione del Partito Patriottico poco prima dell’investitura dei nuovi ministri.

Oltre ai problemi strutturali del Paese, il nuovo Governo bulgaro dovrà affrontare seriamente gli accordi e gli obiettivi presi nei mesi scorsi in politica estera.
Nonostante il neo Capo del Governo sia deciso a mantenere una chiara posizione euro-atlantica, tale orientamento, in linea con quelle del vecchio governo socialista di Plamen Orešarski, sembra poter subire un svolta verso nuove strategie capaci di ripercuotersi in campo europeo e non solo.

Una delle sfide principali della Bulgaria si giocherà sul campo della cooperazione con Mosca nel settore energetico.
Le tensioni tra Russia e Ucraina, con le conseguenti sanzioni europee contro il Cremlino, hanno avuto gravi ripercussioni nel tessuto sociale bulgaro.
La Bulgaria dipende per oltre l’85% del suo fabbisogno nazionale dal gas russo, che arriva tramite un gasdotto che attraversa anche Ucraina e Romania.
Quest’ultimo, secondo le dichiarazioni del Ministro dell’Energia, che ha convocato in questi giorni il Consiglio per le Crisi, ha smesso di erogare la fornitura prevista.
Le inadempienze russe, non causate da decisione del Cremlino, vengono attualmente sostituite da Sofia con gli approvvigionamenti del giacimento bulgaro di Chiren che, però, prevede il passaggio dalle centrali di riscaldamento da gas a olio combustibile.
Anche all’interno del settore agricolo, il Ministero degli Affari Esteri bulgaro ha da poco ufficializzato i dati inerenti la perdita di oltre dieci milioni di lev a causa dei blocchi commerciali contro Mosca.

Tale scenario sembra condurre il neo premier Bojko Borisov ad un cambio di strategie iniziato a delinearsi durante gli ultimi lavori diplomatici svolti con Ungheria prima ed Austria poi.
Durante questi appuntamenti, dove si è palesata la volontà politica del nuovo Governo di Sofia, il Presidente bulgaro Rosen Plevneliev ha definito di prioritaria importanza il ripristino e la celere conclusione dei lavori del gasdotto South-Stream.
Evitare drammi come quelli dell’inverno 2009, quando gran parte del Paese rimase senza rifornimenti energetici per quasi un mese, andrebbe di pari passo ad una sempre più stretta relazione tra i Paesi balcanici e la Russia.

Le parole di Rosen Plevneliev hanno dato ragione all’Ambasciatore russo presso l’Unione Europea, Vladimir Chizhov, che aveva definito il blocco dei lavori del South-Stream lo scorso giugno una «decisione politica», da interpretare nel più ampio quadro delle sanzioni europee contro la politica di Vladimir Putin.

Proprio la costruzione del gasdotto, proveniente dalla Russia e che oltrepassa il Mar Nero, era stata bloccata dagli Stati Uniti d’America e dalla stessa Bruxelles, nonostante garantisca, insieme al suo gemello North-Stream sul Mar Baltico, certezze sugli approvvigionamenti energetici ai Paesi dell’Unione Europea.
Mentre il Congresso degli Stati Uniti aveva riferito all’ex premier Plamen Orešarski di disporre la sospensione dei lavori del South-Stream in chiara ottica anti-Russia, la Commissione Europea impugnava l’intera normativa comunitaria sulla libera concorrenza contro i lavori del gasdotto in Bulgaria, interrompendo il progetto per l’assenza di un terzo partner in grado di concorrere commercialmente con la russa Gazprom.

Rispetto allo scorso giugno, qualora la Bulgaria riuscisse a completare i lavori del South-Stream e a rispettare la legislazione europea, la Russia riuscirebbe ad aggirare – sebbene in parte – il campo minato creato dal Governo filoeuropeo di Kiev.
La Romania e la stessa Ucraina, Paesi di transito del gasdotto che ad oggi conduce l’energia verso la Bulgaria, rappresentano i due Paesi dei Balcani euroasiatici più ostili alla già forte leadership di Putin.
L’unità d’intenti fuoriuscita dagli incontri tra i Presidenti di Bulgaria, Ungheria e Austria, quest’ultima decisa addirittura a sostenere i costi della conclusione del South-Stream, condurrebbe ad un ulteriore diminuzione delle forniture proprio in Ucraina e in Romania e, conseguentemente, ad un isolamento dei due stessi Paesi.
In tal caso, appare assai difficile che Kiev e Bucarest possano ricevere aiuti energetici da un’Unione Europea che, a sua volta, dipende per circa 1/3 dalle forniture provenienti dalla Russia.

Inoltre, la Bulgaria potrebbe divenire uno dei centri logistici strategicamente più importanti per Mosca, non solo per i due gasdotti gemelli presenti nel Mar Baltico e nel Mar Nero.
Le nuove relazioni tra i due Paesi potrebbero condurre Bojko Borisov ad implementare il ruolo del Paese all’interno dei Balcani grazie al rispristino di due vecchi progetti di fondamentale importanza nella “partita del gas”: il Belen Nuclear Power Point, presente nella città di Pleven, e il gasdotto Burgas-Alexandropoli.
Se il primo progetto sembra essere ormai bloccato a causa dei numerosi rischi ambientali, il progetto del Dzhugba-Burgas-Alexandropoli condurrebbe Mosca a bypassare punti geopolitici importanti come quello del Bosforo e dei Dardanelli.
Dopo il blocco dei lavori avvenuto tra il 2009-2013 a causa dell’opposizione delle comunità locali, il gasdotto riuscirebbe grazie alla sua bipartizione a rifornire l’Italia meridionale dopo essere passato per la Grecia, attraverserebbe inoltre l’Italia del nord arrivando in Serbia, Ungheria, Slovenia ed infine in Austria.
Tale progetto era stato in realtà riconsiderato dall’ex premier Plamen Orešarski e attualmente potrebbe rientrare nell’agenda del Governo di Bojko Borisov; questo accoglimento consentirebbe al Paese di rispettare gli accordi contrattuali siglati dalla Gazprom e dalla Bulgarian Energy Holding.

I nuovi possibili progetti di cooperazione tra Mosca e Sofia nel settore energetico potrebbero ampliarsi anche su altri piani, come quello della sicurezza militare.
La Nato ha imposto nei mesi scorsi alla Bulgaria una modernizzazione del proprio esercito, distaccandosi dalla dipendenza russa ed acquistando nuovi radar 3D come previsto dal Piano 2020 avente l’obiettivo di garantire sicurezza militare ad ogni singolo Stato.
Tuttavia, Boyko Borisov aveva dichiarato prima della sua elezione di non voler rispettare lo stesso programma militare della Nato, in quanto la Bulgaria non dispone di fondi sufficienti.

Le decisioni di Sofia potrebbero focalizzare nel Paese le “attenzioni” della Commissione Europea e della stessa Nato, che ha già dichiarato di voler avallare una procedura d’infrazione contro il Paese.

Il riavvicinamento tra Bulgaria e Russia, soprattutto se incentrato sui piani di sviluppo del settore energetico, rappresentano per le politiche dell’Unione Europea una doppia sconfitta.
La possibile conclusione dei lavori del South-Stream eliminerebbe di fatto qualsiasi funzione strategica del Nabucco, altro gasdotto che attraversa la Bulgaria e che collega la Turchia all’Austria.
Il progetto, fortemente voluto dall’Unione Europea proprio per sostituirsi alle dipendenze del gas russo, oggi sembra essere superato da Mosca nonostante le attuali sanzioni.

LA MEMORIA NASCOSTA DI NELSON MANDELA

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La disinformazione e l’ipocrisia con cui continua a essere celebrata la figura di Nelson Rolihlahla Mandela hanno dell’incredibile. Un uomo che ha trascorso più di ventisette anni in carcere per aver lottato contro il regime dell’apartheid, un uomo incluso fino a pochi anni fa nella lista USA dei terroristi, un uomo arrestato grazie ad informazioni fornite dalla CIA è stato trasformato dalla propaganda occidentale in una vuota e stucchevole icona del pacifismo libertario. Tutto ciò è avvenuto attraverso una sapiente opera di censura della storia, per mezzo della quale sono state volutamente rimosse la dimensione rivoluzionaria di Mandela e la sua profonda amicizia con alcuni dei leader più odiati dall’Occidente.

Il mito di Nelson Mandela

Un anno fa, il 5 dicembre 2013, a 95 anni, si spegneva Nelson Mandela. Quel giorno, dodici colombe vennero liberate nel cielo di Johannesburg e una folla immensa invase le strade del Sudafrica, intonando canti della tradizione tribale e cristiana. «Governerà l’universo insieme a Dio», diceva uno dei tanti cartelli innalzati dalla gente. Tutto il mondo si fermò per ricordare l’esempio dell’uomo eroico che lottò contro l’apartheid, il simbolo del Sudafrica odierno. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu osservò un minuto di raccoglimento. Il Presidente statunitense Barack Obama lo ricordò come esempio della sua vita e «uno degli uomini più coraggiosi dell’umanità». «Si è spenta una grande luce», commentò il premier britannico Cameron. «Un magnifico combattente», disse il presidente francese Hollande.
Il mito di Mandela era già iniziato quando il leader africano era ancora in vita. Nel 1993, assieme al Presidente De Klerk, viene insignito del premio Nobel per la Pace. Nel novembre del 2009, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decide che ogni anno, il 18 luglio, giorno di nascita di Mandela, verrà celebrato il Nelson Mandela International Day o Mandela Day. Nel 2004, alcuni entomologi gli hanno anche dedicato una rara specie di ragno sudafricano, lo Stasimopus mandelai. Un celebre pubblicitario, citato dall’agenzia France Presse, è arrivato perfino a suggerire di ribattezzare il Sudafrica col nome di “Mandelia”. Mandela è forse il politico che ha ricevuto più premi al mondo: circa 250 riconoscimenti, tra cui cinquanta lauree honoris causa.

 

Chi era Nelson Mandela

Ma chi era veramente Nelson Mandela, quel leader che, dopo aver passato quasi ventotto anni in prigione, i media non hanno mai finito di celebrare, dipingendolo come un pacifista amico dell’Occidente?
Mandela nacque il 18 luglio 1918 a Mvezo, un piccolo villaggio di capanne bianche sulle rive del fiume Mbashe, situato in una fertile vallata dell’Africa Sudorientale. Era figlio di un capo della tribù Thembu, parte della nazione Xhosa. Venne chiamato “Rolihlahla”, letteralmente “colui che tira il ramo di un albero”, che in lingua xhosa equivale a dire “colui che combina guai”. Assunse il nome Mandela dal nonno, ma il suo popolo lo chiamava Madiba, un titolo onorifico adottato dagli anziani della sua famiglia. Il nome di Nelson gli venne, invece, da una maestra della scuola missionaria metodista, dove usavano dare agli studenti dei nomi più semplici da pronunciare rispetto a quelli difficili della tradizione tribale.
Mandela si dimostrò ribelle fin da giovane, quando, insieme al cugino Justice, suo amico d’infanzia, decise di scappare a Johannesburg per sfuggire a un matrimonio combinato dal suo capotribù: aveva solo 23 anni. Due anni dopo s’iscrisse alla facoltà di legge dell’Afrikaner Witwatersrand University ed entrò in contatto con gli ambienti che si opponevano al regime segregazionista sudafricano. Nel 1942 s’iscrisse all’African National Congress, e due soli anni dopo, insieme a Walter Sisulu e Oliver Tambo, fondò la Youth League, l’ala giovanile del movimento, e presto ne divenne il presidente.
Completati gli studi di legge, avviò insieme a Tambo il primo studio legale, che offrirà protezione gratuita o a basso prezzo a molti neri poveri, che non avrebbero avuto altrimenti alcuna assistenza legale. Erano gli anni più bui della segregazione e Mandela si dedicò con passione ad organizzare scioperi e manifestazioni, incoraggiando la gente a disobbedire alle leggi discriminatorie.
Nel 1956 arrivò la prima accusa di alto tradimento e venne arrestato. Fu assolto dopo un lungo e tormentato processo nel 1961. Intanto la repressione si era fatta sempre più brutale e le autorità avevano messo al bando l’ANC. A Nelson Mandela non rimase che un’unica via: quella della lotta armata. Fu così che fondò l’ala militare dell’ANC, chiamata Umkhonto we Sizwe (“Lancia della nazione”, abbreviata in MK) e ne divenne il comandante. Obiettivo dell’organizzazione era combattere il regime segregazionista del Sudafrica attraverso azioni di guerriglia e campagne di sabotaggio contro l’esercito governativo e diversi obiettivi sensibili. Per addestrare i combattenti, Mandela si dedicò a raccogliere fondi all’estero, sia dai Paesi socialisti che da vari governi africani, come la Guinea, il Ghana, il Mozambico e l’Angola. Umkhonto s’ispirava a Mao, a Stalin e a Che Guevara.

 

Come fu che Nelson Mandela venne imprigionato per 28 anni

Erano ormai 17 mesi che Mandela viveva in clandestinità. Una notte, il 5 agosto del 1962, stava attraversando in auto Howick, una cittadina del Natal, quando venne fermato da una pattuglia della polizia. Fu arrestato e condannato a cinque anni di lavori forzati per incitamento alla dissidenza e per aver compiuto viaggi illegali all’estero. Due anni più tardi sarà accusato anche di sabotaggio e tradimento e condannato all’ergastolo.
Come fece la polizia a catturare Nelson Mandela? La vicenda rimase oscura per oltre venti anni. Solo nel luglio del 1986, tre giornali sudafricani, ripresi dalla stampa inglese e dalla CBS, spiegarono l’accaduto. Negli articoli veniva chiarito, con dovizia di particolari, che un agente della CIA, Donald C. Rickard, aveva fornito ai servizi segreti sudafricani tutti i dettagli per catturare Mandela, cosa avrebbe indossato, a che ora si sarebbe mosso, dove si sarebbe trovato. Fu così che lo presero.
Mandela rimase in prigione fino al 1990, quando venne liberato grazie a una grande mobilitazione internazionale.

 

Quello che gli ipocriti vogliono far dimenticare

Mandela per il regime razzista sudafricano era un terrorista. Ma era un terrorista anche per alcuni dei più importanti governi del mondo. Per l’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher e per il presidente statunitense Ronald Reagan era qualcosa di peggio: un terrorista comunista. I governi di Londra e di Washington hanno a lungo considerato il regime di Pretoria un importante baluardo contro i movimenti di liberazione anticoloniale del continente africano e gli hanno fornito sempre il loro sostegno. Alle Nazioni Unite, questi due Paesi hanno sempre manifestato la propria opposizione alle risoluzioni dell’Assemblea Generale che miravano a contrastare l’apartheid, proprio la stessa politica che stanno a tutt’oggi attuando sulle azioni illegali di Israele nei confronti dei palestinesi. Mandela era ormai una delle più grandi personalità del Pianeta ma, fino al 2008, cioè dopo che gli era stato concesso il premio Nobel per la Pace e aveva già ricoperto la carica di Presidente della Repubblica Sudafricana, il suo nome e quello dell’African National Congress erano ancora nella lista delle organizzazioni terroristiche redatta dal governo statunitense.
Nei lunghi anni della prigionia, pochi furono coloro che veramente lo sostennero, non solo verbalmente, ma materialmente, e fra essi ci furono alcuni leader che oggi la stampa addomesticata dell’Occidente, impegnata a riscrivere un’altra storia di Mandela, accuratamente occulta. Ma Mandela, che il sentimento di lealtà non perdette mai, non se ne dimenticò. «Ho tre amici nel mondo», soleva dire, «e sono Yasser Arafat, Muammar Gheddafi e Fidel Castro». Molto stretta e profonda fu, in particolare, l’amicizia con Muammar Gheddafi, che Mandela visitò in Libia soltanto tre mesi dopo la sua scarcerazione. Molti criticarono in quell’occasione la sua visita al leader libico, primo fra tutti Bill Clinton, il Presidente di quello stesso Paese i cui servizi segreti avevano contribuito a incarcerare Mandela ed a fornire il maggior sostegno politico, militare ed economico al regime razzista sudafricano. Ma Mandela, anche in quell’occasione, non mancò di rispondere: «Nessun Paese può arrogarsi il diritto di essere il poliziotto del mondo. Quelli che ieri erano amici dei nostri nemici hanno oggi la faccia tosta di venirmi a dire di non visitare il mio fratello Gheddafi. Essi ci stanno consigliando di essere ingrati e di dimenticare i nostri amici del passato».
Stessa stima e amicizia mostrò nei confronti di Fidel Castro e del popolo cubano. Lo testimoniano le parole che pronunciò il 26 luglio del 1991, quando Mandela visitò il leader cubano in occasione della celebrazione del trentottesimo anniversario della presa della Moncada: «Fin dai suoi primi giorni la rivoluzione cubana è stata fonte di ispirazione per tutte le persone che amano la libertà. Noi ammiriamo i sacrifici del popolo cubano che cerca di mantenere la sua indipendenza e sovranità davanti alla feroce campagna orchestrata dagli imperialisti, che vogliono distruggere gli impressionanti risultati ottenuti grazie alla rivoluzione cubana».
Le parole di elogio pronunciate dal presidente statunitense Barack Obama il giorno della morte del leader sudafricano stridono fortemente col pensiero che Mandela aveva espresso in più occasioni sulla politica USA: «Se c’è un paese che ha commesso atrocità inenarrabili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti. A loro non interessa nulla degli esseri umani». Sono parole che Madiba pronunciò al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, quando gli USA si preparavano a invadere l’Iraq.
Chiare sono anche le parole riguardanti il conflitto israelo-palestinese, riferite da Suzanne Belling dell’agenzia Jewish Telegraph: «Israele deve ritirarsi da tutti i territori che ha preso dagli arabi nel 1967 e, in particolare, Israele dovrebbe ritirarsi completamente dalle Alture del Golan, dal sud del Libano e dalla Cisgiordania».
Che fare di fronte alla realtà di parole così chiare? Ai media dell’Occidente libero e democratico non resta che un’unica via: quella della censura e della falsificazione della storia.

 

Funérailles nationales pour Nelson Mandela le 10 décembre, Agence France-Presse, 6-12-2013;
Jean-Simon Gagné, Nelson Mandela (1918-2013): la génèse d’une légende, lapresse.ca, 5-12-2013;
Filippo Bovo, La morte di Nelson Mandela, in “Stato e Potenza”, 6-12-2013;
William Blum, Come la CIA ha fatto imprigionare Nelson Mandela per 28 anni, in “Con la scusa della libertà”, di W. Blum, Marco Tropea Editore, 2002;
What the hypocrites want you to forget about Nelson Mandela: his support of Muammar Gaddafi, in Max Forte, Slouching towards Sirte, NATO’s war on Libya and Africa, pp. 142-43, pubbl. in barakabook.com, 6-12-2013;
Il Sudafrica piange Nelson Mandela. Ma di lui ormai si stravolge tutto, Sinistra.ch, 9-12-2013.

I SUFI CERCANO UN RUOLO POLITICO IN EGITTO

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A seguito dell’esplosione di un’autobomba nella moschea di Ahmad al-Badawi (luogo in cui si trovavano le reliquie di Al-Sayyid Al-Badawi, fondatore dell’Ordine sufi Badawiyya), il 14 Ottobre 2014, Shaykh del medesimo Ordine hanno rilasciato una dichiarazione in cui accusano i Fratelli Musulmani ed i Salafiti di aver ordinato l’operazione.
Ambienti legati al Sufismo hanno promesso di ottenere ottimi risultati nelle prossime elezioni parlamentari, potendo così annunciare per la prima volta la loro candidatura, coordinandosi con le altre forze politiche presenti sul territorio.
Potrebbero quindi i Sufi essere più moderati al potere, soprattutto per quanto riguarda la religione, rispetto ai Salafiti e ai Fratelli Musulmani?
Sufi e Fratelli Musulmani condividono alcuni punti in comune, soprattutto per quanto riguarda il principio di assoluta obbedienza al capo. I Fratelli Musulmani obbediscono strettamente alla Guida generale del Gruppo (il Murshid), mentre i Sufi seguono gli ordini dello Shaykh.
Su questo argomento, Ahmed Ban, un ricercatore sul tema dei movimenti islamici, ha riferito ad “Al-Monitor”: “Vi è divergenza di vedute tra i sufi al riguardo dell’idea di ‘obbedienza’. Mentre alcuni credono che lo Shaykh debba essere obbedito in pieno, altri invece credono che la loro relazione con lui debba essere più che altro spirituale, e che debba tendere a migliorare e perfezionare la loro condotta”.
Dal canto suo, lo Shaykh sufi ‘Alaa Abu al-Azayem (dell’Ordine ‘Azamiyya), ha dichiarato in un’intervista ad Al-Monitor che “i Sufi non sono un ‘gruppo religioso’ come i Fratelli Musulmani o i Salafiti. Il Sufismo è un modo di vivere, dedicato a migliorare i comportamenti delle persone che ne fanno parte. I Sufi ritengono che lo Shaykh possa commettere errori, perciò non sono costretti ad obbedirlo ciecamente”.
Sufi, Fratelli Musulmani e Salafiti credono nel ritorno del Califfato o di uno Stato Islamico, in linea con il libro Al-Jafr, che è uno dei più famosi libri spirituali dello Shaykh sufi Muhammad Abu al-Azayem, dove si afferma che il Califfato Islamico sarà ripristinato ed adattato ai nostri giorni.
Analogamente, Rifaat al-Sayyed Ahmed, un analista politico, ha dichiarato ad  “Al-Monitor” che “il ritorno del Califfato Islamico è una nozione importante, esiste tra i gruppi religiosi, ma con un grado di flessibilità che si articola in modo diverso a seconda dei gruppi”.
Alcuni gruppi hanno un solo scopo: ripristinare lo Stato islamico, perché non credono nella legittimazione dello Stato laico. I Sufi rispettano lo Stato laico, considerando però lo Stato islamico come una profezia che potrebbe avverarsi”.
In una delle sue dichiarazioni, Abu al-Azayem ha detto di non credere al ritorno del Califfato Islamico. A detta di Abu Al-Azayem, i Sufi hanno fronteggiato il colonialismo in Egitto, nei Paesi Arabi ed in Africa. Ma essi non ripongono un credito assoluto nel Jihad e nella dichiarazione di “infedeltà” per chi non vi crede, come invece è l’abitudine dei Fratelli Musulmani e di alcuni gruppi salafiti.
In Iraq, i Sufi Naqshbandi hanno costituito delle milizie armate in seguito all’invasione statunitense del 2003. Il gruppo non ha limitato il suo ruolo a combattere contro l’invasione americana, ma secondo informazioni riportate da alcuni media esso sarebbe alleato dell’IS, il che avrebbe condotto per esempio alla caduta di Mosul.
Alcuni giornali inoltre hanno riportato che una coalizione degli Ordini sufi in Egitto è stata incoraggiata, già nel 2011, allo scopo di istituire una milizia atta a difendere i luoghi sacri dagli attacchi avvenuti dopo la rivoluzione del 25 Gennaio, anche se tali notizie sono state negate dai dirigenti di tale coalizione.
In una fatwa durante l’assemblea nella piazza di Rabia Al-Adawiya, nel 2013, i Sufi hanno dichiarato che chiunque uccide un membro dei Fratelli Musulmani o dei Salafiti è da considerarsi un infedele.
Tra le critiche mosse ai Fratelli Musulmani, vi è la relazione con l’ormai ex Partito Democratico Nazionale (NDP), quando alcuni attivisti hanno riproposto un’intervista condotta da un giornale egiziano all’ex presidente Mohammed Morsi (formalmente in carica per la commissione parlamentare elettorale dei Fratelli Musulmani). Nell’intervista egli ha dichiarato che i Fratelli Musulmani si sono coordinati con alcuni esponenti dell’NDP , perché essi sono dei simboli della nazione.
Ad ogni modo i Sufi possono essere criticati per le stesse ragioni, in quanto il gruppo prima aveva forti legami con l’NDP. Infatti lo Shaykh sufi ‘Abd el-Hadi al-Qasabi faceva parte del partito, dichiarando che i sufi erano disposti a cooperare in vista delle Elezioni Parlamentari.
Egli ha anche affermato che i Fratelli Musulmani hanno interessi in comune con l’Occidente, soprattutto con gli Stati Uniti. Ma anche i Sufi sono stati criticati a causa delle relazioni con altri paesi, tra cui l’Iran, il cui rapporto col regime egiziano non è stato ancora definito chiaramente. Tuttavia alcuni organi di stampa sostengono che l’Iran abbia fondato la Federazione Mondiale degli Ordini sufi.
Secondo Rifaat al-Sayyed Ahmed e Ahmed Ban potrebbe essere troppo prematuro ed ingiusto accusare i Sufi di essere fedeli ad alcuni regimi, in quanto l’esperienza politica sufi in Egitto deve ancora realizzarsi.
Ahmed dice che” l’ordine politico-religioso dei Senussi che ha governato in Libia prima della Rivoluzione era duramente criticato per i suoi rapporti con la Gran Bretagna, alla quale il regime ha permesso di stabilire basi militari sul territorio libico, in base al trattato del luglio 1953. Il regime ha permesso la stessa cosa anche agli USA in cambio di aiuti economici. Questa tra l’altro fu una delle ragioni che spiegano il progressivo affermarsi della Rivoluzione. I Sufi in Egitto non devono però essere giudicati alla luce dell’esperienza del regime dei Senussi in Libia”.
Ban e Ahmed sono entrambi d’accordo sul fatto che il Sufismo non ha caratteri estremisti e radicali e non cerca di proibire l’arte, come fanno altri gruppi religiosi.
Secondo Ahmed però i Sufi non credono nel modello liberale di assoluta libertà. Egli afferma che “il Sufismo sta nel mezzo, tra i gruppi religiosi radicali e l’eccessiva libertà che si può trovare in alcuni modelli politici. Il Sufismo è innanzitutto educazione religiosa. I Sufi credono nella rinascita della Sharia, e anche nel dovere delle arti, dei media e delle politiche statali di essere coerenti.
Tuttavia i Sufi sono i meno rigidi ed i più flessibili nell’applicare questa politica”.
Si può dire che Sufi, Fratelli Musulmani e movimenti salafiti condividono molti principi in comune, mentre le differenze stanno nella flessibilità della loro applicazione.
Ma questo potrà solo essere verificato nella pratica, verificando se i Sufi saranno più moderati dei Fratelli Musulmani. Finora gli indizi ci suggeriscono una certa somiglianza.

Fonte: Al-Monitor, 20 nov. 2014
Traduzione per Eurasia-rivista.org di Samuela Armenia

DOSSIER IRAN E VICINO ORIENTE

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Ali Reza Jalali, Dossier Iran e Vicino Oriente, Irfan Edizioni, Rende (CS) 2014, pp. 86, € 10,00

Le dinamiche del Vicino Oriente, o Medio Oriente che dir si voglia, sono ormai all’ordine del giorno dei principali media nazionali e internazionali, per via dell’importanza strategica che questa regione del mondo, incastonata tra le principali potenze mondiali a livello militare ed econmomico (Unione Europea, Russia, India, Cina, Giappone, Stati Uniti), ricopre ormai da diverso tempo. Senza questo bacino energetico formidabile a basso costo – le principali riserve di gas e petrolio si trovano tra Golfo Persico, Mar Caspio e Mar Mediterraneo – le grandi potenze non sarebbero tali […] Questa pubblicazione, alla qualòe spero possano seguire nei prossimi anni altre, è un insieme di un anno di lavori di ricerca sui temi del diritto costituzionale, delle scienze politiche e delle relazioni internazionali; non uso la parola geopolitica, che ha una sua rilevanza specifica, anche se ormai sembra che questa materia sia molto approssimabile a quella delle relazioni internazionali. Il presente testo è concluso da un saggio del prof. Mohammad Reza Hafeznia, che ringrazio per la collaborazione, uno dei principali esperti di geopolitica e relazioni internazionali in Iran.

(Dalla Prefazione dell’Autore)

LE ASSURDE SANZIONI ALLA RUSSIA NELL’ERA DELLA “CRISI”

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Pochi giorni or sono, prendendo spunto da una nota diramata dalla banca, la quale invitava i suoi correntisti a recarsi in filiale per bonifici verso paesi colpiti da “restrizioni ed embargo”, osservavo come sia del tutto controproducente e suicida un simile atteggiamento contro la Russia (e l’Iran e gli altri “cattivi”).
Il boicottaggio delle relazioni con Mosca ha davvero qualche cosa di folle perché lo si possa accettare sulla base di mai provate accuse circa le bellicose intenzioni del Cremlino e le ripetute grida sulle sue violazioni dei “diritti umani”.

Oltre a questo, vi è da rilevare la patente contraddizione tra l’ideologia professata dagli occidentali (il “libero mercato”) e la loro prassi, per cui non trovavo di meglio che definirla “la grande frottola della globalizzazione dei capitali. Pur tuttavia, gli strumenti tipici per creare problemi sono stati attivati, e tra questi l’ostacolo alle normali transazioni finanziarie.

Ma per comprendere come si è giunti a tanto, bisogna ripercorrere brevemente che cosa è accaduto con la fine dell’Unione Sovietica.
Fino al 1989 eravamo abituati a pensare ad un Europa divisa in due: una Occidentale, corrispondente a quella parte conquistata dagli americani nel 1945 ed inserita in gran parte nella Nato e nell’area d’influenza politica, economica e culturale dei nostri “liberatori”; un’altra Orientale, satellite dell’Urss, ovvero – fatte salve alcune realtà dotate di una certa autonomia – composta da quei Paesi che, a causa della “Cortina di ferro”, venivano fatti percepire al pubblico occidentale come lontani ed ignoti. Ma a tutti e due i contendenti stava bene così, con la regione euro-mediterranea – Italia compresa – teatro di una continua destabilizzazione, che in realtà serviva a stabilizzare, anche con l’ausilio dell’Entità politico-territoriale del movimento sionista detta “Stato d’Israele”.

Il simbolo di questa divisione a tutto nostro svantaggio era la Germania divisa in due (con altre sue parti smembrate un po’ qua e un po’ là), per cui sbaglia profondamente chi rimpiange l’epoca del Muro, dimostrandosi più innamorato dell’ideologia che della comprensione dei nostri reali interessi.
Poi, tutto d’un tratto, in maniera apparentemente inaspettata, il Muro s’è sbriciolato (o è stato fatto sbriciolare), e come in un effetto domino sono cadute (talvolta riciclandosi dopo aver trovato un capro espiatorio) le varie nomenclature di paesi che improvvisamente diventavano familiari e meno esotici, tanto che l’idea di “Europa” oggi s’è spinta fino all’Ucraina e al Caucaso, aree che prima dell’89 erano percepite come estranee dalla maggioranza degli occidentali.

Dal punto di vista geopolitico, il passaggio dall’Urss alla Csi ha rappresentato la corsa occidentale ad accaparrarsi il controllo delle regioni di quell’anello esterno che risulta fondamentale per la salvaguardia del “cuore” dell’Eurasia.
Ricorrendo anche alle “rivoluzioni colorate”, negli ultimi vent’anni è stato fatto di tutto per far entrare i paesi dell’ex “Europa Orientale” nella “Unione Europea” e nella sua orbita, che tutto è tranne che l’unione dei popoli d’Europa e che tra l’altro è un inganno anche dal punto di vista concettuale, come ho già avuto modo di argomentare.

Fondamentale, per capire la manovra a tenaglia ai danni della Russia, è poi importante sottolineare il fatto che prima che nell’Unione Europea (ed eventualmente nell’euro) questi paesi venivano inglobati nella Nato. A rimarcare che la Nato tutto è tranne che una “alleanza difensiva”.
Si tratta di cose risapute, ma è bene ribadirle: non è la Russia che minaccia l’Europa (e il mondo!), ma l’America e la sua ideologia. Nemmeno l’Urss, di fatto, oltre che garantirsi uno “spazio vitale”, ha mai mirato a sovietizzare quello che esulava dai suoi confini messi in sicurezza. Certamente possiamo discuterne la visione del mondo ufficiale, che possiamo condividere o meno, ma tutto si può dire dell’Unione Sovietica tranne che intendesse attaccarci. È semmai vero il contrario, e la verità è che, ieri come oggi, in mezzo, in uno scontro nucleare devastante, ci finiremmo proprio noi europei.

Questa fretta a fagocitare nell’Occidente quanti più paesi possibili dell’ex Patto di Varsavia era figlia di quella, ancora più forsennata e razionalmente inspiegabile, a concludere in quattro e quattr’otto, a tappe forzate, il “processo di unificazione europea”, a colpi di “trattati” e di moneta unica, che dal 1991, senza mai sottoporre alcunché al giudizio popolare (specialmente in Italia), ci ha portato dritti filati nella situazione di empasse politica e di grave crisi economica e finanziaria che tutti conosciamo.
Non si considererà mai abbastanza il fattore “fretta” per capire come mai, dall’oggi al domani, è stato inculcato ai cittadini dell’Europa Occidentale che si doveva assolutamente “fare presto”. L’Europa “unita” non poteva attendere.

È vero. L’America non poteva attendere che la Russia si riprendesse dopo essere riuscita a piazzare nei suoi apparati vitali un ubriacone e dei parassiti dediti alla dilapidazione delle ricchezze della Nazione.
Il risveglio russo, dopo i colpi inferti per tutti gli anni Novanta (si pensi all’attacco a Belgrado, che oggi sarebbe impensabile), stava nella legge naturale delle cose. E così è puntualmente avvenuto quando al Cremlino è andato Vladimir Putin.
Ma ci sono stati circa dieci anni devastanti, di cui ancora paghiamo le conseguenze. La fase di debolezza della Russia ha difatti coinciso con una stretta del nostro asservimento alla globalizzazione della Nato, la sionistizzazione di tutto il discorso politico ed un crollo verticale della nostra economia.

Oggi che la Russia è tornata un attore di primo piano, agli strateghi del “caos creativo” non resta che ricorrere all’embargo e al boicottaggio, sostenuti dal solito apparato di disinformazione mediatico.
Possiamo permetterci tutto questo? Lo si chieda alle imprese italiane che esportano. Non ai cretinetti dei “diritti umani”, che tanto per loro la “crisi” non c’è.

Bisogna assolutamente capire che il boicottaggio della Russia, così come quello di tutti i paesi presentati a tinte fosche (l’Asse del Male!), non è farina del “nostro” sacco, semplicemente perché non è nel nostro interesse. Al contrario, l’embargo alla Russia è nell’interesse di chi, costantemente animato da una fretta tremenda e sospetta, ci ha messo la camicia di forza di una “unione” che, stante il suo “commissariamento” perpetuo, previene le politiche autonome che ciascuno Stato europeo avrebbe potuto intessere con Mosca una volta caduto il Muro e venuto meno il diversivo ideologico della “Guerra fredda”.

GEOPOLITICA E GEOSTRATEGIA DEL MEDITERRANEO ALLARGATO

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La forte delocalizzazione dei centri produttivi a favore dell’Estremo Oriente ha permesso al Mediterraneo di assumere un ruolo di centralità nelle strategie di trasporto marittimo, in quanto rappresenta una scorciatoia per raggiungere i mercati più importanti. Le compagnie di navigazione lo interpretano come un perno per la loro attività ed hanno identificato una direttrice di flusso dominante, che attraversa il bacino da est ad ovest, ossia da Suez a Gibilterra, permettendo al Mediterraneo di assurgere al ruolo di cruciale per il trasporto intermodale di lungo raggio, sottraendo il primato alle rotte del Mare del Nord.

L’area del Mediterraneo Allargato geopoliticamente rappresenta un quadrante di instabilità e latente tensione, tali da poter instaurare fenomeni dinamici che potrebbero coinvolgere gli assetti politici, commerciali e strategici a livello globale. In questa regione geopolitica, che comprende anche i bacini del Mar Nero e del Mar Rosso, persistono, infatti, realtà profondamente dissimili fra loro, sia in ragione politico-culturale che economico-militare. È possibile suddividerla in due regioni: il settore Nord, ossia Europa e quadrante russo-caucasico ed il Sud, con l’Africa mediterranea ed il Grande Medio Oriente. Samuel Huntington descrive il Mediterraneo Allargato come un insieme geografico, ma non come un unico sistema politico culturale. Pertanto, è definibile come una regione fisica ove le dinamiche sono regolate dal fattore umano: si tratta di due mondi contrastanti, nei quali permangono religioni, etnie, lingue e politica storicamente inconciliabili.

Nella sua completezza, l’area del Mediterraneo Allargato ha incarnato l’instabilità mondiale con i conflitti arabo-israeliani, le guerre del Golfo, quelle combattute da Iran, Iraq, Pakistan e le missioni internazionali contro il terrorismo. La globalizzazione pare aver acuito l’interrelazione dei fattori di instabilità, alimentando le dinamiche di espansione dei fenomeni transnazionali, con la conseguente frammentazione dei popoli che vi coabitano, favorendo gli elementi di contrapposizione. Il fabbisogno alimentare ed energetico agevola in parte lo stato permanente di tensione geopolitica: le risorse energetiche del Golfo Persico, dell’Asia Centrale e del Mar Caspio valgono il 70% delle riserve mondiali e per il 35% incidono sulla produzione del gas. La crescente domanda mondiale ingenera anche la difficoltà nel trasporto di queste materie, ma in contemporanea assicura la stabilità interna dei paesi produttori, migliorando la qualità di vita degli abitanti. L’accrescimento politico-militare delle nazioni che si affacciano sul Golfo Persico è significativamente correlato alle finalità di stabilizzazione geopolitica dell’area da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, le quali desiderano garantirsi un accesso continuo e stabile allo sfruttamento delle risorse. Altresì, la dipendenza energetica rende le nazioni maggiormente industrializzate vulnerabili ai processi economici fissati dagli esportatori. Ciò è anche la causa indiretta di un disequilibrio politico e strategico subregionale, dove la diversità degli interessi economici dei paesi industrializzati ingenera il rallentamento nello sviluppo di alcuni quadranti con minore capacità produttiva. L’interrelazione fra tali evidenze è all’origine di tensioni e conflittualità, che sono la causa stessa dell’instabilità dell’intero quadrante, come per le regioni caucasiche e, più in generale, dell’area ex sovietica.

La pluralità culturale e religiosa è un fattore di profonda tensione fra i paesi del Mediterraneo Allargato, tale da renderne i confini incerti e non ben definiti. Cattolici, ortodossi, israeliti, islamici e copti, tra loro differenziati anche da aspetti socio-culturali e linguistici, hanno dato luogo a conflitti etnico-nazionalistici, conformando nuove identità di Stati Nazione: le guerre arabo-israeliane e il conflitto israeliano-palestinese continuano a causare una forte instabilità geopolitica globale; il problema curdo è stato una spinta per le frizioni in Turchia, Siria ed Iraq; il collasso dell’Unione Sovietica e dell’ideologia comunista in genere, ha prodotto conflitti interni di tipo nazionalistico-religioso nell’Est Europa. Una condizione multipolare insomma, ove si sono verificati un decentramento dei poteri, un allargamento delle relazioni internazionali ed una mutazione delle dinamiche politiche e sociali fra gli Stati. La crisi finanziaria, associata al processo di transizione verso le nuove economie ed i mercati emergenti, ha inciso in modo determinante sull’equilibrio del Mediterraneo Allargato, i cui effetti negativi hanno avuto alcuni focolai di tensione, come il conflitto nella ex Jugoslavia. L’intervento occidentale, sia politico che militare, è riuscito a limitare le conseguenze degli scontri e la destabilizzazione dell’intero Est Europa. Nel Corno d’Africa, al contrario, l’interdipendenza non è stata risolutiva ed ha portato al collasso dei sistemi politici e militari di Etiopia, Somalia ed Eritrea. Nel Vicino Oriente si sono espansi movimenti di matrice religiosa, assumendo un carattere identitario antinazionalista, ma soprattutto anticolonialista, con particolare riferimento alle ingerenze occidentali, tramutandosi in una aggregazione ideologica delle masse malcontente in opposizione ai regimi al potere.

L’esacerbazione dei movimenti antigovernativi di matrice religiosa risiede nella radicalizzazione dell’islamismo, che è stato tramutato in contestazione anticoloniale con un forte carattere identitario, tale da favorire la strategia di destabilizzazione mediante attacchi terroristici, inizialmente volti all’instaurazione di repubbliche islamiche, ma poi concentrati nella lotta contro l’Occidente ed Israele. L’applicazione delle operazioni eversive in paesi non musulmani ha trasformato le fazioni estremistiche in attori non statuali a carattere transnazionale, poiché sono stati capaci di allargare il proprio campo di azione agevolati da estemporanee alleanze con gruppi esterni.

Il Mediterraneo ha subito profonde modificazioni politiche e strategiche in quanto si è reso protagonista delle evoluzioni sociali: il bacino è stato pressoché esclusiva delle forze aeronavali dell’Alleanza Atlantica, le quali hanno influenzato lo sviluppo dei paesi del Vicino Oriente e nordafricani, ma questo concentrò il confronto con il blocco sovietico nel teatro del centro Europa. Gli effetti negativi dell’egemonia della NATO nel Mediterraneo sono identificabili nell’inasprirsi dei rapporti fra gli arabi e gli israeliani, caratterizzati da un costante aumento della conflittualità, e tale atteggiamento ha favorito l’apertura in politica estera da parte del Cremlino a favore dei Paesi “non allineati”. Il Mediterraneo si è, così, tramutato in una nuova area per il confronto bipolare, ove si sovrappongono al precario assetto geopolitico del Grande Medio Oriente il processo di modernizzazione dei sistemi d’arma e l’evoluzione delle dinamiche economiche occidentali. L’instabilità dell’area si è tradotta nello sviluppo di politiche di potenza volte ai programmi militari e di alleanze, intercorrelate fra gli attori statuali, per il controllo dei territori e delle risorse naturali.

In quest’ultimo caso, le rotte marittime si attestano a ruolo fondamentale nelle dinamiche economiche del Mediterraneo Allargato, in quanto sostengono il flusso principale per l’intero sistema mondiale. Il trasporto via mare delle risorse naturali, per il loro volume, rende strategica la mobilità marittima, sia a causa della globalizzazione, sia per l’interdipendenza economica tra gli attori statuali. Le rotte hanno una valenza strategica, tanto da acuire la vulnerabilità dei canali di sbocco al Mediterraneo ai cambiamenti politici degli Stati che li controllano. In effetti, la fluidità del mercato internazionale è strettamente correlata al trasporto dei beni attraverso l’accesso ai passaggi marittimi e questi sono sotto l’egida di paesi dalle condizioni socio-politiche non sempre stabili. Il Canale di Suez, ad esempio, si trova in un’area geopolitica regionale variabile, che non ne garantisce la totale sicurezza, sia per la minaccia asimmetrica del terrorismo, quanto per i conflitti a bassa intensità, ingenerati dalle dispute di palestinesi, beduini e jihadisti contro lo Stato egiziano.

Gli stretti del Bosforo e Dardanelli sono di difficile percorrenza a causa della morfologia che impedisce la corretta visibilità del braccio di mare ed a ciò si aggiungono le restrizioni che a volte impone il governo turco. Queste sono anche a carattere ambientale, in quanto eventuali collisioni fra unità di notevole stazza, potrebbero provocare una catastrofe per l’ecosistema dello stretto. Non solo la visibilità, ma anche le forti correnti contribuiscono a rendere difficile la navigazione ed in caso di incidente gli stretti potrebbero essere chiusi, in particolare quello del Bosforo, il più angusto fra quelli di importanza strategica per lo scambio delle materie prime. L’unico accesso al Mediterraneo che sembra non essere afflitto da variabilità negative nel breve periodo è Gibilterra.

Il controllo delle vie d’acqua rappresenta un elemento destabilizzante per tutta l’area, ma nell’ambito di una transizione geopolitica verso la stabilità multipolare o addirittura apolare i centri di potere si moltiplicherebbero, sino ad acuire l’incapacità dei Grandi a gestire la logica dell’economia e della politica. Il 2014 è stato indicato dagli analisti come il momento di crescita dei cosiddetti BRICS, l’acronimo che unisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica: i nuovi equilibri del pianeta si svilupperanno in uno stadio di fluidità finanziaria, politica e militare.

L’apolarità è definibile come una paralisi del sistema, da addebitare ad una diminuzione generalizzata del potere in tutte le aree, dove nessun paese sarà in grado di regolare le dinamiche politiche, economiche e militari a livello globale: di fatto si genereranno tanti piccoli centri di valore strategico. Nell’attuale situazione mondiale l’area mediterranea concentra i flussi geoeconomici principali dell’economia globale, è il concentrato delle trasformazioni intercontinentali a livello sociale ed incarna le più nette contraddizioni politiche e religiose. Di fatto il comburente per la transizione all’apolarità.

La regione mediterranea è stretta nei conflitti dei principali attori statuari e transnazionali per l’egemonia sullo sfruttamento delle risorse naturali, sul commercio e sul controllo militare. Si sviluppa pertanto un concetto di potenza fluido, ma che al contempo si potrebbe discostare dai normali canoni, dove l’imprevedibilità rappresenterebbe la variabile più spiccata. Fra queste, il cambiamento sistemico delle Nazioni dominanti, nelle quali si verifica una modificazione degli assetti del potere ed a cui fa eco una rideterminazione delle gerarchie globali. L’equilibrio fra le parti è condizione a garanzia della stabilità, dove l’ordine ed i processi di evoluzione economica sono tra loro correlati e connessi. La teoria generale dei sistemi, come enunciato da Ludwig von Bertalanffy, è un concetto formulato per analizzare i processi degli attori sociali nel quadro dei propri contesti ambientali, dunque delle entità tra loro collegate ed interdipendenti, regolate, appunto, da diverse variabili. Infatti, gli attori tradizionali, UE, USA ed Israele, sono affiancati dai BRICS e questi ultimi potrebbero ridisegnare le rotte sulle quali viaggiano il petrolio ed il gas, rimodellando l’equilibrio delle forze ed ingenerando attriti con le potenze regionali quali la Turchia e l’Egitto. Uno scenario futuribile potrebbe essere rappresentato dall’instaurarsi di una combinazione bilanciata, in seguito all’occidentalizzazione della mappa sociale ed economica della regione prodotta dalle rivolte arabe, con una logica relazione di mercato verso gli altri competitori regionali. Il Mediterraneo diverrebbe un luogo dove sperimentare una politica postnazionale, uno studio agevolato dalla centralità geografica e strategica, nel quale convergerebbero gli equilibri economici mondiali. Le principali minacce ad un immaginabile processo di aggregazione sociale risiedono nei nuovi assestamenti geostrategici, nei quali si evidenzia la saldatura fra diverse formazioni jihadiste, che si stanno amalgamando in una struttura ideologica antioccidentale. La minaccia asimmetrica del terrorismo internazionale muove anche ingenti capitali, un flusso di denaro la cui provenienza, in alcuni casi, è statuale ed interpolato da diverse fazioni sovversive, le quali presentano invece un carattere non statuale. La convergenza dei paesi mediterranei potrebbe essere una soluzione per arginare questa prospettiva, agevolando un’azione multilaterale che possa affermare la statualità dei vari movimenti.

Russia ed Iran rappresentano le variabili che, nel medio periodo, potrebbero cambiare gli attuali assetti: il legame fra loro si è già avviato, a partire dal sostentamento del governo di Bashar Al-Assad, ma una comunione di intenti su più ampia scala avrebbe la conseguenza di implementare il flusso commerciale attraverso lo stretto di Hormuz. Tale situazione agevolerebbe pure l’Unione Europea, ma per iniziare fattivamente il processo di collaborazione è necessario che la Russia appiani le contrapposizioni esistenti con i paesi a maggioranza musulmana dell’Asia centrale. Siffatto scenario non corrisponde esattamente alla strategia statunitense e della stessa NATO, la quale tende al controllo della fascia costiera dell’Eurasia, ossia dalla Penisola Iberica, passando per il Vicino Oriente, sino al Golfo Persico. Questa strategia non è di nuova concezione, ma risale già al 1944, quando il geopolitico Nicholas Spykman, nel suo libro The Geography of Peace, sosteneva che coloro i quali controllano il territorio costiero (Rimland), controllano l’Eurasia, e con essa le sorti di tutto il mondo.
Fra le crisi tuttora in atto nel Mediterraneo Allargato riveste una posizione di preminenza l’immigrazione clandestina, dai forti connotati di carattere umanitario: in sette anni hanno perso la vita diecimila migranti, nonostante nell’ultimo periodo l’Operazione Mare Nostrum abbia tentato di regolare e gestire i flussi migratori. La missione di salvataggio è uno dei punti nodali di contrasto tra gli attori europei, poiché la diversità di interesse ingenera una mancanza di cooperazione e di investimenti economici. Il bacino mediterraneo è fortemente presidiato dalle marine dei paesi rivieraschi e non. Un numero notevole di unità di superficie e sommergibili solcano le acque del Mare Nostrum: gli Stati Uniti sono presenti con la VI Flotta, alla quale si contrappone la task force russa che, sebbene numericamente inferiore, rappresenta la volontà del Cremlino di recuperare la credibilità dell’apparato di difesa che subì un pesante contraccolpo con la fine del Patto di Varsavia. A garanzia degli interessi russi nel Mediterraneo, il V Squadrone è stato rafforzato in occasione della crisi siriana e di quella ucraina ed è anche funzionale alla tutela dello sfruttamento del gas naturale cipriota. Altre unità da guerra sono costantemente in navigazione: fra queste, due sommergibili classe Dolphin israeliani dotati di missili nucleari.

Al fine di conquistare una fluidità sociale e politica, l’UE dovrebbe tentare di ergersi a superpotenza, per diventare l’attore principale del Mediterraneo Allargato, una sfida che deve essere accettata dalla nuova classe dirigente europea. Il primo provvedimento potrebbe essere quello di limitare l’ingerenza della NATO, e di conseguenza quella statunitense, per iniziare un viatico che ridisegni il ruolo geostrategico del Vecchio Continente. L’identità del Mediterraneo è stata ben espressa da Hegel: «È il cuore del Vecchio Mondo, è la sua condizione necessaria e la sua vita. Senza di esso sarebbe impossibile rappresentarsi la storia, sarebbe come immaginare l’antica Roma o Atene senza il foro, dove tutti si radunavano».


FRA TURCHIA E RUSSIA FORTE COOPERAZIONE ECONOMICA

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La quinta riunione del Consiglio per la cooperazione di alto livello fra Federazione Russa e Repubblica di Turchia ha visto la presenza di delegazioni effettivamente di primissimo piano.
Ad Ankara si sono infatti ritrovati, nel nuovo palazzo presidenziale, Erdogan e Vladimir Putin, accompagnati da numerosi ministri non solo di competenza legata all’economia.

È però l’economia, in questo momento, a rinsaldare la cooperazione turco-russa. In una fase di grave disaccordo sulla collocazione internazionale – l’asserita comune volontà di combattere i movimenti terroristi non può nascondere l’opposta valutazione della situazione siriana – le ragioni della geopolitica riemergono almeno sul piano dell’interesse economico: nuovi accordi bilaterali (otto) sono stati firmati in campo commerciale, turistico ed energetico, nell’auspicio – formulato da Putin – di addirittura triplicare entro il 2020 il già corposo scambio commerciale tra i due Paesi.

Senza dubbio in contropartita della mancata partecipazione turca alle sanzioni antirusse, Putin ha riconosciuto uno sconto del 6 % sul prezzo del gas naturale, garantendo anche un incremento del flusso di metano diretto in Turchia: quest’ultima è, dopo la Germania, il maggiore acquirente di gas russo.
È stato anche confermato il partenariato fra Ankara e Mosca nella realizzazione della prima centrale nucleare in Turchia.

Putin ha colto l’occasione del vertice di Ankara per annunciare la rinuncia – non è chiaro se temporanea o definitiva – al progetto South Stream, in considerazione del mancato sostegno della UE e della mancata autorizzazione bulgara al passaggio delle condotte (atteggiamento questo evidentemente ispirato dalle istituzioni “europee”).

A spingere per una maggiore cooperazione di rilevanza politica sono stati in effetti i Tatari di Crimea: il loro Consiglio sociale – che comprende circa trecento organizzazioni facenti capo a quell’etnia – ha invitato i Presidenti Putin ed Erdogan a proclamare la Crimea “ponte di amicizia” fra Turchia e Russia, con un messaggio diffuso proprio alla vigilia del vertice. Si tratta di un implicito riconoscimento da parte tatara dell’ingresso – sancito dal referendum popolare – della Crimea nella Federazione Russa, e di un’occasione per Ankara di eliminare un motivo di incomprensione con Mosca (la “questione tatara”) creato ad arte dai potentati occidentali.

I “SUFI” E LA POLITICA

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Articolo originale: http://www.ildiscrimine.com/i-sufi-politica/

Un articolo del giornalista egiziano Ahmed Fouad, tradotto e pubblicato sul sito della rivista Eurasia, ci offre l’occasione per svolgere alcune brevi considerazioni relative al ruolo che le organizzazioni iniziatiche islamiche svolgono – o dovrebbero svolgere – nell’attuale contesto dei Paesi nei quali sono operative.

Tali organizzazioni (in arabo turuq, pl. di tarîqa) si occupano tradizionalmente dello sviluppo spirituale di coloro che non si accontentano della semplice pratica formalistica della religione islamica, ma aspirano ad una realizzazione più profonda, il cui scopo finale – cui peraltro ben pochi possono ambire – è la gnosi (in arabo al-ma‘rifa), la conoscenza metafisica diretta, realizzativa (tahaqquq), non semplicemente mentale o libresca. A livello del popolo minuto simili organizzazioni hanno sempre mantenuto viva una pratica della religione in cui l’elemento primario è, se vogliamo riassumere sinteticamente, una prospettiva di “misericordia”, controbilanciando l’aspetto arido e rigoristico dei giuristi, i quali spesso hanno avuto l’eccessiva pretesa di rappresentare la tradizione islamica nella sua integralità.

Il giornalista di Al-Monitor riferisce le posizioni di certi rappresentanti delle turuq egiziane e rileva, o crede di individuare in alcuni casi, delle similarità fra queste e i famigerati movimenti “islamisti” che spesso riempiono, con la loro esagitata presenza, le cronache di questi ultimi tempi, come i Fratelli Musulmani (estromessi dal governo nell’estate del 2013 grazie all’intervento militare del generale al-Sîsî) e di altri gruppi estremisti genericamente indicati come Salafiti. La caratteristica fondamentale di tutti questi gruppi politici, che hanno assunto l’Islam non già come via di realizzazione spirituale bensì quale semplice ideologia politica, è l’estrema semplificazione dottrinale, in cui la religione viene ridotta ad una serie di norme di comportamento più o meno moralistico, sulla scorta di una“scuola” fondata circa due secoli e mezzo fa nella penisola arabica da Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhâb e nota come “Wahhabismo”. L’unica reale differenza fra i Fratelli Musulmani e i Salafiti è che, mentre questi ultimi predicano (ma di fatto non sempre praticano…) un rigido conservatorismo della lettera, così come definita dal loro “maestro”, i Fratelli Musulmani sono assai più spregiudicati e spesso disposti a travestire il loro reale pensiero dietro camaleontiche divise, che inducono gli osservatori a considerare quella organizzazione politica – a torto – come più moderata. Tuttavia ogni volta che si è presentata l’occasione di conquistare il potere (come nelle elezioni algerine del 1991 o in quelle egiziane del 2012), ovvero di porsi alla testa di qualche sedizione (come quella che ha portato al rovesciamento del presidente libico Mu‘ammar al-Qadhdhâfî o al tentativo di sovversione del governo siriano di Bashshâr al-Assad, come già negli anni ’80 del padre Hâfizh), non hanno certo dissimulato troppo la loro vera natura…

Ebbene le turuq con simili movimenti – che non possono dirsi veramente compatibili nemmeno con gli aspetti più esteriori ed exoterici dell’Islam – non hanno niente a che vedere, stante lo scopo stesso della loro costituzione.

Ciononostante può capitare di imbattersi in alcuni “shuyûkh” (pl. di shaykh, “maestro spirituale”) che mal rappresentando la propria funzione, si lascino trascinare nell’agone politico o, peggio, avallino forze decisamente contrarie agli interessi della società islamica.

Come riferisce il giornalista egiziano:

”l’ordine politico-religioso dei Senussi che ha governato in Libia prima della Rivoluzione [di al-Qadhdhâfî] era duramente criticato per i suoi rapporti con la Gran Bretagna, alla quale il regime [i.e. la monarchia senussita] ha permesso di stabilire basi militari sul territorio libico, in base al trattato del luglio 1953. Il regime ha permesso la stessa cosa anche agli USA in cambio di aiuti economici. Questa tra l’altro fu una delle ragioni che spiegano il progressivo affermarsi della Rivoluzione. I Sufi in Egitto non devono però essere giudicati alla luce dell’esperienza del regime dei Senussi in Libia”.
È evidente che un simile agitarsi di alcune turuq dimostra soltanto la loro decadenza e degenerazione, come ad esempio nel caso della libica Sanûsiyya, oppure – se si deve dare credito a certe voci – delle turuq irachene che si sarebbero alleate con i Salafiti.

Se gli “shuyûkh” di tali organizzazioni possedessero davvero la maestria che loro funzione richiede – non quindi una semplice e formalistica mashyakha (“nomina a maestro”) bensì una effettiva realizzazione – non avrebbero alcun bisogno di agitarsi per influenzare il corso degli eventi (anche politici…).

Possiamo ricordare come il secondo gran maestro della tarîqa shâdhiliyya, Sîdî Abû l-‘Abbâs al-Mursî (m. 1287), di fronte ad un tapino discepolo che lo spingeva a farsi avanti presso il Sultano per chiedere alcuni favori, ebbe a replicargli: «L’importante non è chi esercita il potere temporale. L’importante è chi detiene l’Autorità (spirituale) e conferisce la sovranità temporale: per quanto mi concerne, sono trentasei anni che detengo questa Autorità e conferisco tale sovranità» (riferito da Ibn‘Atâ’ Allâh al-Iskandarî nelle Latâ’if al-minan).

Sarebbe auspicabile che le turuq si occupassero unicamente dei loro uffici, fra i quali non è previsto affatto l’attivismo politico. Il che non vuol dire che qualche rappresentante dell’esoterismo, debitamente autorizzato (cioè investito per alcune sue eccezionali capacità e in maniera aliena da ogni “volontà di potenza”) non possa talvolta svolgere personalmente certe funzioni esteriori, come fu ad esempio il caso dell’Emiro ‘Abd al-Qâdir al-Jazâ’irî (grande sûfî algerino del XIX secolo che si oppose all’occupazione coloniale francese con un guerra di resistenza durata ben diciassette anni), o come è il caso di coloro che sono impegnati nel vero jihâd (“sforzo”), il quale naturalmente nulla ha a che vedere con la sovversione politica ma riguarda semmai, ad esempio, la difesa contro le aggressioni armate (o anche semplicemente “culturali”) che mettano a repentaglio la sicurezza della società islamica.

Il meglio che possano fare le turuq e gli shuyûkh nelle condizioni attuali per rimanere fedeli a se stessi sarebbe favorire (sottilmente…) l’emergere di forze che difendano i valori essenziali dei Princìpi tradizionali, anche (paradossalmente) mediante l’alleanza tacita con quanto all’apparenza sembri più lontano da essi, come certe espressioni politiche “moderne”… Ciò è tanto più vero nel momento in cui il formalismo religioso sclerotizzato sia caduto nelle mani sacrileghe dei nemici di ogni spirito tradizionale.

Tempo fa ci era capitato di rilevare una frase assai profonda dell’attuale grande imâm della moschea dell’Azhar, Ahmad al-Tayyib, che colpiva per la sua sintetica precisione. Rivolgendosi al sedicente shaykh al-Qaradâwî – il quale criticava l’intervento militare contro il malgoverno dei Fratelli Musulmani (dei quali al-Qaradâwî è fra l’altro l’eminenza grigia) – sembra che l’imâm, già Rettore dell’Università sunnita dell’Azhar, abbia ribattuto pressappoco in questi termini: “Il Saggio non è colui che predica il bene e inveisce contro il male, bensì colui che sa estrarre il bene dal male e il male dal bene …“. Un efficace aforisma atto a rappresentare la funzione degli shuyûkh nelle attuali difficili contingenze storiche.

SCREDITARE ORBAN: UN RISCHIO PER L’OCCIDENTE

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L’emergere dei partiti sovranisti in buona parte dei Paesi dell’Unione europea è ormai a tutti gli effetti un dato incontrovertibile e direttamente connesso con la forte crisi economica figlia delle politiche di austerità imposte dai vincoli comunitari. Sui media occidentali comincia a trasparire un certo nervosismo per la vicinanza ideologica di questi movimenti alla Federazione Russa, utilizzata come contraltare al potere euroatlantico.
Ma negli ultimi mesi è cominciato a trasparire anche un nervosismo relativo alla situazione di un Paese centrale per i rapporti di forza nell’area dell’Europa centro-orientale. Il riferimento è all’Ungheria governata dal premier Viktor Orban. L’Ungheria infatti, pur trovandosi all’interno dell’Unione, è legata a doppio filo ai destini della Russia e dell’eventuale soluzione della crisi ucraina. Il perché può facilmente essere individuato nella gestione del progetto del gasdotto South Stream – qualunque ne sia il destino, in questo momento a quanto pare sfortunato – la cui ultimazione avrebbe cessato di fatto la dipendenza della russa Gazprom dalle pipeline ucraine.
Agli inizi di novembre il parlamento ungherese ha infatti approvato un emendamento che potrà consentire la costruzione di una pipeline da parte di un’organizzazione anche in mancanza di autorizzazione. Ciò corrispondeva pienamente alle necessità di South Stream, come ha avuto modo di osservare anche Attila Holoda, ex assistente alla Segreteria di Stato Orban nel 2012.(1)
Csaba Baji, a capo della partecipata statale ungherese Magyar Villamos Művek Zrt, che insieme a Oao Gazprom avrebbe dovuto occuparsi di gestire gli impianti attraverso una joint venture, ha del resto candidamente ammesso che l’obiettivo è quello di terminare le operazioni di costruzione “entro sei mesi”(2).
Tali dichiarazioni d’intento non potevano passare inosservate, così come la sempre più aperta posizione di critica di Orban verso l’Unione Europea, che ha visto il premier dichiarare, nel corso di un intervento pubblico tenuto nello scorso mese di luglio in Romania, la propria intenzione di trasformare l’Ungheria in una “democrazia illiberale” pur restando all’interno della cornice comunitaria. Il senso del termine è stato ampiamento spiegato dal leader magiaro, che ha osservato come le “democrazie liberali” si siano dimostrate un fallimento sul piano socio-economico, citando invece Russia, Turchia e Cina come esempi di successo basati su un modello privilegiante interessi nazionali.
L’allontanamento del Governo Orban dalla sfera d’influenza occidentale è evidente anche nel suo appoggio alla commissione parlamentare che dovrà occuparsi di monitorare le ONG riceventi fondi da Paesi esteri. “Noi in questo caso – ha dichiarato Orban – non abbiamo a che fare con esponenti della società civile, ma con attivisti politici pagati che cercano di favorire interessi stranieri”(3). Una soluzione questa già adottata dalla Russia di Putin nel 2012.
Nonostante tutto questo però questa innegabile vicinanza valoriale e di interessi non deve certo essere interpretata come supina sudditanza. Lo stesso Orban è infatti sceso in campo personalmente per difendere l’indipendenza delle proprie scelte da qualsiasi condizionamento esterno e anzi rivendicando l’importanza della presenza di uno stato come l’Ucraina tra i confini ungheresi e quelli russi (4).
Dichiarazioni di questo tipo sono destinate a porre in evidente imbarazzo il blocco euroatlantico che del resto non avrebbe vita facile a sostenere anche solo mediaticamente un’opposizione interna. Alle ultime elezioni politiche di aprile 2014 infatti la coalizione Fidezs-KNP di Orban ha rivinto con il 44,54% delle preferenze, quasi 20 punti percentuali in più della coalizione di centrosinistra “Unity”, scioltasi però subito dopo il voto lasciando il ruolo di maggior oppositore al partito nazionalista Jobbik (20,54%), il quale peraltro e a differenza di Orban ha più volte manifestato posizioni decisamente filorusse e antieuropeiste come ad esempio la volontà di aderire all’Unione Eurasiatica (5).
A ciò vanno aggiunti i dati economici che vedono una progressiva diminuzione della disoccupazione (che in tempi di piena crisi finanziaria globale è passato dall’11,4% di maggio 2010 al 7,9% di Maggio 2014) a fronte della politica di “workfare” del Governo, volta a un sempre più incisivo intervento pubblico nell’economia per favorire l’accesso al mercato del lavoro.(6)
Tali dati mostrano come l’Ungheria di Orban possa si rappresentare un inquilino scomodo per il “condominio” di Bruxelles, ma come la sua posizione sia però forte di dati macroeconomici e consenso popolare tali da sconsigliare qualsiasi manovra di screditamento, che non farebbe del resto che favorire i consensi di formazioni potenzialmente ancor più restie a collaborare con gli organi comunitari.

NOTE
1. http://www.bloomberg.com/news/2014-11-03/hungary-opens-the-way-for-south-sream-as-orban-defies-eu.html
2. http://www.napi.hu/magyar_gazdasag/magyarorszagon_tarolhatjak_mas_allamok_foldgaztartalekat.588676.html
3. http://www.bloomberg.com/news/2014-07-28/orban-says-he-seeks-to-end-liberal-democracy-in-hungary.html
4. http://www.politics.hu/20141106/orban-hungary-under-us-pressure-due-to-south-stream-paks/
5. http://www.foreignaffairs.com/articles/141067/mitchell-a-orenstein/putins-western-allies
6. http://www.eastjournal.net/ungheria-workfare-allungherese-un-modello-di-successo/45044

LA GUERRA DEL GREGGIO

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L’attuale “guerra del greggio” non può essere spiegata unicamente col ricorso all’armamentario di ragioni economiche sull’andamento dei mercati petroliferi mondiali. Se è vero che a guidare la caduta del prezzo del petrolio degli ultimi mesi esistono una serie di ragioni legate al rallentamento dell’economia mondiale (di Europa e Cina), all’aumento dell’offerta mondiale (con l’entrata in scena di nuovi produttori nord-americani) e al calo della domanda mondiale di greggio (1), esistono anche motivazioni più strettamente politiche che ne spiegano, altrettanto chiaramente, la repentina discesa.

Il tentativo di motivare il calo del prezzo del greggio con il ricorso all’ipotesi della “guerra per l’autosufficienza produttiva” degli USA, pur non privo di ragioni fondate (come quella della volontà dei Sauditi di costringere gli USA alla dipendenza dai paesi del Golfo), non chiarisce la dinamica degli schieramenti in ballo e degli interessi in gioco nella guerra dei prezzi. (2)
Quasi mai i giornali ricordano i legami strategici strettissimi, sebbene talvolta ambigui, tra Stati Uniti e Arabia Saudita, e omettono di contestualizzare la guerra a colpi di sanzioni che oppone gli USA ad altri produttori OPEC, Iran e Russia in ispecie, i cui proventi energetici contano rispettivamente per il 60 % e il 50 % sul bilancio pubblico.

Se è giusto far notare che chi ha dato avvio alla guerra dei prezzi è stata l’Arabia Saudita, è anche opportuno sottolineare che essa non conta soltanto, inducendo un crollo generale dei prezzi, di contrastare le società di produzione concorrenti americane (che necessitano di alti prezzi per compensare gli alti costi di estrazione dello scisto bituminoso e del gas da argille), accelerando l’esplosione della bolla di indebitamento delle piccole società di fracking (3 ) e rendendo più conveniente il petrolio dei paesi OPEC rispetto a quello americano(4), ma anche di mettere in ambascia, e non poco, i gestori delle finanze russe, iraniane e venezuelane, che si basano sugli introiti delle commodities per sostenere le proprie valute e i bilanci dei propri stati.
L’OPEC, sulla cui decisione ha influito l’Arabia Saudita, ha definito nei giorni scorsi di non concertare un taglio di produzione del petrolio (5), costringendo gli altri paesi esportatori a vendere gli stessi quantitativi di oro nero pre-crisi, a listini decisamente inferiori alla norma, in pratica obbligando a una svendita a prezzi di sconto del 30-40% rispetto ad alcuni mesi prima. Il costo del Brent è giunto infatti a meno di 70 dollari al barile e potrebbe toccare ulteriori ribassi.

Le finanze di molti esportatori di materie prime facenti parte dell’OPEC (Iran, Iraq, Venezuela, Nigeria) o fuori di esso (Russia e Messico), legate alle entrate fiscali del greggio, ne risentono pesantemente, trasferendo effetti economici negativi su scala internazionale.
La Russia, il cui export dipende dagli idrocarburi per il 70% del totale, ha conosciuto negli ultimi mesi una caduta rovinosa del valore del rublo (che ha perso circa metà del suo valore quest’anno rispetto al dollaro, registrando il peggior crollo dal default del 1998) e sta subendo inoltre tutte le altre conseguenze economiche negative del crollo del greggio (e delle sanzioni economiche).

A livello di finanza pubblica i rischi sono: aumento del deficit, depauperamento delle pur abbondanti riserve di moneta estera (un quinto del totale fin ora, pari a 90 miliardi in dollari e euro) e abbandono della banda di oscillazione della moneta a favore della libera fluttuazione (Putin ha recentemente ordinato alla Banca centrale di difendere a tutti i costi il cambio(6) ), che se in futuro potrebbe emancipare la moneta russa dal cambio col dollaro, al tempo stesso apre al pericolo di svalutazione (e inflazione) e espone al rischio di speculazioni internazionali sul corso della moneta. (7) (8) Sul piano economico reale la fuoriuscita di capitali esteri (conseguenza dei disinvestimenti post-sanzioni), la già accennata inflazione (ora sopra l’8%) e l’aumento del costo della vita determinano un peggioramento delle condizioni economiche dei cittadini.

Di fronte a questo scenario il rischio di una chiusura ulteriore di Mosca, a fortiori nel contesto del regime di sanzioni, e di un suo isolamento dai mercati finanziari globali diventa realistico. (9) Si sta prendendo in considerazione l’ipotesi di porre limiti alla circolazione dei capitali, con alcune banche russe che hanno già limitato il ritiro di euro e dollari (10). La situazione della crescita economica, inoltre, potrebbe risultarne danneggiata, ma anche gratificata. Mosca rischia di cadere in recessione e il rialzo del tasso di interesse per frenare la svalutazione non fa che aggravare le prospettive di crescita. Le aspettative di inflazione delle imprese, la svalutazione della moneta nazionale e la sostituzione delle importazioni con manufatti locali potrebbero invece stimolare una crescita dell’industria. (11)

Se il debito estero russo può risultare avvantaggiato dalla ridenominazione in rubli, non lo stesso può dirsi per quello estero delle imprese (debito privato) che, denominato in valuta estera, risulta più difficile da ripagare, a causa della pesante svalutazione del rublo e dei più alti interessi in dollari.
I Sauditi, insomma, potendo permettersi una caduta dei prezzi a fronte dei bassissimi costi di estrazione e delle ingenti riserve di valuta pregiata (con un prezzo di riferimento del greggio rispetto al bilancio pubblico che è fissato a 45 dollari contro quello a 140 dell’Iran, a 120 del Venezuela o a 100 della Russia (12) ), sfidano direttamente quei paesi le cui economie dipendono fortemente dall’esportazione di idrocarburi. Questi ultimi si identificano con quelli che sono i paesi nemici nelle sfide geopolitiche coeve. Guarda caso proprio Iran, Iraq e Russia, che hanno spinto (con Venezuela e Iran in testa), in occasione dello scorso vertice di Vienna, per una riduzione dei livelli di produzione tentando di convincere Riad a frenare la discesa dei prezzi (13).
Bisognerebbe portare la memoria indietro ai fatti dei primi anni novanta, all’epoca della prima guerra del Golfo, per capire come una politica di manipolazione dei costi del petrolio contraria agli interessi di alcuni paesi risulti fortemente rischiosa sul piano politico internazionale. Nell’estate del 1990 l’Iraq di Saddam Hussein, diventato insolvente a causa dell’azzeramento del costo del petrolio, invase il Kuwait per appropriarsi dei suoi giacimenti di greggio.

È chiaro quindi che l’Arabia Saudita, assieme ad altri paesi del Golfo, al fine di contrastare il binomio sciita Iran-Iraq, da un lato contribuisca a minare le finanze dei due paesi indebolendone il mercato petrolifero (agendo sulla leva dei prezzi), mentre in secondo luogo si adoperi sottotraccia nel sostegno ai terroristi dello Stato Islamico per abbattere il regime alawita di Al-Assad, storico alleato di Iran e Russia. (14)L’Iran, per non vedere erose quote di mercato, per il momento si allinea ai Sauditi nell’accettare un livello invariato di produzione. Su questa scelta pesa la situazione di incertezza internazionale e il basso profilo attuale della diplomazia iraniana, a cui si somma l’arenamento dell’accordo, lungi però dall’essere concluso, sul programma nucleare. (15)

NOTE
(1) http://www.lavoce.info/archives/31763/prezzo-petrolio-non-decide-lopec/
(2) http://www.tgla7.it/economia/sinfiamma-la-guerra-economico-finanziaria-sul-petrolio-29-11-2014-89430
(3) http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-11-12/crollo-petrolio-e-debito-spazzatura-bolla-shale-oil-rischia-esplodere-210140.shtml?uuid=ABameCDC
(4) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-12-02/petrolio-crollo-prezzi-raffinerie-asiatiche-sospendono-l-import-usa–111001.shtml?uuid=
(5) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-27/petrolio-l-opec-manteniamo-ferma-produzione-prezzo-greggio-ancora-picco–211001.shtml?uuid=ABGHO4IC
(6) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-12-04/putin-la-russia-non-fara-fine-jugoslavia-101621.shtml?uuid=ABgHdwLC&fromSearch
(7) http://www.ft.com/intl/cms/s/0/4bb50fcc-7937-11e4-9567-00144feabdc0.html#axzz3KeI0l3rk
(8) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-24/la-nuova-era-glaciale-russa-missione-impossibile-elvira-nabiullina-175810.shtml?uuid=ABLSPZHC&nmll=2707#navigation
(9) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-27/petrolio-giu-rublo-polverizzato-e-fuga-capitali-mosca-ecco-fino-dove-puo-cadere-moneta-russa-202449.shtml
(10) http://www.telegraph.co.uk/finance/economics/11266746/Capital-controls-feared-as-Russian-rouble-collapses.html
(11) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-12-01/rublo-senza-tregua-e-peggior-crollo-crisi-finanziaria-1998-121806.shtml?uuid=ABUHvFKC
(12) http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-12-01/iran-182546.shtml?uuid=ABYvHTKC&nmll=2707
(13) http://www.ilfoglio.it/articoli/v/123306/rubriche/arabia-saudita/petrolio-opec-lascia-la-produzione-immutata-e-tenta-lo-sgambetto-al-greggio-americano.htm
(14) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-28/la-guerra-greggio-063721.shtml?uuid=ABp52AJC
(15) http://www.lastampa.it/2014/11/24/esteri/nucleare-iraniano-si-cerca-ancora-un-accordo-nuovi-colloqui-a-vienna-con-i-leader-del-2ZjNd2qwtxZwDxz8fZALFM/pagina.html

AZ ISTENI EGYSÉG ES A NEM-DUALITÁS AZ ÓGÖRÖG TRADÍCIÓ SZERINT (Első rész)

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Az istenek és az Egy

René Guénon szerint “az Egység doktrínája, vagyis annak tételezése, hogy minden létezés Princípiuma lényegileg egyetlen, minden ortodox tradícióban közös fundamentális pont”.(1) Más szóval, még mindig Guénon szerint, “bármely valódi tradíció lényegileg monoteista; egy pontosabb nyelvezetet használva, minden tradíció mindenekelőtt a Legfelsőbb Princípium egységét tételezi, amelyből minden származik és amelytől minden teljességében függ; ez a tétel, azon kifejezési formában amelyet különösen a vallási formákban kap, alkotja a valódi értelemben vett monoteizmust”.(2)

Elfogadva ezeket a feltételeket, nem létezhet semmilyen autentikus tradicionális forma, amely valóban politeisztikus, vagyis amely megengedi a teljesen függetlennek tekintett princípiumok pluralitását. Maga Guénon állítja, hogy a politeizmus “az ezen tradicionális igazságok meg nem értésének következménye, egészen pontosan azon igazságoké, amelyek az isteni aspektusokra avagy attribútumokra vonatkoznak“(3); és így folytatja: “egy efféle meg nem értés mindig lehetséges elszigetelt egyének többé-kevésbé számos csoportjai körében, ám ennek általánossá válása, ami egyenértékű egy eltűnése előtt álló tradicionális forma szélsőségesen degenerált állapotával, kétségtelenül sokkal ritkább, mint azt szokásosan hiszik“.(4)

Ezen a ponton tehetjük fel a következő kérdést: ha egy tradicionális forma legitimitását szorosan meghatározza az Egységgel való koherenciája, akkor mennyire érvényesek az európai ókori világ tradicionális formái, amelyek általában az istenek sokaságát tárják elénk?
Mivel e helyütt nem tudom megvizsgálni ezt a kérdéskört az egyes tradicionális kultúrák változatainak viszonylatában, csak a görög civilizációt fogom áttekinteni, amely tipikus esetet képez az istenalakok sokaságának viszonylatában.

Közismert, hogy a politeisztikus szemléletet felülmúlja az a filozófiai gondolatrendszer, amely a preszokratikusoknál egy egységes arché kereséséből indul ki és egy causa causarum megtalálásában csúcsosodik ki, amelyet Platón Legfelsőbb Jónak, Arisztotelész Mozdulatlan Mozgatónak, a sztoikusok Logosnak neveznek. A latin kultúrában Cicero úgy definiálja ezt az elsődleges Okot “a legfelsőbb Isten, amely az egész világot tartja”. (5)

Mindazonáltal Görögországban az isteni Egység tételezése a filozófiaitól eltérő körökben is megtalálható. Az Íliászban az Olümposz összes istene és istennője szerepel, akik gyakran harcban állnak egymással, mert némelyikük az akhájok, mások viszont a trójaiak oldalán áll; mindazonáltal magában az Íliászban is vannak olyan epizódok, amelyek olyan vallási szemléletet mutatnak, amelyben az isteni alakok sokasága egy felsőbb és transzcendens, egységes princípumra van visszavezetve [ahhoz kapcsolódik].
Így például a VIII könyvben található egy olyan passzus, amely a minket érdeklő témára vonatkozó legősibb görög tanúbizonyságot képezi.
A következő epizódról van szó: Zeusz összehívja az isteneket az Olümposz legmagasabb csúcsára és ünnepélyesen kihirdeti, hogy tilos részt venni a csatában, és hogy ezen tilalomnak mindannyiuknak engedelmeskedniük kell. Először is szörnyű megtorlással fenyegeti azt, aki esetleg megszegi a tilalmat (vagyis hogy az illetőt a Tartarosz mélyére vetik), majd kihívást tesz, amellyel nyilvánvalóvá kívánja tenni saját cáfolhatatlan felsőbbrendűségét az összes istenhez képest:

” Rajta, no, próbáljátok meg, lássátok is együtt,
egy nagy aranyláncot függesszetek itt le az égről,
istenek, istennők, s mind csimpaszkodjatok abba:
s még így sem húzhatjátok le a földre az égből
Zeusz legfőbb hadurat, bármíly hosszan huzakodtok:
míg azután, ha magam vágynálak húzni magasba,
fölhúználak a földdel is én, tengerrel is együtt:
és az Olümposz csúcsa köré kötném ama láncot,
és az egész mindenség fönt csünghetne a légben.
Ennyire több vagyok én az isteneknél s az emberi népnél.”(6)

Zeusz hatalmának felsőbbrendűsége azon hatalom felett, amellyel az összes istenek együttesen rendelkeznek, szimbolizálja az isteni entitások sokaságának esszenciális semmisségét az Egyetlen Princípiummal szemben.
Ám ez még nem minden: még Zeusz hatalmát is, amely pedig felsőbbrendű a többi isten hatalmának viszonylatában, korlátozza a Moirák hajlíthatatlan akarata.
Zeusz, a személyes isten alárendeltsége ezen személytelen akarattal szemben világosan kiderül az Íliász azon passzusaiból, ahol ahhoz, hogy a Moirák rendelkezését megtudja, az istenek és emberek Atyjának egy kozmikus mérleg segítségével kell megmérnie a csatázók sorsát. A legnyilvánvalóbb passzusok a VIII könyv 69-75. versében és a XXII könyv 209-től kezdődő verseiben találhatóak: az elsőben a harcoló trójaiak és akhájok kollektív sorsát mérik meg, a másodikban Akhilleusz és Hektor egyéni sorsát. A második passzusból idézek:

“Akkor az Atya az arany mérleghez nyúlt, s a magasba emelte
s hosszuranyujtó vég két sorsát tette be abba:
lószelídítő Hektórét meg Akhilleuszét, s tartotta közepén
ő maga: és Hektór végzet-teli napja lesűllyedt
Hádész háza felé; elhagyta őt azonnal Phoibosz Apollón.”(7)

Apollón Hektort sorsára hagyja, Athéné közli Akhilleusszal, hogy a győzelem az övé lesz, Zeusz lemond minden olyan szándékáról, amellyel Hektort megmenthetné a haláltól. Az összes isten engedelmeskedik egy felettük álló isteni erő akaratának.
Zeusz felsőrendű hatalmának tételezését találjuk Aiszkhülosz Agamemnónjában is, ahol a tizenkét öregből álló Kórus, miután felidézte a Priamosz városa elleni hadjárat kezdetét, fennkölt himnuszt énekel:
“Zeusz! mert bárki légyen ő, e név
hogyha kedves őneki,
ajkam ezzel illeti;
más olyanra nem lelek,
bárhová is fordulok,
kívüle, hogyha hiú terehét a szivemnek
kell lerázni biztosan.“(8)

Ezen passzus arra utal, hogy Khalkász jövendölése szerint hatalmas lesz majd Artemisz haragja az Atreidészekkel szemben, és a Kórus szerint az ezen jövendölés miatti aggodalomtól csak úgy lehet megszabadulni, ha Zeuszhoz és kizárólag Zeuszhoz fordulnak, mert nincs senki és semmi, aki egyenlő volna vele.
A sztoikusok a Zeusz nevet használják a minden létezőt alakító és számukra lelket és életet adó Logos megnevezésére. A sztoikus vallásosság kifejeződése az asszoszi Kleantész által írt Himnusz Zeuszhoz, amely úgy indul, hogy Zeuszt úgy énekli meg, mint eredetét és urát mindannak, ami létezik: “Mindenség ura, legfőbb Legdicsőségesebb úr a halhatatlanok közt, soknevű isten, mindig mindenható Zeusz, a Természet princípiuma, ki mindent törvénnyel kormányzol, üdvözlégy!“(9)

Max Pohlenz írja erről, hogy amint a filozófus-költő “invokálja a ‘soknevű’ Zeuszt, a hívek meghallják-megérzik, hogy Zeusz, Logos, Physis, Pronoia, Heirmamenész nem mások, mint az egyetlen univerzális istenség különböző nevei”.(10)
A szoloi-i Arátosz (Kr. e. 320-250), Phainomena című művének fennkölt kezdő soraiban szintén Zeusznak nevezi a kozmikus megnyilvánulás princípiumát, amelyet a világ minden sarkában mindig jelenlevő szellemként fog fel:

“Kezdjük Zeusszal! Mivel halandók vagyunk, nem mulaszthatjuk el,
hogy őt hívjuk. Vele van telve az emberek minden útja,
minden tere, vele van telve a tenger és a kikötők;
Zeuszhoz fordulunk mindannyian, minden körülmények között”.(11)

Plutarkhosz viszont az isteni egység és egyedülvalóság szimbolizálása végett nem Zeusz alakjához fordul, hanem Apollónéhoz. A delphoi-i E-ről szóló dialógusban —amelyben az Apollón delphoi templomának bejáratán szereplő E (epszilon) betű értelmezési lehetőségeit sorolják fel— a végső magyarázatot Ammón, Plütarkhosz mestere adja meg. Ammón szerint az E betű, mivel eî-nek kell kiolvasni, megegyezik az eimíjelen idejű, egyes szám második személyű alakjával, tehát azt jelenti, hogy “(te) vagy”. Így tehát a “Te vagy”, azon istennek kimondva, aki arra buzdítja az embert, hogy ismerje meg önmagát (pontosan a gnôthi seautòn felirat volt bevésve a delphoi-i szentély homlokzatára), isten Létként való felismerését jelenti.

“Amikor tehát hódolunk neki, akkor hozzá kell fordulni és így üdvözölni őt: “te vagy”, vagy pedig, Zeuszra, úgy szólni hozzá: “Egy vagy”. Az isteni nem pluralitás, mint mi mindannyian, akik tízezer ellentétes szenvedélyből vagyunk, sokalakú halmazként, büszke keverékként. A Lét viszont szükségszerűen Egy, ahogyan az Egy szükségszerűen Lét. (….) Így hát megfelel az istennek az Ő első neve, ahogyan a második és a harmadik is. Ez pedig Apóllon, mert kizárja a pluralitást és tagadja a sokféleséget; Hieîos, amennyiben Egy és Egyetlen; Phoîbos, mert így hívták a régiek —igaz?— mindazt, ami tiszta és szennyezetlen”. (12)

Azon hermeneutikai eljárás szerint, amely az adott szót alkotó elemek szimbolikus értékén alapul, az Apóllon nevet úgy lehet értelmezni, hogy a fosztóképző a-ból és a ‘sok’ jelentésű polýs, pollé, polý szóból tevődik össze, tehát jelentése: ‘sokféleség nélküli’. A Hieîos a heîs, ‘egy’ jelentésű szóval áll kapcsolatban. Phoîbos, amely etimológiailag a fáos, ‘fény’ szóhóz kapcsolódik, ‘fénylőt’, ’tisztát’, tehát ‘nem kevertet’ jelent. Apollón isteni Személye tehát az egyetemes megnyilvánulás egy és egyetlen princípiumának szimóluma, Legfelsőbb Önmaga mindennek, ami létezik.
Plutarkhosz nyomán apameiai Numéniusz (II. század) úgy értelmezi Apollón Délphios jelzőjét, hogy az egy ősi görög szó, amelynek jelentése ‘egyetlen és egyedülvaló’. (13)

A “szoláris monoteizmus”

Abban a “szoláris monoteizmusban”, amely Aurelianusszal (Kr.u. 274) a Római Birodalom hivatalos vallásává válik, Apollón alaját Héliosszal azonosítják, akinek latin neve, Sol, jelentőségteljesen visszahangzik a solus, ‘egyetlen’ melléknévben. Konstantin idejében a szoláris isten alakjai — Apollón és Sol Invictus — megtalálhatóak a pénzérméken és a diadalív domborművein.
Köztudott, hogy a szoláris monoteizmus Római Birodalombeli elterjedében meghatározó szerepe volt a Földközi-tenger keleti részén, főként Szíriában élő népek körében már nagyon elterjedt szoláris kultusznak. Miután megtisztították a római szellemiség számára elfogadhatatlan aspektusaitól, az úgynevezett “Emesai szoláris isten” kultusza, amely az iszlám előtt Arab-félsziget nomád népei között született, római állami kultusszá vált, és a Napistent Kapitóliumi Jupiterrel és Apollónnal azonosították. Ez a tény —amelyet Guénon nevezhetett volna “Kelet gondviselésszerű beavatkozásának” Róma érdekében— azon oknál fogva történhetett meg, hogz a késő-ókori szoláris kultusz egy közös primordiális örökség újrafelbukkanását jelentette. És pontosan Guénont érdemes idézni a szoláris szimbolizmus jelentése vonatkozásában:

“A nap úgy jelenik meg (….), mint az Egy Princípium (Allâhu Ahad) par excellence szimbóluma: a szükségszerű Lét, amely egyedül elégséges saját Magának a Maga abszolút teljességében (Allâhu es-Samad), és amelytől teljességében függ minden dolog léte és fennmaradása, amelyek Őnélküle semmik nem lennének. A “monoteizmus” — már ha ezzel a szóval lehet fordítani az ‘Et-Tawhîd’-ot, annak ellenére, hogy kissé leszűkíti jelentését, mivel szinte kizárólagosan egy vallásos szemszögre utal— lényegében “szoláris” jellegű. (….) Nem lehetne igazabb képet találni az Egységről, mint azt, hogy kibontakozik a sokféleségben anélkül, hogy megszűnne önmaga lenni és hogy a sokféleség hatna rá, és hogy ezt a sokféleséget visszavezeti önmagához —legalábbis a látszat szerint—, hiszen ez a sokféleség valójában soha nem létezett, mivel semmi nem létezik a Princípiumon kívül, amelyhez semmit nem lehet hozzáadni és amelyből semmit nem lehet elvenni, mivel az Egyetlen Létezés oszthatatlan teljességét jelképezi.“ (14)

Az úgynevezett “szoláris monoteizmus” doktrínája —amely szerint Helios a Princípium hiposztázisa, miközben a számos görög-római istenség panteonja csak az ő specifikus és részleges aspektusait jelenti — Flavius Claudius Julianus császár Helios Istenhez (Eis tòn basiléa Hélion) írt himnuszában kerül kifejezésre. Az alapvető hivatkozási pont itt Platón. Julianus a Politeía-ból idéz egy szakaszt (508B-C), amelyből kiderül, hogy a Nap (Hélios) az az érzékvilágban (aisthetós) és a látható világban (oratós), ami a Legfelsőbb Jó, a lét transzcendens forrása, az intelligibilis világban (noetós); más szóval a nappali csillag nem más, mint annak a metafizikai Napnak a tükröződése, amely megvilágítja és megtermékenyíti az archetipikus esszenciák világát, a platóni “ideákat”.
Evolával szólva pedig “Helios a Nap, nem mint megistenített fizikai csillag, hanem mint a metafiyikai fény és egy transzcendens értelemben vett hatalom szimbóluma”. (15)

Ám a tiszta Lét intelligibilis világa és a korporális formák fizikai látással és más érzékszervekkel érzékelhető világa között van egy harmadik világ, amelyet “intellektuálisnak” (noeròs) vagyis intelligenciával bírónak neveznek.
Röviden emlékeztetnék arra, hogy Mahmûd Qotboddîn Shirâzî perzsa filozófus (1237-1311) így foglalja össze a három világról szóló tanítást, hogy azt mondja: Platón és az ókori Görögország többi bölcse “egy kettős univerzum létezését vallották: az egyik oldalról a tiszta, érzékfeletti univerzumét, amely magában foglalja az Istenség világát és az angyali Intelligenciákét, a másik oldalról a materiális formákét, vagyis az égi Szférákét és az Elemekét; és eme két világ között van az autonóm imaginális Formák világa”.(16)
Ezen közbülső világ középpontjában, mint a Legfőbb Princípium hiposztázisa (“az Egy fia”), Helios közvetítő, összehangoló és egyesítő feladatot lát el az intellektuális és demiurgikus okok viszonylatában, miközen részt vesz mind a transzcendens Princípium egységében, mind a jelenségvilág megnyilvánulásának esetleges sokféleségében.

Eme pozíciója tehát az elképzelhető legcentrálisabb, és indokolja a neki elismert Király címet. Teológiai fogalmakkal: mindegyik isten Helios fényétől függ, aki viszont az egyetlen, aki nincs alávetve Zeusz kényszerítő szükségszerűségének (anánke), akivel valójában azonosul.
Henry Corbin nyomán, aki az “úgynevezett késő-újplatonistákat (tehát Julianus császárt is) a koránban szereplő Könyv Népei közé sorolja,(17) egy olasz tudós azt javasolta, hogy Helios “egyenértékű azzal, amit az iszlámban an-nûr min ‘amri-llâh-nak, ‘az isteni parancsból fakadó fénynek’ neveznek”, így a szoláris istenség “nem más, mint azon “fények fülkéje”, amelyből (…) minden tudást merítünk”. (18)
Julianus később tárgyalja Helios hatalmait (dynámeiai) és erőit (enérgeiai), vagyis a három világgal kapcsolatos potencialitásait és aktivitásait. A himnusz ezen részének legjelentősebb részét (143b-152a) az képezi, amikor az istenek sokféleségét megpróbálja visszavezetni a pontosan Helios által képviselt principiális Egységhez oly módon, hogy a különféle isteni alakok az ő aspektusaiként jelennek meg, vagyis az ő megszámlálhatatlan minőségeinek megfelelő nevekként.

Ezzel analóg doktrínát egyébként Diogenész Laertiosz fogalmazott meg, aki Zeuszt, Athénét, Hérát, Hephaisztoszt, Poszeidónt és Demetrát az egyetlen Isten “hatalmi módjainak” megfelelő nevekként értelmezte. (19)
Heliosba árad tehát Zeusz demiurgoszi ereje; egyébiránt nincs valódi különbség kettőjük között.
Athéné Pronoia a maga egészében Helios teljességéből származik; mivel ő Helios tökéletes intelligenciája, ő egyesíti a Heliost körülvevő isteneket és hozza létre az egyesülést Heliosszal.
Afrodité az égi istenek összhangját jelenti, azt a szeretetet és harmóniát, amely lényegi egységüket jellemzi.
De mivel egyesíti magában a legharmónikusabb intellektuális szintézis princípiumait, Heliost mindenekelőtt Apollónnal azonosítják, aki —tekintve, hogy olyan fundamentális kvalitásokat birtokol, mint a változhatatlanság, tökéletesség, öröklétűség, intellektuális kiválóság— azon isteni egység megszemélyesítője, amely tiszta és abszolút intelligenciaként jut kifejeződésre.
A Himnusz utolsó része felsorolja azokat az ajándékokat és javakat, amelyeket Helios ad az emberi nemnek, amely belőle származik és amelyet ő tart fenn.
Dionüszosz apjaként és a Múzsák uraként Helios adományoz az embereknek minden bölcsességet; Apollón, Asclepiosz, Afrodité és Athéné ihletőjeként ő a közösség törvényhozója; végük pedig ő, Helios, Róma valódi alapítója és védője.

Julianus tehát ezen istenhez, halhatatlan lelkének teremtőjéhez fordul azzal a kéréssel, hogy biztosítson a Városnak ishasonlóan halhatatlan létezést, meghatározva ezzel “nem csak saját személyes küldetését a földön, hanem szellemi üdvözülését is a Birodalom felvirágzásával együtt”. (20) A gondolatmenet egy utolsó, Helioshoz szóló imával zárul (amely a Himnuszban a harmadik): hogy az univerzum Királya kegyesen biztosítson odaadó hívének erényes életet, tökéletesebb tudást, és hogy a végső órában felemelkedhessen Őhozzá.
Julianus annak a Szalusztiosznak ajánlja a Helios Királyhoz szóló Himnuszt, aki az Istenekről és a világról szóló rövid tanulmányban az Egységet az alábbiak szerint fogalmazza meg: “Az első ok úgy megfelelő, hogy egy legyen, mivel az egység megelőzi a sokságot és mindent felülmúl hatalomban és jóságban; emiatt szükséges, hogy minden részesüljön belőle, hiszen semmi más nem fogja akadályozni, mivel hatalma van, és nem fogja elpusztítani, mivel jósága van”(21).
Egy történelmi keretben tekintve, Julianus szoláris teológiája az újplatonizmus érett szakaszába tartozik, amelyben ennek a spritiuális áramlatnak a doktrinális sarkalatos pontjai már véglegesen rögzültek és megszilárdultak.

Míg az iskola alapítója, Plótinosz (204-270), felismerte az Egyben a lét princípiumát és az egyetemes possibilitás centrumát, addig utódja, Tiroszi Porfiriosz (233-305) egy A Napról szóló tanulmányban foglalkozott a szoláris teológiával, amely azonban elveszett. (22) Egy idézet maradt fenn belőle a Saturnaliaban, ahol is Macrobius, miután a szoláris princípiummal hozza kapcsolatba Apollónt, Libert, Marsot, Merkúrt, Szaturnuszt és Jupitert, azt mondja, hogy Porfiriosz szerint “Minerva a Nap ereje, ami elővigyázatosságot/bölcsességet [prudentia] ad az emberek elméjének”. (23)

Az orákulumok filozófiájáról szóló tanulmányában egyébiránt Porfiriosz idézett egy apollóni választ, amely szerint csak egy isten van, Aión (“öröklét”), a többi istenek pedig nem mások, mint az ő angyalai. (24)
Julianus után a “szoláris” tradíció Prokloszig (410-485) követhető, aki szerzője többek között egy Himnusz Helioshoz-nak, amelyben Heliost úgy invokálja, mint “az intellektuális tűz királyát” (pyròs noeroû basileû, v. 1) és “a minden dolgokat teremtő isten képmását” (eikôn pangenétao theoû, v. 34), vagyis mint a Legfelsőbb Isten epifániáját. (25)
Ami a vallás isteneinek sokaságát illeti, Proklosz ezt úgy oldja meg, hogy az Egyre vezeti vissza őket; az Egy pedig Isten, mert — mondja ő —, a Jó és az Egy ugyanaz a dolog, és a Jó azonos Istennel (26).
Így lehet megérteni, hogy miért szorgalmazta annyira Henry Corbin az összevetést Proklosz teológiája, a Pseudodionüsziosz doktrínái és Muhyiddin Ibn ‘Arabî tanításai között. Corbin azt írja, hogy nagyon hasznos lenne „egy elmélyült összehasonlítás az isteni Nevek elmélete és azon teofániáké között, amelyek az isteni Urakat jelentik: úgy értem, hogy a párhuzamokról, amelyek az egyik oldalon Ibn ‘Arabî — azon Isten kifejezhetetlen mivolta, aki az Urak Ura, és az isteni Nevek hierarchiája által alkotott sokszoros teofániák—, a másik oldalról pedig Proklosz között vannak — az a hierarchia, amely a henádok [henászok, henádeszek – egységek] henászából ered, és amelyet maguk a henádok nyilvánítanak meg, és amely a lét hierarchiáinak minden fokán keresztül terjed“.(27)

Ám az, amit „a szoláris szinkretizmus Nyugaton található utolsó tanúbizonyságának“ definiáltak (28), a Filológia imája a Naphoz (29), „a késő neoplatonizmus ‘szoláris teológiájának’ figyelemreméltó dokumentuma“ (30), amelyet Martianus Capellának, Proklosz kortársának köszönhetünk. Azért az utolsó tanúbizonyság, mert 531 körül, amikor Damaskiosz (470-544) és a többi neoplatonista Perzsiába menekült, a “szoláris” tradíció léte folytatódott ugyanazokon a helyeken, amelyekből előzőleg a Mithra-kultusz elszármazott, elterjedve egész Európában.
Franz Altheim véleménye szerint a neoplatonikusok által kidolgozott szoláris teológia nem nélkülözte a kapcsolatot az iszlám monoteizmussal sem. “Mohamed üzenete” — írja Altheim — „az egység fogalma köré összpontosult, és kizárta, hogy az istenségnek ‘társa’ lehessen, amivel az őt megelőző és azonos helyről származó neoplatonisták és monofiziták nyomdokába lépett. A Próféta vallási heve képes volt tehát újult erővel felszínre hozni azt, amit őelőtte mások már éreztek és áhítottak“ (31).

Fordította: Dávid Andrea

1 R. Guénon, Aperçus sur l’ésotérisme islamique et le taoïsme, Gallimard, Paris 1973, o. 38.
2 R. Guénon, Monothéisme et angélologie, “Études Traditionnelles”, n. 255, oct.-nov. 1946.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 “Princeps deus, qui omnem mundum regit” (Cicero, Somnium Scipionis, 3).
6 Homerosz, Íliász, VIII, 23-27. (Ezt az idézetet én fordítottam és mindazokat, amelyek ez után kovetkeznek, kivéve Proklosz sorait, amiket Michele Losacco fordításában találjuk meg).
7 Homerosz, Íliász, XXII, 209-213. Claudio Mutti és Devecseri Gábor fordítása alapján.
8 Aiszkhülosz, Agamemnón 160-166, Devecseri Gábor fordítása.
9 Khleantész, Himnusz Zeuszhoz, I, 1-3
10 M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, La Nuova Italia, Firenze 1967, I, o. 218.
11 Arátosz, Phainomena 1-4.
12 Plutarkhosz, De E Apud Delphos 393 b c.
13 “Apóllona Délphion vocant, quod (…), ut Numenio placet, quasi unum et solum. Ait enim prisca Graecorum lingua délphon unum vocari” (Macrobius, Saturnalia, I, 17, 65).
14 R. Guénon, Et-Tawhîd, “Le Voile d’Isis”, juillet 1930.
15 J. Evola, Ricognizioni. Uomini e problemi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974, o. 140.
16 H. Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi, Milano 1986, o. 140.
17 H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, Marietti, Casale Monferrato 1986, o. 70.
18 R. Billi, L’Asino e il Leone. Metafisica e Politica nell’opera dell’Imperatore Giuliano, diplomamunka, Università di Parma, ak. év 1989-1990, oo. 79-80.
19 Diogenész Laertiosz, VII, 147 (Stoicorum Veterum Fragmenta, II, fr. 1021).
20 M. Mazza, Filosofia religiosa ed “Imperium” in Giuliano, in: AA. VV., Giuliano Imperatore, Atti del Convegno della S.I.S.A.C. (Messina, 3 aprile 1984), a cura di B. Gentili, QuattroVenti, Urbino 1986, o. 90.
21 Sallustio, Sugli dèi e il mondo, a cura di C. Mutti, Edizioni di Ar, 2a ed., Padova 1993, oo. 27-28.
22 Porfiriosz tanulmányát Servius idézi (Comm. ad Eclogas, V, 66) és ezt talán azonosítani lehetne az Isteni nevek c. művel is; ugyanakkor talán része lehetett az Orákulumok filozófiájáról c. műnek is. Lásd G. Heuten, Le “Soleil” de Porphyre, Mélanges F. Cumont, I, Bruxelles 1936, o. 253 kk.
23 “et Porphyrius testatur Minervam esse virtutem Solis quae humanis mentibus prudentiam subministrat” (Macrobius, id. m., I, 17, 70).
24 G. Wolff, Porphyrii de philosophia ex oraculis haurienda librorum reliquiae, Springer, Berlin 1866.
25 Proclo, Inni, a cura di D. Giordano, Fussi-Sansoni, Firenze 1957, oo. 20-25.
26 Proclo, Elementi di teologia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1983, oo. 94-95.
27 H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, id., o. 8.
28 R. Turcan, Martianus Capella et Jamblique, “Revue des Études Latins”, 36, 1958, o. 249.
29 Martianus Capella, De nuptiis, II, 185-193.
30 Martiani Capellae De nuptiis Philologiae et Mercurii liber secundus, Introduzione, traduzione e commento di L. Lenaz, Liviana, Padova 1975, o. 46.
31 F. Altheim, Deus invictus. Le religioni e la fine del mondo antico, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, oo. 115-116.

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AZ ISTENI EGYSÉG ÉS A NEM-DUALITÁS AZ ÓGÖRÖG TRADÍCIÓ SZERINT (Második rész)

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Ha már megállapítottuk, hogy az ógörög tradíció történelmi vonulatában, Homérosztól az úgynevezett “szoláris monoteizmusig”, az isteni egység doktrínája változóan de világosan igazolva van,(1) akkor fel lehet vetni egy új kérdést, amelyik az egység doktrínájához szorosan kapcsolódik: jelen van-e a görög gondolkozásban az egységen is túl lévő legfelsőbb princípium fogalma?
Más szóval: létezett-e görögöknél az a felfogás, amely szerint a lét egysége, amely meghalad minden látszólagos sokféleséget, maga is meghaladott egy nem meghatározott (determinált) princípium által, ahogyan a taoista doktrínában a yu (lét) a wu-ból származik, amely kifejezés nem egy negatív “nem-léttel” egyenlő, hanem egy olyan ürességgel, amely tökéletes és abszolút teljesség?

Ez-e az a nem meghatározott (determinált) princípium, amelyet Anaximandrosz, “az első metafizikus”, úgy kívánt jelölni, hogy alanyosította az apeíron, -on melléknév semleges alakját?(2)
Teofrastosz tanúskodik arról, hogy Anaximandrosz “azt mondta, hogy a létezők princípiuma és eleme (archén te kaì stoicheîon) a végtelen (tò ápeiron), és ezzel elsőként vezette be azt a nevet, hogy “princípium”; és azt mondja, hogy ez sem nem a víz, sem nem valamelyik más az úgynevezett elemek közül, hanem egyfajta végtelen természet (tinà phýsin ápeiron), amely különbözik attól, amelytől születnek minden egek és a bennük lévő összes világ”.(3)

Etimológiai szempontból ápeiron kapcsolatba hozható a péras (“határ”) szóval, így arra vonatkozik, ami “határtalan”; és ha a per (peíro, peráo, stb.) igegyökből származtatjuk is, akkor is “nem átjárható, kimeríthetetlen” jelentést kapunk, tehát az ápeiron minden esetben “végtelent” fog jelenteni. Nem különös tehát, hogy az anaximandroszi ápeiront Hesziodosz Teogóniájában a cháos-szal állították párhuzamba.(4)

Hésziodosz teogóniája szerint “valóban előbb volt a Chaos” (“étoi mèn prótista Cháos génet”),(5) és ebből született később Gea, a Tartarosz, Erósz, Erebosz, az Éj, és azután tőlük fokozatosan az istenek összes generációja.
Platón elmondja, hogy Hésziodosszal “Akuszilaosz is egyetért, amikor azt mondja, hogy Gea és Erósz a Chaos után születtek”.(6)
Ugyanez a fogalom tér vissza Arisztofanésznál is: “Kezdetben volt a Chaos és az Éj és a fekete Erebosz és a hatalmas Tartarosz (“Cháos ên kaì Nýx Erebós te mélan prôton kaì Tártaros eurýs”).(7)

Az arisztotelészi Metaphysika XIV könyvében azt olvashatjuk, hogy az ősi teológusok szerint “nem az őseredeti istenek (toús prótous) — mint az Éj, az Ég, a Chaos vagy Okeanosz — uralkodnak és kormányoznak (basileúein kaì árchein), hanem Zeusz”.(8)
Ezek a szerzők az istenek és minden létező nem-formális princípiumának jelölésére használják a cháos semlegesnemű főnevet, amely így az

“üres tér, tágas levegőtávlat” tágabb értelemre tesz szert,(9) mint Bacchylidésznél: “en atrýtoi cháei”,(10) vagy Arisztofanésznél: “tò cháos toutí”,(11) “diapétei – dià tês póleos tês allotrías kaì toû cháous?”.(12) Ettől a jelentéstől áttérnek a “földalatti szakadék, sötét mélység” jelentésre,(13) mint a platóni Axiochoszban, ahol a cháos a föld sötéten homályos mélyét jelöli: “ep’érebos kaì cháos dià Tartárou”;(14) a szónak ugyanaz a jelentése, mint az Antologia Palatinaban, ahol Cerberosz “a Chaos kutyája”.(15) Így jutunk el a szó kiterjesztett értelméhez Apollóniosz Rhódiosznál: “ouranóthen mélan cháos”,(16) amit F. Vian úgy fordított, hogy “noire béance émanée du ciel” [az égből kiáradó fekete mélység].(17) Ereboszt és Chaost Vergíliusz és Ovídiusz is együtt emlegeti: “Erebumque Chaosque”,(18) “Ereboque Chaoque”.(19)

Mindazonáltal Ovídiusz, aki Chaosnak nevezi az Orfeusz által bejárt hatalmas mélységi birodalmat,(20) visszaadja a kifejezésnek azt a jelentést, amely a teogónia belül őt megilleti:

Ante mare et terras et, quod tegit omnia, caelum,
unus erat toto naturae vultus in orbe,
quem dixere Chaos, rudis indigestaque moles
nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem
non bene junctarum discordia semina rerum.(21)
[Tenger s föld, s mindent takaró égboltnak előtte
mind e világ kerekén egyarcú volt az egész nagy
természet: chaos, így hívták: csak nyers kusza halmaz;
csak tunya súly: egymásra sodort, s még össze nem illő
magvai nem jól összetapadt elemek tömegének.]

Nyers kusza halmaz, tunya súly, össze nem illő magvak halmaza: ez a chaos antiquum, amelybe visszatérne az univerzum, ha tenger, föld és ég összekeverednének.(22) Az alaktalan, sötét és zavaros anyag (“aphanès kaì kechyméne amorphía”) az, amelyet a Princípiumból származó (“he protospóros arché”) Erosz arra kényszerít, hogy — miután, mint egy sírboltból, kivont belőle mindent (“tò pân”) — a Tartarosz zugaiba meneküljön.(23)

Míg a cháos ezen “principiális” értékét a pitagóreusok visszaállították és az egység szimbolumává teszik,(24) az ókori sztoicizmus a cháost a chéo, “önteni, folyatni” igéből származtatja, és “víz” jelentéssel ruházza fel: “Nam Zenon Citieus sic interpretatur, aquam cháos appellatum apò toû chéesthai”.(25) Ugyanez a jelentés található Plutarkhosz Aquane an ignis sit utilior című rövid írásában is. (26)

Érdekesebbnek tűnik az az paretimológia, amely a Chaost Hianusszal (Ianusszal) hozza összefüggésbe, ami a római-itáliai vallás primordiális istenének neve: “Me Chaos antiqui – nam sum res prisca – vocabant”.(27) Az efféle latin nirukta — azon túl, hogy visszaadja a Chaos névnek a principiális isteni valóság (res prisca) jelentést, megszabadítva őt a későbbi alvilági jelentésárnyalatoktól — felfedi a Princípiumnak az “ürességgel” való lényegi kapcsolatát, hiszen Ianus a nyítások istene. Míg ugyanis Ianus a ianuahoz kapcsolódik, addig a Hianus alak tartalmazza a hio és hi(a)sco, “megnyílni” gyököt, ami a cháos gyöke is. Ez ugyanaz az indoeurópai gyök, amelyikből a görög nyelvben a chásko és cháino, “megnyílni, kitárulkozni” igék lettek; a szanszkritban a (vi)-haya, “nyílt mező”; az ősnorvégban a gina; az ónémetben a gien, ginen; a litvánban zhióju “kinyítom”; a szerbhorvátban zjam, “kinyítom a számat”; a románban a casca, “szájat nyítni”.
Annak ellenére, hogy ugyanabból a gyökből milyen lexikai változatosság jött létre és hogy maga a cháos szó milyen szemantikai csúsztatásoknak esett áldozatul, ezen kifejezés eredeti jelentése jelöli azt a határtalan nyílást, azt a korlátlan kitárást, amelyben felszínre kerül és megmarad minden dolog.

Igaz ugyan, hogy Hésziodosz Teogoniajában a hangsúly azon van, hogy a dolgok a cháosból kiemelkedő mozgásban vannak, ám az is igaz, hogy Arisztotelész arra emlékeztet, hogy az ősi mitikus tradíció szerint periéchei tò theîon tèn hólen phýsin (Metaph. 1074b3), az isteni körülveszi a mindenséget, és mivel a cháos mint az istenek nemzője a par excellence isteni, ebből az következik, hogy belőle a dolgok nem úgy emelkednek ki, mint egy elmúlt dologból, amelyet maguk mögött hagynak, hogy egy új dimenzióba lépjenek, hanem benne emelkednek ki és benne, ami mindent körülölel, maradnak meg”.(28)

Szintén a cháos gyökére vezethető vissza a kha szanszkrit semleges főnév, amelynek a kövezkező jelentései vannak: “odú, lyuk, barlang, érzékszerv, ég, Brahma”,(29) továbbá “tér, belső térség, az ‘ég’ mint tiszta, a kontingenciáktól nem függő tudatosság”.(30) A Rg Vedaban például a kha kifejezés jelöli “a kerékagyban lévő lyukat, amelyen a kerék tengelye áthalad”;(31) Ananda Coomaraswamy szerint “a védai kha (….) eredetileg az a chasma [nyílás] volt, amelyet a Nap Kapuja és a Világ Kapuja jelölt”.(32)

Az Upanishadokban khanak nevezik a primordiális éteri teret, amelyet a brahmannal azonosítanak: “kham brahma, kham purânam, vâyuram kham”.(33) Ám a brahman nem csak az üresség, ő a teltség is (pûrna): “pûrnam adah, pûrnam idam, pûrnât pûrnam udacyate…”.(34) Az üresség és a teleség közötti ellentét pusztán látszólagos, amennyiben a determinációk és a kvalifikációk “ürességében” a lehetőségeknek [posszibilitásoknak] végtelen “teljessége” van. A shûnya (amely egy másik szó az üresség jelzésére) tehát nem “semmi”, és nem is fejez ki negatív vagy megsemmisülési jelleget.(35)
Shûnya a neve az indiaiaknál a nulla matematikai jelének is, amelyet az akâshaval (“űr, éter”) azonosítva, “eredetileg úgy fogtak fel, mint a brahman és a nirvânam szimbólumát”.(36)

A nullát tehát jelölik mind az “ürességnek” megfelelő szavakkal (kha, shûnya), mind a “teliségnek” megfelelővel (pûrna), mégpedig azért, mert “minden szám virtuálisan vagy potenciálisan jelen van abban, ami szám nélküli”(37), jegyzi meg Coomaraswamy, aki így folytatja érvelését: “ha ezt az ideát a 0 = x – x egyenlettel fejezzük ki, akkor nyilvánvaló lesz, hogy a nulla az a számhoz képest, olyan mint a posszibilitás az aktualizációhoz képest. Az ugyanilyen vonatkozásban használt ananta (“vég nélküli”) kifejezés magában hordozza a nullának a végtelennel való azonosítását, hiszen minden sorozat kezdete azonos annak végével”.(38)

A matematikai nulla tehát a végtelen posszibilitás jele, mivel azonnal eszünkbe juttatja azt a metafizikai nullát, amelyről René Guénon ezt írja: “a metafizikai nulla, ami a Nem-Lét, ugyanúgy nem a mennyiségi nulla, ahogy a metafizikai Egység, ami a Lét, nem a számtani egység; az, amit ezek a kifejezések jelölnek, csak analógiai áttétel révén lehet az, ami, hiszen ha az egyetemesbe helyezzük magunkat, akkor nyilvánvalóan felette állunk minden olyan speciális területnek, mint a mennyiségé is”.(39)

Guénon tovább boncolgatja a matematikai nulla és a metafizikai Nulla közötti analógiát, azt állítva, hogy az utóbbi az Egység princípiuma, és hogy a Nem-Lét a Lét princípiuma. Ezt írja: “Ahogyan a Nem-Lét, a nem-megnyilvánult magában foglalja és tartalmazza a Létet, a megnyilvánulás princípiumát, úgy a csend is tartalmazza magában a beszéd princípiumát; más szavakkal, ahogyan az Egység (a Lét) nem más, mint a kifejezésre jutott metafizikai nulla (a Nem-Lét), úgy a beszéd nem más, mint a kifejezésre jutott csend; ám megfordítva, a metafizikai nulla, bár ő a nem kifejezésre jutott Egység, még valami több is (pontosabban szólva, valami végtelenül több)”.(40)

Ahogyan az közismert, a nullának megfelelő szám-rajznak két változata volt a történelem során, az egyik a kör-, a másik a pont-alakú; míg az előbbi esetben az üres tér képét jelképezi, az utóbbiban valódi értelemben vett principiális és axiális szimbólummal van dolgunk.
A pont ugyanis, mint az egyetlen, kiterjedés nélküli alak, az a nihil, amely teljességében az archét alkotja, és amelyre a mindenség saját létezése alapul — ahogyan ez különösen nyilvánvalóvá válik, ha figyelembe vesszük a svastika középpontja által ellátott “mozdulatlan mozgató” (akíneton kinoûn) funkciót.

Ugyanilyen nyilvánvaló a pont-szimbólumhoz — az arché azon képe, amikor “Logos volt”— kapcsolódó principiális érték, ha figyelembe vesszük, hogy Alí Imám egyik híres mondása szerint az isteni Igét tartalmazza a bâ’ betű megkülönböztető pontja, amely az az arab betű, amellyel a Korán első szúrájának (a Fâtihahnak) első verse (a basmalah) kezdődik. “Tudd meg — mondja az Imám —, hogy az égi Könyvek minden titka benne van a Koránban; és minden, ami a Koránban van, az benne van a Fâtihahban; és minden, ami benne van a Fâtihahban, az benne van a basmalahban; és minden, ami benne van a basmalahban, az benne van a bâ’-ban; és minden, ami benne van a bâ’-ban, az benne van a pontban; és én vagyok a bâ’ alatti pont”.(41)

1 Lásd C. Mutti, Az isteni egység és a nem-dualitás az ógörög tradíció szerint (első rész).
2 G. B. Burch, Anaximander the first Metaphysician, “Review of Metaphysics”, III, 1949-1950, oo. 137-160.
3 Theophr., Fragm. 12 A 9 D.-K.
4 F. Solmsen, Chaos and Apeiron, “Studi Italiani di Filologia Classica”, XXIV, 1950, oo. 235-248.
5 Hes., Theog. 116.
6 Plat., Symp. 178b.
7 Aristoph., Aves 693.
8 Aristot., Metaph. XIV, 4, 1091b6.
9 F. Montanari, Vocabolario della lingua greca, Torino 2004.
10 Bacchil., Epin. 5.27.
11 Aristoph., Nubes 424.
12 Aristoph., Aves 1218.
13 F. Montanari, ibidem.
14 Plat., Axioch. 371.
15 Anth. Pal. 16, 91.
16 Apoll. Rh., Argon. IV, 1697.
17 Apollonios de Rhodes, Argonauthiques, tome III, Paris 1981, o. 142.
18 Verg., Aen. IV, 510.
19 Ov., Metam. XIV, 404.
20 Ov., Metam. X, 30.
21 Ov., Metam. I, 5-9.; Devecseri Gábor fordítása
22 Ov., Metam. II, 299.
23 Luc., Erotes, 32.
24 Ps. Iambl., Theolog. arithm., 6.
25 Zen. Cit., Stoic. Vet. Fragm., I, o. 29.
26 Plut., Aquane an ignis sit utilior, 955.
27 Ov., Fasti, I, 103.
28 E. Severino, Essenza del nichilismo, Milano 1982, oo. 393-394.
29 Dizionario sanscrito-italiano, Milano 1993.
30 Asram Vidya, Glossario sanscrito, Roma 1988.
31 M. Williams, id.: A. K.Coomaraswamy, Kha and other words denoting “Zero” in Connection with the Indian metaphysics of space, “Oriens”, vol. VII, 7-9, Summer 2010, o. 1.
32 A. K. Coomaraswamy, Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Milano 1987, o. 488.
33 Brihad. Up., V, 1.
34 Brihad. Up., ibidem; lásd Ath. Veda, X, 8, 29.
35 Asram Vidya, Glossario sanscrito, id.
36 B. Heimann, Facets of Indian Thought, London 1964, o. 24.
37 A. K.Coomaraswamy, Kha and other words denoting “Zero”, id., o. 1.
38 A. K.Coomaraswamy, Kha and other words denoting “Zero”, ibidem.
39 R. Guénon, La metafisica del numero. Principi del calcolo infinitesimale, Carmagnola 1990, oo. 86-87.
40 R. Guénon, Gli stati molteplici dell’essere, Torino 1965, o. 41.
41 Al-Qandûzî al-Hanafî, Kitâbu yanâbî’i ‘l-mawadda, o. 79.

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AZ EURÁZSIANISTA GONDOLAT FÁZISAI

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1942-ben, Kőrösi Csoma Sándor (1784-1842) halálának centenáriumát ünnepelve a Kolozsvári Ferenc-József Regia Litterarum Universitas Hungarica (Magyar Királyi Tudományegyetem)-en, Giovanni Tucci a kiemelkedő tibetológus azt állította, hogy “titokzatos kapcsolódások (….), rejtélyes affinitások” állnak fenn Tibet, Magyarország és Olaszország között.
Abban az időszakban Tucciban még nem érett meg az Eurázsia mint egységes kontinens gondolata; nem sokkal később azonban már “Kelet és Nyugat párbeszédre való lényegi képtelenségének tézisével szemben a két kontinens “reményteli közösségét” vallja, amelyet hatékonyan hordoz az Eurázsia kifejezés.
Tucci szerint “egyetlen kontinensről, az eurázsiairól kell beszélni: ennek részei annyira össze vannak fonódva, hogy nincs olyan kiemelkedő esemény az egyikben, amely ne tükröződne a másikban is”. Utolsó nyilvános beszédében ezt mondta: “Soha nem beszélek Európáról és Ázsiáról, hanem Eurázsiáról. Nincs olyan esemény, amely Kínában vagy Indiában történik, és nincs hatással ránk, és viceversa, és ez mindig is így volt”.
Az eurázsiai felfogás aktuális fejleményeket is magában foglaló történelmi körvonalazásához azonban egy másik kiindulópontra és útvonalra lesz szükségünk.
Aki az eurázsiai idea történelmi kialakulásával foglalkozik, nem hagyhatja figyelmen kívül Konstantin Leontyevet, akinek fő munkája, a Vizantinizm i slavjanstvo [Bizánciság és szlávság], jól reprezentálja ezen gondolatkör előkészítő szakaszát. Ez a mű ugyanis — amelyben olyan történelmi morfológia van kifejtve, amely az Ibn Khaldunéra emlékeztet és előhírnöke a Toynbee-énak — 1875-ben látta meg a napvilágot, negyven évvel Spengler A Nyugat alkonyája előtt.
Tehát még mielőtt Spengler az eurocentrális szemlélettel szembeállította volna a civilizációs ciklusok sokaságát, Leontyev már megfigyelte a különféle történelmi-kulturális formák születését és hanyatlását, olyannyira, hogy meggyőződése volt, hogy a “nyugati” civilizáció hamarosan megsemmisül egy elkerülhetetlen degeneratív folyamat eredményeként.
Mielőtt Spengler — megtagadva az eurocentrizmust és vissahelyezve jogaikba az európán kívüli kultúrákat — helyére tette volna azt, amit René Guénon “klasszikus előítéletnek” nevezett, Konstantin Leontyev már teljesen másként tekintett az ókori perzsa civilizációra, mint ahogyan azt az orosz (és nem csak orosz) iskolákban tanították, ahol a “szabadságról” szónoklás közben csak értetlenséggel és lenézéssel kezelték “Kelet barbárjait”.
A Spengler és Leontyev közötti jelentős különbség viszont az, ahogyan azt a civilizációt értékelték, amelyik az orosz tudós kiemelt kutatási tárgya volt: a bizánci civilizációt.
Egy olasz szlavisztikus jegyezte meg, hogy a liberális történetírás “évszázadokig kizárólag úgy tekintett Bizáncra, mint a görög-latin világ eredeti és steril továbbélésére, amely egy ‘maradi’ vallási és monarchista ideál szolgálatában áll. Tudósok és olvasók számos generációja örökítette át folyamatosan a Bizáncról szóló nagy mennyiségű előítéletet, amely Bizánc, mivel nem hasonlít sem a klasszikus civilizációra, sem a modern Európára, csak bigottizmusával, kegyetlenségével és szellemi korlátozottságával tűnt ki” (1).
Spengler a bizánci világot egyrészt azon Kulturnak a “nyarához” sorolja, amit terminológiájának sajátos kifejezésével “arab Kulturnak” nevez, másrészt viszont a Zivilisation jelenségét látja a “bizánciságban”, vagyis elszáradást és kulturális megmerevedést.
Leontyev viszont, aki a Danilevszkij által készült, típus szerinti civilizáció-rendezést használja, az ezen rendezésben szereplő tíz történelmi-kulturális ciklushoz hozzátesz egy tizenegyediket, vagyis pontosan a bizáncit, amelyet úgy értelmez, mint “egy sajátos és önálló kulturális típust, amelynek saját megkülönböztető jegyei és saját általános elvei vannak” (2).
A bizánci világ Leontyev szerint nem csupán egy történelmi ciklus, hanem egy idea-erő, egy univerzális princípium, az egyetlen, amely képes alakítani és szervezni a fennhatósága alá tartozó földrajzi terület “démoszi” elemét, úgy hatva rá, ahogyan a forma hat a materiara.
Ezzel kapcsolatban Nikolaj Berdjaev megjegyezte, hogy Leontyev szemléletében “az igazság és az orosz nép szépsége nem a tömegek géniuszában nyilvánultak meg, hanem azokban a bizánci diszciplínákban, amelyek saját képükre szervezik és alakítják ezt a géniuszt” (3).
A népi elem tehát a polgárinál sokkal inkább alkalmasabb a bizánci idea formáló hatásának befogadására; Berdjaev mondja Leontyevről: “mindig készen állt arra, hogy a muzsikot idealizálja, ha nem másért, mert a kispolgár ellentéte volt (….) A Balkánon, Törökországban, Oroszországban, az élet festői és népi aspektusára figyelt (….) A falusi közösségben látja azt a princípiumot, amely alkalmas a proletariátus fenyegető veszélyét megelőzni” (4).
Leontyev maga ezt vallja: “A népet és a nemességet, a két szélsőséget, mindig jobban szerettem, mint a professzorok és írók középosztályát, akikkel kénytelen voltam érintkezni Moszkvában” (5).
Nacionalizmus és pánszlávizmus nem számíthattak tehát Leontyev szimpátiájára, mivel ezek “azon liberális demokracizációs folyamat” aspektusait képezik, “amely már jó ideje a Nyugat nagy kultúráinak elpusztításán dolgozik. Az emberek egyenlősége, az osztályok egyenlősége, a régiók és nemzetek egyenlősége (azaz egyformasága): mindig ugyanarról a folyamatról van szó” (6).
Leontyev a szellemi közösség ideáját helyezi szembe a nemzet ideájával, provokatív módon vallva az előbbi fensőbbrendűségét: “a legkegyetlenebb, sőt a legromlottabb ortodox püspök (bármilyen fajhoz tartozzon is, legyen akár kikeresztelkedett mongol is), nagyobb becsben kell hogy álljon a szemünkben, mint húsz demagóg és progresszista szláv” (7).
Leontyev szerint a pánszlávizmus nem más, mint a modern Európából származó antitradicionális és felforgató mentalitás hordozója, még akkor is, amikor ez a pánszlávizmus instrumentálisan a keresztények szolidaritására appellál az úgynevezett “török iga” ellen.
Ezen szétforgácsoló támadás ellen Leontyev szerint kettős gáttal lehet védekezni: az Ortodoxia és az Iszlám által alkotott gátakkal.
“Leontyev nem szláv-párti, hanem törökpárti volt” (8), mondja Berdjaev, aki rosszul leplezett felháborodással mondja el, hogy Leontyev szerint “a törökök igája akadályozta meg, hogy a balkáni népek végleg az európai demokratikus haladás szakadékába zuhanjanak. Üdvösnek tekintette azt az igát, mert elősegítette az ősi Ortodoxia Keleten való fennmaradását“ (9).
Berdjaev ugyanilyen felháborodással folytatja: “A németek csehek elleni erőszakosságát idézi, és azt kívánja, hogy a törökök ilyenek legyenek a balkáni szlávokkal szemben annak érdekében, hogy a szláv világ ne polgárosodjon el véglegesen. Nem a keresztények felszabadítását kívánta, hanem rabszolgaságukat, elnyomásukat” (10).
Továbbá: “a törökök elűzésében nem orosz és nem szláv ideát lát, hanem egy demokratikus és liberális ideát” (11); úgy vélte, hogy Konstantinápoly csak orosz vagy török lehet, ám ha szláv kézre kerülne, akkor lázadó központtá válna” (12).
Maga Leontyev is azt írja, hogy míg a Cár diplomatájaként Törökországban tartózkodott, megértette, hogy “ha számos szláv és ortodox elem még mindig eleven a Keleten, akkor ezt a törököknek köszönhetjük” (13).
Leontyev szerint tehát a tradicionális civilizációk közül csak kettőnek van jövője: az Iszlámnak és az Ortodoxiának.
Különösen Oroszországnak az a feladata, hogy megmentse az öreg és immár kimerült Európát, ám ennek a feladatnak az elvégzéséhez vissza kell térnie a bizánci ideához és csatlakoznia kell az “ázsiai és nem keresztény vallású népekhez (….) azon egyszerű ténynél fogva, hogy az ő köreikbe még nem hatolt be visszafordíthatatlanul a modern Európa szelleme” (14).

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Az eurázsiai gondolat tényleges kiáltványa az Ischod k Vostoku (Kijárat Kelet felé) volt, amelyet 1921-ben Szófiában adott ki egy orosz-bulgár kiadó. Egy gyűjteményes munkáról van szó, amelynek szerzői Pëtr Savickij geográfus és közgazdász (1895-1965), Nikolaj Trubeckoj nyelvész (1890-1938), Pëtr Suvčinskij zenetudós (1892-1985) és Georgij Florovskij teológus (1893-1973) voltak. Mindezen szerzők azt az alapeszmét vallották, hogy Oroszország és a vele Európa és Ázsia felől határos régiók egy természetes egységet alkotnak, mivel történelmi és kulturális affinitások kötik őket össze. Az orosz kultúrára tehát nem úgy tekintettek, mint a “nyugati” kultúra egy változatára, hanem mint egy önálló valóságra.
A szerzők szerint ezt a kulturális valóságot — amely a görög-bizánci örökségre és a mongol hódításra építkezik és ezért “eurázsiainak” tekinthető — nem csak Nagy Péter cár reformjai és az Oroszországot azt követően kormányzó politikai osztály tagadta meg, hanem a szlávpárti mozgalom is, amit Trubeckoj herceg azzal vádolt, hogy a Nyugatot majmolja.
Ami a bolsevik forradalmat illeti, az eurázsianisták negatívan értékelték, de szándékuk volt tanulmányozni az orosz történelemben betöltött jelentését; különösen Savickij tekintette az októberi forradalmat a francia forradalom folytatásának, ám megállapította, hogy ezzel Kelet felé helyeződik a világtörténelem tengelye.
“Egyszóval az eurázsianisták szemében az 1917 októberi forradalom megtisztulást és megújulást jelentett, a sztyeppék orosz kultúrára jellemző igazi szellemének feltámadását, valamint Eurázsia hatalma megerősödési folyamatának kiindulópontját” (15).
Eurázsia egysége alkotja a Dzsingisz kán öröksége című tanulmány központi témáját, amelyet Trubeckoj herceg 1925-ben publikált. Ebben ezt írja: “Eurázsia egésze (….) egyetlen teljességet jelent, mind földrajzilag, mind antropológiailag (….) Eurázsiának saját természetéből kifolyólag az a sorsa, hogy egyetlen egészet alkosson (….) Eurázsia történelmi egyesítése a kezdetektől fogva történelmi szükségszerűség volt. Ezzel egyidejűleg Eurázsia természete maga jelölte ki ezen egyesítés eszközeit”.
Trubeckoj oknyomozása — aminek az volt a célja, hogy kiemelje az autentikus orosz kultúra és a török-mongol elem között fennálló szoros kapcsolatot — egy konkrét történelmi eseményből indult ki, mégpedig a nagy eurázsiai tér azon egyesítéséből, amelyet Dzsingisz kán és utódai végeztek el. Ezt a nagy vállalkozást a Dzsingisz kánt követő három uralkodó hajtotta végre: Ögödaj (1229-1241), Güyük (1246-1248) e Mönkä (1251-1259), végül a mongol egység Qublaj (1260-1294) alatt bomlott fel. A mongolok utolsó egyetemes uralkodója, Qublaj, Jáva szigetéig vezette a mongolokat: Kína leigázójaként egy új kínai dinasztia, a Yüanok első császára lett. Visszatérve Oroszországhoz, 1223-ban történt az, hogy a mongol előőrsök legyőzték az orosz és kun csapatokat a Kalka folyó partján, majd visszatértek a sztyeppékre, ahonnan jöttek. Dzsingisz kán közvetlen utódja, Ögödaj, a volgai bolgár kánságot söpörte el, majd bevette Rjazan’-t, Suzdal’-t és Kijevet, meghódítva az összes orosz hercegséget. Dzsingisz kán unokája, Batu alapította az Aranyhorda dinasztiát, amelynek a Volga menti Szarajban volt a székhelye; az Aranyhorda egy hatalmas államot uralt Dél-Oroszországban és Közép-Ázsiában és több, mint két évszázadig irányította az orosz politikai és gazdasági életet: 1240-től 1480-ig Északkelet-Oroszország keresztény grófságai is eme mongol (vagy ahogyan az oroszok hívják: tatár) dinasztia adófizetői voltak.
“A mongol hódítás drámai mivoltát nem lehet ugyan vitatni, ám rákövetkező orosz történelemre vonatkozó következményeit a legkülönfélébb és legellentmondásosabb módokon értelmezték. Nyugaton a tatár vagy ha úgy tetszik mongol befolyást majdnem mindig negatívan értékelték, mint az orosz állam Európával szembeni visszamaradottságának és despotizmusának fő okát. (….) Ily módon Trubeckoj a tatár uralom olyan eltérő és pozitívabb felfogását vette elő és fejlesztette tovább, amely már a XIX században meghonosodott az orosz történetírásban. Solovjev és Kljucevskij szerint a tatárok nem csak hogy nem törték meg Oroszország történelmi fejlődésének folytonosságát, hanem ellátták azzal az erős állami szerveződéssel is, amely annyira hiányzott a kijevi korszakban” (16).

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Lev Nikolajevič Gumilëv 1912-ben született Szentpétervárott egy híres költő (Nikolaj Stepanovič Gumilëv, az “akmeista” mozgalom alapítója, 1921-ben kivégezték) és egy még híresebb költőnő, Anna Akhmatova fiaként. 1930-ban befejezte tanulmányait, mert származása miatt elutasították az egyetemről, így munkásként kereste kenyerét. Pamírban dolgozott tudományos segéderőként, megtanult tadzsikul és kirgizül, és szúfikkal és vándordervisekkel tartotta a kapcsolatot. 1934-ben felvették a Leningrádi orientalisztika karra; először 1935-ben tartóztatták le. Három évvel később ismét letartóztatták és golyó általi halálra ítélték, amit kényszermunkára változtattak. 1944-ben engedélyezték, hogy önkéntesként beálljon egy büntetőezredbe, amely részt vett Berlin ostrománál. 1945-ben visszavették az egyetemre, ahol a rákövetkező évben védte diplomamunkáját, amely az első török kánság (546-659) politikatörténetéről szólt. Zdanovval való kapcsolatának következményeként törölték az archeológiai kutatók szervezetéből; később könyvtárosnak vették fel a leningrádi pszichiátriai kórházba. 1948 tavaszán részt vett abban az altaji archeológiai expedícióban, amely a Payzryk kurgánt [halomsírt] feltárta.
“A zoomorf stílusú szkíta-szibériai művészet egyetemesen ismert és népszerű témává fog majd válni” (17).
1948-ban harmadjára is letartóztatják és 10 év kiemelt kényszermunkatáborra ítélik ellenforradalmi tevékenységért; 1956-ban elengedik és rehabilitálják, mivel a vádat alaptalannak nyilvánítják. Miután visszatér Leningrádba, a Hermitázs könyvtárában dolgozik és befejezi az ősi törökökről szóló doktori disszertációját. 1986-ig a Leningrádi Egyetem Állami Kutatóintézetében dolgozik.
“Életének utolsó éveiben, amelyek megegyeztek a Szovjetunióéival, Gumilëvnak óriási szerepe volt az eurázsianista gondolat újjászületésében. Művei gyors egymásutánban és nagy példányszámban jelentek meg, és széleskörű ismertségre tett szert az orosz kultúrában és társadalomban (….) A Szovjetunió felbomlása feletti csalódottság nagyon rossz hatással volt Gumilëv lelkiállapotára, és a következő évben meg is halt. Műveinek elsöprő sikere azonban ekkorra már döntő módon hozzájárult az eurázsianizmus újjászületéséhez, amely gyorsan vált nagy érdeklődést keltő témává az orosz kultúrában és néhány független új köztársaságban is” (18).
A volt Szovjetunió turáni népei nagyrabecsülést és elismerést mutatnak Gumilëv iránt; tudományos munkássága, “a sztyepp valóságos enciklopédiája” (19), helyére tette a turkofób és mongolellenes előítéleteket, kimutatva azt a pozitív hatást, amit Attila, Dzsingisz kán és Timur Lenk birodalmai tettek Eurázsia történelmében. Ebben a tekintetben jelentőségteljes tény, hogy Asztanában, Kazahsztán fővárosában, a helyi Eurázsiai Egyetemet Lev N. Gumilëvról nevezték el.
Gumilëv hatalmas mennyiségű tudományos munkásságában (20) nincsenek specifikusan geopolitikai művek, bár Gumilëv elmélete az etnogenezisről és az ethnos életének ciklicitásáról Ratzel, Kjellén és Haushofer által kidolgozott elméleteket követi.
Gumilëv eurázsianizmusa olyan történelemszemléletet jelent, amelyben az eurázsiai Kelet sokalakú világa kerül előtérbe, amely tehát nem a nyugati civilizációval szembeállított többé-kevésbé “barbár periféria” immár, hanem egy önálló kulturális valóság, amelynek saját politikai és tudományos fejlődése van. Maga Gumilëv soha nem utasította el az “eurázsianista” kifejezést, sőt büszkén elfogadta azt. Egy 1992-ben adott interjún, kevéssel halála előtt, ezt nyilatkozta: “amikor eurázsianistának hívnak, különböző okokból nem utasítom el ezt a definíciót. Először, az eurázsianizmus nagy jelentőségű történelmi iskola volt, így csakis megtisztelve érezhetem magam, ha valaki ehhez az iskolához sorol. Másodszor, alaposan tanulmányoztam az eurázsianisták műveit. Harmadszor, alapvetően egyetértek a főbb történelmi-módszertani következtetésekkel, amelyekre az eurázsianisták jutottak”.

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Miután jelentős hatást gyakorolt az orosz kultúra széles és heterogén köreire, a Szovjetunió összeomlása után az eurázsianizmust főleg azok ölelték keblükre, akik szembehelyezkednek Oroszországnak a nyugati rendszerbe való beilleszkedésével.
Így alakult ki az úgynevezett “neo-eurázsianizmus”, amelyhez meghatározóan járult hozzá Aleksandr Gelevic Dugin.
Dugin 1962-ben született katonacsaládba és a hetvenes évek végén iratkozott be a Moszkvai Légierő Intézetbe. Első fontos kulturális alakulása egy szűk, nonkomformista intellektuális körben zajlott (Evgenij Golovin költő, Jurij Mamleev keresztény filozófus, Gejdar Dzsemal azér származású muszlim filozófus). Ebben a körben olvasták és oroszra fordították olyan szerzők műveit, mint Guénon, Evola, Eliade, Jünger. Dugin fordította előszor oroszra Evola Pogány imperializmusát, amely szamizdat formában forgott közkézen. A KGB letartóztatta, majd rövid ideig tartó fogság után kizárták a Légierő Intézetből. 1987-ben csatlakozott a nacionalista Pamjat párthoz, amelyből néhány évvel később kilépett. Abban az időszakban keresett kapcsolatokat Nyugat-Európában. Magam 1990 márciusában kezdtem vele levelezni, és nem sokkal később találkoztam vele személyesen Párizsban, ahol ő megismerkedett olyan értelmiségiekkel, mint Alain de Benoist és Jean Parvulesco.
Nyugat-Európa kulturális és politikai köreivel kialakított ezen és további kapcsolatok után alapította Dugin 1992-ben az “Elementy” folyóiratot. A cím szándékosan ugyanaz, mint az Alain de Benoist által vezetett francia “Eléments” kiadványé, míg alcíme, “Evrazijskoe obozrenije” (Eurázsiai szemle), a ’20-as ’30-as évek eurázsianista áramlatát idézi.
Az “Elementy” első számának borítója sokatmondó volt, mert a kontinentális eurázsiai blokk geopolitikai ideálját ábrázolta az Egyesült Államok által vezetett Nyugattal szembehelyezve. A folyóirat irányultságát erősen meghatározták a német “konzervatív forradalom” néhány képviselőjének (Karl Haushofer, Carl Schmitt, Arthur Moeller van der Bruck, Ernst Jünger) kulturális és geopolitikai fogalmai, és különösen Jean Thiriart geopolitikai irányvonalai, akivel Dugin 1992-ben Moszkvában találkozott. Az “Elementy” körül összegyűlt csoport alapvető jellemzője volt René Guénon és Julius Evola tradicionalizmusának elemzése.
Ezen széleskörű kulturális bázis eredménye egy radikális dichotómia tételezése a szárazföldi és tengeri hatalmak, az Eurázsia-gondolat és a liberizmus, a tradíció és a posztmodern világ között. A szárazföldi és tengeri hatalmak csatájában Dugin két, kibékíthetetlen típusú civilizáció csatáját látja, mivel az atlantista hatalmakat materialista, individualista és liberális kalmárszemlélet mozgatja, míg a szárazföldi hatalmak valamilyen mértékben a tradíció, tekintély, hierarchia és közösség princípiumait fejezik ki.
A Dugin által körvonalazott geopolitikai modell (pl. az Osnovy geopolitiki, Moszkva, 1997) a Sir Halford Mackinder brit geográfus által 1904-ben javasolt szkémára alapul: örök harc van az eurázsiai kontinens szárazföldi hatalmai (Németország és Oroszország) és az óceánparti tengeri hatalmak (Nagy-Britannia és Egyesült Államok) között.
Dugin különösen nagy hangsúlyt helyez Karl Haushofer munkásságára, aki továbbfejlesztette Mackinder elképzeléseit és az orosz-német szolidaritás (a Kontinentalblock) létfontosságú szükségességét tételezte az angol-amerikai ellenséggel szemben.
Az Aleksandr Dugin által képviselt geopolitikai tételek számos könyvben és cikkben jelentek meg, és bizonyos hatást gyakoroltak az orosz külpolitika kidolgozására is. A Dugin által 2001 tavaszán alapított Eurázsia Mozgalom segítségét és támogatását kínálta Putyin elnöknek, bár nem feltétlen módon. Érdekes megjegyezni, hogy ezen mozgalom alapítását támogatta Talgat Tadzhudin mufti, az Orosz Federáció muszlimjainak legfőbb vallási tekintélye.
A neo-eurázsianizmus sikere annak köszönhető, hogy tételei nem kis és elszigetelt csoportok köreire korlátozódnak, hanem többé-kevésbé nagy mértékben részévé váltak azoknak a kulturális és politikai erőknek, amelyek Oroszországban szembehelyezkednek a liberális ideológiával.

Fordította: Dávid Andrea

1. Aldo Ferrari, La Terza Roma, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986, o. 36.
2. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986., fej. I.
3. Nicolas Berdiaeff, Constantin Leontieff, Paris1926, o. 244.
4. Ibidem, o. 243.
5. Ibidem, o. 45.
6. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, id., fej. II.
7. N. Berdiaeff, Constantin Leontieff, o. 251.
8. Ibidem, oo. 251-252.
9. Ibidem, oo. 85-86.
10. Ibidem, o. 90.
11. Ibidem, o. 250.
12. Ibidem, o. 251.
13. Ibidem, o. 250.
14. K. Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo, id., fej. V.
15. Patrick Sériot, N. S. Troubetzkoy, linguiste ou historiosophe des totalités organiques ?, in : N. S. Troubetzkoy, L’Europe et l’humanité. Écrits linguistiques et paralinguistiques, Pierre Mardaga éditeur, Sprimont 1996, o. 17.
16. A. Ferrari, La Russia tra Oriente e Occidente, Ares, Milano 1994, oo. 43-45.
17. Martino Conserva – Vadim Levant, Lev Nikolaevič Gumilëv, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2005, o. 15.
18. A. Ferrari, La Foresta e la Steppa, Scheiwiller, Milano 2003, o. 264.
19. A. Ferrari, La Foresta e la Steppa, id., o. 255.
20. Az 1990-ben készült gumiljovi bibliográfia (lásd M. Conserva e V. Levant, Lev Nikolajevič Gumilëv, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2005, oo. 65-83) körülbelül 240 címet tartalmaz.

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VIETNAM-CAMBOGIA, UNO SCONTRO FRA NAZIONALISMI

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La sconfitta dell’imperialismo statunitense da parte delle forze comuniste in Vietnam, Laos e Cambogia nel 1975 non portò alcuna stabilità politica nell’ex Indocina francese. I comunisti vietnamiti e i khmer rossi, in precedenza alleati nello sforzo bellico contro gli Stati Uniti e i regimi fantocci dei rispettivi paesi, combatterono un conflitto cruento, le cui cause devono essere ricercate nel passato coloniale che segnò profondamente le vicende storiche indocinesi. L’amministrazione coloniale francese, consolidando il proprio controllo politico sull’Indocina a metà del XIX secolo, stabilì i confini fra il Vietnam, la Cambogia e il Laos.

Le province occidentali di Battambang, Sisophon e Siem Reap, che facevano parte in passato dell’Impero Khmer ed erano state occupate dalla Thailandia, furono restituite alla Cambogia. Alcune province cambogiane orientali, in cui è tuttora presente l’etnia khmer, vennero assegnate come entità coloniali amministrative al Vietnam.
La Cambogia subì dunque un’amputazione di territorio a favore del Vietnam, che avvenne senza il consenso del monarca regnante. Si trattava della regione del delta del Mekong comprendente Saigon (oggi Città di Ho Chi Minh) e chiamata dai cambogiani Kampuchea Krom, ossia Cambogia meridionale. Nel 1939 Jules Brevié, Governatore generale francese dell’Indocina, tracciò i confini terrestri tra il Protettorato francese della Cambogia e questa entità coloniale, che prese il nome di Cocincina, senza tuttavia demarcare un preciso confine marittimo. L’integrazione della Cocincina nel territorio del Vietnam fu legalizzata formalmente dalla Francia nel Trattato di Along Bay del 1948, mantenendo la Linea Brevié come confine territoriale fra i due paesi. Il colonialismo francese aggravò l’ostilità fra i due popoli, imponendo ai vietnamiti un ruolo di primo piano nell’amministrazione cambogiana, compreso il compito di reprimere le rivolte, mentre in Vietnam, i francesi si servivano spesso di fucilieri khmer per soffocare le ribellioni locali. Il nazionalismo cambogiano che, assieme al comunismo, era la componente ideologica fondamentale dei khmer rossi, era fortemente ostile al Vietnam, percepito come stato occupante i territori orientali della Cambogia storica.

I comunisti vietnamiti, invece, combatterono contro il colonialismo francese e il regime filostatunitense di Saigon per unificare il proprio paese, mantenendo il confine con la Cambogia stabilito ad Along Bay. Il Vietnam comunista intendeva inoltre costituire una Federazione Indocinese che ponesse il Laos e la Cambogia sotto la propria influenza politica. Conquistata la capitale Phnom Penh il 17 aprile del 1975, i khmer rossi imposero alla Cambogia una sorta di socialismo agrario simile alle comuni popolari cinesi del Grande balzo in avanti del 1958-62. I khmer rossi abolirono persino la moneta e deportarono l’intera popolazione cittadina nelle campagne per costringerla a redimersi dal contagio ideologico occidentale e capitalistico. Il 30 aprile 1975 i nordvietnamiti conquistarono Saigon, determinando il collasso del regime sudvietnamita ed avviando il processo di unificazione territoriale del proprio paese.

Nel 1975 i rapporti fra il Vietnam e la Cambogia si deteriorarono rapidamente. Violenti combattimenti fra unità navali khmer rosse e vietnamite coinvolsero il Golfo del Siam in maggio. Nel frattempo, i khmer rossi concentrarono numerose truppe lungo il confine terrestre con il Vietnam meridionale. Sebbene i colloqui fra i due stati nel giugno 1975 avessero posto termine ai combattimenti navali, i khmer rossi non rinunciarono alle proprie rivendicazioni territoriali, considerando la conquista della Cocincina un obiettivo militare prioritario. Nel giugno dello stesso anno la dirigenza khmer sottoscrisse un trattato di amicizia con il Vietnam, che permise il rimpatrio di migliaia di profughi i quali, rientrati in Cambogia, furono sospettati di essere spie del Vietnam e in buona parte uccisi. I khmer rossi perseguitarono ed espulsero la minoranza vietnamita residente in Cambogia da secoli, per scongiurare qualunque tentativo da parte del Vietnam di avanzare pretese territoriali adottando come pretesto la tutela di questa importante minoranza etnica residente nelle aree orientali del paese.

Nel marzo 1977 i khmer rossi effettuarono numerose incursioni in territorio vietnamita attaccando le province meridionali di Kien Giang e An Giang, uccidendo centinaia di civili e distruggendo vari villaggi. Il Vietnam, forte del sostegno sovietico, rispose alle incursioni respingendo gli occupanti e bombardando con l’aviazione il confine cambogiano. I khmer rossi, con il supporto cinese, tentarono di fomentare, senza successo, un’insurrezione secessionista in Cocincina, organizzando un movimento guerrigliero fra la locale minoranza khmer.

Fra il 1977 e il 1978 si aggravò il conflitto fra i due stati provocando decine di migliaia di morti. A quel punto, il Vietnam decise di creare un esercito di liberazione reclutando migliaia di profughi cambogiani da contrapporre efficacemente al regime di Pol Pot e, dal giugno 1978, condusse trenta incursioni aeree giornaliere in territorio cambogiano. I khmer rossi, gravemente indeboliti, non riuscirono a contrastare il più numeroso e meglio organizzato esercito vietnamita che, tentando di porre un termine a questo conflitto, invase la Cambogia e occupò Phnom Penh, determinando il crollo del regime di Pol Pot il 7 gennaio 1979.

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IL PROGETTO DI CONNESSIONE “PERÙ-BOLIVIA-BRASILE”

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Per la realizzazione del concetto di “unità regionale” o “Patria Grande” in America Latina è necessario un concreto sforzo da parte dei singoli Stati, che vada ben oltre la semplice dialettica. Appare quindi importante anche la realizzazione di una connessione fisica tra le popolazioni ovvero la realizzazione di infrastrutture idonee alla visione regionale. Allo stato attuale, l’interconnessione infrastrutturale della regione appare strettamente legata ad una visione periferica alla quale era relegata dalla situazione geopolitica globale. Tale struttura oggi appare incompatibile con le aspirazioni di unità proprio in quanto predisposta alla mera esportazione all’esterno del continente e non all’interazione interna. Possiamo definirlo come un sistema di connessione a esclusione: collega la regione con il mondo, ma non permette alcuna movimentazione interna alla stessa.

Con l’obiettivo di porre fine a questo schema è stata avviata nel 2000 l’Iniziativa per l’Integrazione dell’infrastruttura Regionale in Sud America (IIRSA). L’idea di questo forum è stata quella di progettare una visione più olistica dell’infrastruttura inquadrandola in una pianificazione strategica sulla base dell’individuazione di alcuni Assi di Integrazione e Sviluppo (AIS). L’identificazione di tali assi è stata la prima azione regionale in un’ottica di unità integrata e imprescindibile al fine di creare un portafoglio di progetti di infrastrutture (1), fatto che, senza dubbio, è un esempio lampante dell’avvio di una nuovo corso per tutto il Sud America.

 

Vecchie idee geopolitiche

Tenendo presente il contesto di cui sopra, è ragionevole pensare che il raggiungimento dell’unità regionale rappresenta, per i paesi latinoamericani, un obiettivo importantissimo tanto da precedere quelli che possono esser visti come obiettivi delle singole sovranità (o particolari a livello del processo di integrazione). Detto questo non vogliamo essere ingenui nel pensare che gli interessi nazionali passino in secondo piano e pertanto, la necessità di raggiungere l’unità regionale può essere inquadrata come un obiettivo strettamente strategico per l’interesse del singolo Stato. Tuttavia ciò che sembra logico e semplice, in realtà assume sfumature più complesse. I singoli Paesi non hanno dimenticato le vecchie idee geopolitiche che storicamente hanno diretto le singole politiche estere e ciò finisce con l’avere ripercussioni negative sui vari progetti di integrazione regionale. Un esempio recente di quanto affermato lo si ha con il progetto di costruzione del Corridoio Ferroviario Bioceanico Centrale (CFBC) tra il Brasile, la Bolivia ed il Perù.

Secondo le recenti dichiarazioni del presidente boliviano Evo Morales, la Bolivia è stata recentemente esclusa dalla costruzione del corridoio bioceanico e di conseguenza privata di un importante sviluppo infrastrutturale (2). Come si mostra nella seguente mappa (3) i piani iniziali stabilivano la creazione di un corridoio ferroviario capace di collegare il porto brasiliano di Santos con il porto peruviano di Illo passando proprio per il territorio boliviano.

Immagine

Al contrario, la rivisitazione del progetto, sposta la ferrovia verso il nord escludendo di fatto la Bolivia. L’ipotesi dell’interferenza di vecchie visioni geopolitiche nel progetto infrastrutturale è stata confermata dallo stesso presidente peruviano (Ollanta Humala) che ha sostenuto che, per motivi di interesse nazionale, la ferrovia dovrebbe passare attraverso la parte nord del Perù e non a sud, escludendo quindi la Bolivia del progetto (4). Al di là di una valutazione economica e temporale che palesa la convenienza di un corridoio ferroviario passante per la Bolivia, Perù e Brasile, questi guadagnano una maggiore autonomia nella creazione di tale corridoio nella parte nord peruviana. Infatti la Bolivia per la sua posizione geografica centrale nel progetto, avrebbe un ruolo importante nel funzionamento della ferrovia relegando gli altri due Stati ad una posizione di svantaggio strategico e di dipendenza nei confronti di La Paz.

Alla Bolivia restano allo stato attuale ancora due opzioni disponibili. La migliore sarebbe quella di ribaltare tale situazione diplomaticamente e fare in modo che il progetto infrastrutturale coinvolga nuovamente il proprio territorio. In caso negativo, la seconda opzione comporta un progetto proprio di connessione infrastrutturale ovvero la costruzione di una branca ferroviaria che a sua volta si congiunge al corridoio peruviano-brasiliano o addirittura una connessione aggiuntiva tra i tre Paesi, ma facente capo alla sola iniziativa boliviana. Quest’ultima, pur essendo una valida alternativa, non è tuttavia compatibile con gli sforzi politici che la realizzazione della Patria Grande esige ed ancor meno se pensiamo che il progetto ferroviario era parte dell’agenda del IIRSA per uno dei dieci AIS identificati: l’asse “Brasile-Bolivia-Perù” (5).

 

Il ruolo della Cina

Come in tutte le questioni di rilevanza per il futuro regionale, è necessario analizzare brevemente il ruolo della Cina in queste dinamiche. Sia che la ferrovia fosse un progetto binazionale (peruviano-brasiliano), sia che fosse un progetto più ampio comprendente anche la Bolivia, la Cina detiene il ruolo cruciale di finanziatore dell’opera con la stipula di un investimento base di 10.000 milioni di dollari. Tale coinvolgimento, non essendo un episodio isolato, ma rientrante in un portafoglio di investimenti più ampio, è spesso visto con diffidenza in quanto difficile da interpretare come un coinvolgimento neutrale di Pechino nelle dinamiche latinoamericane. La ferrovia bioceanica mette in evidenza il ruolo cruciale che assume la Cina per i Paesi latinoamericani ergendosi a fonte alternativa di finanziamento. È interessante sottolineare quanto affermato da Cornejo e Navarro García (6): “L’avvicinamento della Cina verso l’America Latina dovrebbe essere inquadrato nella grande trasformazione economica mondiale degli ultimi tre decenni: un impressionante trasferimento a questo paese d’una parte importante della produzione di prodotti industriali. Questo ha reso la Cina un avido consumatore di materie prime e esportatore attivo di manufatti. In questo contesto, le risorse naturali e il mercato latino-americano hanno cominciato a guadagnare importanza. Il modello di esportazione cinese, apprezzato e promosso dalla attuale generazione di leader (…), non cambierà nel medio termine. Il ritardo nella distribuzione della ricchezza, genera uno sfasamento in connessione con la dinamicità della produzione che si rende fondamentale per i mercati esteri al fine dello sviluppo. Questo continuerà nei prossimi decenni. Per tali motivi, si prevede che per la Cina, l’importanza economica dell’America Latina continuerà a crescere.”

A consolidare quanto sopra, un elemento importante da tener presente e che può avere conseguenze negative per i paesi latinoamericani, è che tale collegamento è definito come un rapporto tra una nazione industrializzata e una serie di paesi ricchi di materie prime (7). Tale concetto non fa che riproporre di fatto un modello di relazioni nord-sud o centro-periferia ed è in tale concetto che si trova l’unico “pericolo” del rapporto tra America Latina e Cina. Tuttavia il “pericolo” può essere scongiurato mediante una maturità politica che permette di evadere da una cieca seduzione dal soft power cinese.

 

Conclusione

Il nuovo secolo e le nuove dinamiche internazionali pretendono grandi sforzi per la realizzazione dell’unità regionale. Non è semplice superare la resistenza interna, il peso della storia, le limitazioni finanziarie e anche le difficoltà geografiche e pertanto è necessaria una classe politica capace di proiettarsi ben al di là della gestione economico-politica prettamente nazionale. È necessario che l’unità regionale sia vista a lungo termine come il modo migliore per difendere l’interesse del singolo Stato e per il conseguimento di tale scopo ultimo, alcuni interessi nazionali di breve e medio termine devono lasciare il passo alla progettazione di quell’insieme che oggi nell’immaginario collettivo rappresenta la “Patria Grande” ovvero l’unità regionale capace di dare risalto geopolitico ad ogni singolo Paese che ne faccia parte.

*Maximiliano Barreto, è laureando in Relazioni Internazionali all’Università Nazionale di Rosario (Argentina)

Note
1- Sito ufficiale del IIRSA, disponibile all’indirizzo: http://www.iirsa.org/Page/Detail?menuItemId=67
2- Gestión, “Presidente de Bolivia cuestiona al Perú por ruta de tren bioceánico”, 22 OTTOBRE 2014, disponibile all’indirizzo: http://gestion.pe/economia/presidente-bolivia-cuestiona-al-peru-ruta-tren-bioceanico-2111780
3- Mappa del sito Gestión, “Presidente de Bolivia cuestiona al Perú por ruta de tren bioceánico”, 22 OTTOBRE 2014, disponibile all’indirizzo: http://gestion.pe/economia/presidente-bolivia-cuestiona-al-peru-ruta-tren-bioceanico-2111780
4- La Razón, “Tren bioceánico Perú-Brasil es ‘de interés nacional’ y no pasará por Bolivia, aclara Humala”, 19 NOVEMBRE 2014, disponibile all’indirizzo: http://www.la-razon.com/economia/Tren-bioceanico-Peru-Brasil-Bolivia-Humala_0_2165183566.html
5- La Razón, “Perú para con Bolivia: una de cal y otra de arena”, 30 NOVEMBRE 2014, disponibile all’indirizzo: http://www.la-razon.com/suplementos/animal_politico/Peru-Bolivia-cal-arena_0_2171182878.html
6- Romer Cornejo: Docente di Storia Contemporanea Cina del Centro Studi di Asia e l’Africa al Colegio de Mexico. Abraham Navarro García: partner del progetto di ricerca sulla Cina al Colegio de Mexico. Rivista Nueva Sociedad, “China y América Latina: recursos, mercados y poder global”, luglio-agosto 2010, n° 228, disponibile all’indirizzo: http://nuso.org/upload/articulos/3707_1.pdf
7- Op. Cit. Cornejo e Navarro García, p. 98.

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SUMMIT DEI NOBEL PER LA PACE, IL DALAI LAMA A ROMA: PROTESTE NELLA CAPITALE

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Articolo originale: http://gds.it/2014/12/10/summit-dei-nobel-per-la-pace-il-dalai-lama-arriva-a-roma-via-alle-proteste-nella-capitale_277194/

Centinaia di manifestanti italiani, tibetani e di altre nazionalità marceranno nelle strade della capitale contro il leader religioso per «porre fine alla sua ipocrisia e alla persecuzione religiosa», fanno sapere.

ROMA. Il Dalai Lama sbarca a Roma per il summit dei premi Nobel della Pace, in una città che per tre giorni sarà la capitale della pace, ma dove si annunciano anche proteste contro la guida spirituale tibetana.
La tre giorni romana del Dalai Lama sarà molto intensa. Nonostante indiscrezioni che si sono rincorse durante la giornata, nessun incontro è previsto con papa Francesco. A questo proposito, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi ha spiegato all’ANSA che non è prevista alcuna «udienza del Papa con Nobel. Ci sarà un messaggio del Pontefice a firma Segretario di Stato per l’incontro».
La presenza del leader spirituale tibetano è il motivo per cui la ‘Città eterna’ ospita il summit dei nobel. Il 14esimo vertice dei laureati di Oslo avrebbe dovuto tenersi dal 13 al 15 ottobre a Città del Capo, ma è stato spostato dopo le polemiche innescate dal rifiuto del Sudafrica di concedere il visto al Dalai Lama per non irritare la Cina. Dopo che era caduta nel vuoto una loro lettera-appello al presidente Jacob Zuma, i Nobel per protesta contro la decisione del governo sudafricano avevano deciso di annullare la scelta sudafricana. Come previsto, l’evento sarà dedicato interamente alla memoria e all’eredità di Nelson Mandela e si intitolerà: «Peace. Living It!».
Oltre al Dalai Lama parteciperanno alla cerimonia altri 22 Nobel. Tra questi, Mikhail Gorbaciov, Betty Williams, David Trimble, l’arcivescovo Desmond Tutu, Jody Williams, Jose Ramos-Horta, Leymah Gbowee, Mairhead Maguire e Shrin Ebdai. Interverranno inoltre i rappresentanti di istituzioni, organizzazioni e associazioni internazionali. Il Summit prenderà il via venerdì all’Auditorium Parco della Musica, con il saluto del sindaco Ignazio Marino. I Premi Nobel e gli altri partecipanti si confronteranno sulle nuove sfide della democrazia e lo sviluppo sostenibile, prevenzione delle guerre e violenza sessuale e di genere, ma anche di strategie per una pace duratura.
Il vertice si concluderà domenica in Campidoglio dove, nell’Aula Giulio Cesare, avrà luogo tra l’altro la cerimonia per l’assegnazione del Peace Summit Award 2014, il prestigioso premio che viene consegnato dai Nobel alla personalità del mondo del cinema e dello spettacolo che maggiormente si è contraddistinta nella difesa dei diritti umani nel mondo. Quest’anno il riconoscimento sarà conferito al regista Bernardo Bertolucci.
Tuttavia durante il summit non mancheranno le proteste. Centinaia di manifestanti italiani, tibetani e di altre nazionalità marceranno nelle strade della capitale contro il Dalai Lama per «porre fine alla sua ipocrisia e alla persecuzione religiosa», fanno sapere. Secondo i manifestanti, il Dalai Lama, in contrasto con i principi che animano il Premio Nobel per la Pace, ha forzatamente impedito ai praticanti di pregare la popolare divinità buddhista Dorje Shugden. Ed è inoltre «responsabile di un’aggressiva campagna di persecuzione che colpisce milioni di praticanti in tutto il mondo, che genera sofferenza e violazione dei diritti umani».

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TRA BRUXELLES E MOSCA: IL DILEMMA SERBO E LE ACCUSE DI ŠEŠELJ

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Il ritorno di Vojislav Šešelj a Belgrado lo scorso 12 novembre ha scatenato in pochi giorni un vero ciclone politico, nonostante lostorico leader del Partito Radicale Serbo non rappresenti al momento un serio pericolo per il governo Vučič.

Ad oggi la Serbia, intenta nel rinforzare i già saldi rapporti con il Cremlino ed il proprio status di candidato ufficiale a membro dell’Unione Europea, si trova inserita in una serie di sfide regionali che sembrerebbero quantomeno capaci di influenzare il futuro del Paese.

Rientrato a Belgrado dopo undici anni grazie ad un permesso della corte dei giudici internazionali del Tribunale dell’Aja, a cui si era spontaneamente consegnato per le accuse riguardanti gli eventi dell’autunno 1991 in Croazia e Bosnia, Vojislav Šešelj è apparso da una parte indebolito dalla malattia, ragione per cui ne è stato definito il rilascio, ma dall’altra tutt’altro che rassegnato nel suo orgoglio politico.

L’arrivo all’aeroporto nella capitale serba tra le ovazioni di centinaia di manifestanti ed il discorso tenuto dalla sede del Partito Radicale Serbo, hanno evidenziato che Vojislav Šešelj è pronto alla sua nuova battaglia politica ed alla sua personale vendetta contro l’attuale establishment di governo.

Lo storico leader cetnico non ha trovato al suo rientro un partito in grado di aggravare la posizione del governo nazionale ma, secondo quanto dichiarato nel primo discorso dopo il suo arrivo, il prossimo obiettivo sarà quello di definire una piattaforma politica seria capace di contrastare «i traditori della Serbia».

L’imbarazzante scenario manifestatosi al Tribunale dell’Aja, che dopo undici anni di processo non ha ancora emesso una condanna definitiva, ha reso sicuramente più forte l’immagine di Šešelj.

La stessa scarcerazione, avvenuta senza che lo stesso Šešelj, la Serbia o il governo Vučič lo richiedesse, è stata una decisione conseguenziale all’istanza di ricusazione del giudice Frederik Harhoff, allontanato per la sua presunta parzialità a favore della condanna. Tale decisione, presa motu proprio dalla stessa Corte, appare come il tentativo di evitare scenari di maggiore imbarazzo come nel caso di Slobodan Milošević, morto in carcere con una dinamica ancora poco chiara prima della presunta sentenza di colpevolezza.

Il ritorno dello storico leader nazionalista non sembra però turbare la leadership del Primo Ministro serbo che, aiutato anche dal silenzio di alcuni media nazionali, nell’intervista rilasciata alla storica agenzia di stampa nazionale Tanjug Tačno, non ha argomentato né sull’incapacità del Tribunale dell’Aja di emettere la sentenza né sulla passata guerra nell’ex territorio jugoslavo, argomento molto sentito da una buona parte del suo elettorato.

La preoccupazione che Šešelj possa soffiare su un’atmosfera adatta alla sua politica nazionalista, rinforzata da una personale immagine di eroe ingiustamente colpito dalla giustizia internazionale per il bene della nazione, rimane ancora evidente.

Inoltre, il ritorno di Šešelj coincide con una delle pagine politiche più delicate per Belgrado. Il governo Vučič ha promosso una serie di riforme strutturali all’interno del Paese e ha intrapreso una politica estera molto pragmatica che sta conducendo la Serbia ad agganciarsi alle strutture europee ed occidentali.

Oltre al continuo dialogo con Bruxelles, promosso per la definitiva entrata nell’Unione Europea, vi è anche l’imminente adesione all’Alleanza Atlantica prevista dal programma “NATO’s Partnership for Peace Program” di cui la Serbia è membro attivo.

Sulla scia di questa fase della politica estera dettata da Vučič e dal Presidente serbo Tomislav Nikolić, l’ex leader del Partito Radicale potrebbe giocare la sua personale vendetta.

È noto che i rapporti tra il nazionalismo incarnato da Šešelj e le politiche dell’Alleanza Atlantica non siano mai stati idilliaci fin dal biennio 1998-2000, quando il Partito Radicale ed il Partito Socialista di Milošević tornarono ad allearsi per difendere la sovranità della Repubblica Federale di Jugoslavia sulla provincia del Kosovo e Metohija opponendosi alle aggressioni della stessa NATO.

Dal movimento diŠešelj, oggi di fatto un piccolo partito extraparlamentare poco influente nella politica nazionale, potrebbe però ripartire una seria offensiva a quelle figure istituzionali, in primisNikolić e Vučič, che avevano accompagnato in lacrime all’Aja lo storico leader undici anni fa, giurandogli che sarebbero rimasti fedeli alla linea.

Anche i positivi risultati raggiunti da Vučič in politica interna si intrecciano con le pesanti accuse di Šešelj. Nonostante la Serbia sia divenuta la nuova meta di importanti investitori esteri, grazie anche al taglio dei privilegi ai manager dei consigli d’amministrazione di strategiche aziende e la nomina di nuovi vertici aziendali, la conclusione dell’autostrada Pristina-Ňis è la palese conferma di come Belgrado abbia accettato il piano di armonizzazione dei rapporti Serbia-Kosovo, voluto dall’Unione Europea come conditio sine qua non per l’entrata nella comunità dei Paesi membri.

Proprio la stessa città di Ňis rappresenta il crocevia e la contradditoria politica estera di Belgrado. Nella città vicina alla regione kosovara ed al confine bulgaro, è stata inaugurata una base umanitaria comune tra l’esercito serbo e quello russo in virtù del vigente accordo di cooperazione “Srem 2014” che, dopo la ratifica del 2010, integra sia la ricerca scientifico-militare condotta dal Technical Testing Center di Nikinci sia le esercitazioni congiunte dalle forze armate dei due Paesi, le prime dopo il crollo dell’Urss.

I pericoli derivanti dalla propaganda dell’Islamic State e i bellici scenari siriani, in cui Mosca è una dei pochi chiari sostenitori del Governo del Presidente Assad, conduce Serbia e Russia a tenere alto il livello di attenzione e di difesa militare in alcune province del Kosovo e nel Caucaso, in particolare in Cecenia e Daghestan.

L’impegno preso con l’Unione Europea, giuridicamente inquadrato nei negoziati di adesione, potrebbe condurre Vučič ad una dolorosa decisione; le forti relazioni bilaterali con il Presidente Putin potrebbero essere infatti dissolte a causa dei diktat di Bruxelles.

Il Commissario Europeo Johannes Hahn ha recentemente definito la Serbia un Paese sovrano nelle sue scelte ma, ha chiaramente aggiunto, che Belgrado ha l’obbligo di imporre le sanzioni alla Russia in linea con la politica dell’Unione Europea.

Il quasi novantenne tenente generale dell’Esercito Popolare Jugoslavo, Stevan Mirković, ha dichiarato che le operazioni militari con Mosca potrebbero essere solo l’inizio di un’intensa stagione di cooperazione militare, mentre sia il Ministro della Difesa, Bratislav Gašić, che quello degli Esteri, Ivica Dacic, hanno sottolineato la neutrale posizione militare di Belgrado e l’importanza dei rapporti economico-commerciali con Mosca in quanto partner storico, strategico e tradizionale.

Le decise affermazioni del commissario Hahn sembrano anticipare il terremoto politico scatenato dal gruppo di deputati croati al Parlamento Europeo e presso la stessa assemblea parlamentare di Zagabria.

L’eco delle manifestazioni per il ritorno di Vojislav Šešelj, hanno condotto dapprima il Parlamento croato ad esprimere piena insoddisfazione per il rilascio del leader nazionalistae poi, successivamente, il Parlamento Europeo a varare una risoluzione sebbene di poca importanza in quanto non vincolante.

Accusato di massacri di civili nella città di Vukovar in Croazia e di persecuzioni della minoranza croata nella regione serba di Vojvodina nel 1991, Šešelj è stato oggetto di discussione dell’intero gruppo croato di eurodeputati che, insieme al Ministro della Giustizia Orsat Miljenic, hanno affermato di voler condizionare l’avvicinamento della Serbia a Bruxelles qualora Vučič e gli sponenti del suo governo non prendessero le distanze dalle dichiarazioni del leader cetnico.

Le ultime pesanti accuse del Comitato civico per i Diritti Umani di Zagabria, che sostiene come tra Šešelj ed il Governo serbo vi sia un sostegno reciproco, hanno condottoVučič a condannare le parole del comitato croato e a definire «offensive ed inquietanti» quelle della risoluzione del Parlamento Europeo.

Ringraziando gli eurodeputati bulgari e la loro collega slovena Tanjia Fajon per aver provato a cambiare il testo della risoluzione a Bruxelles, sempreVučič ha affermato che «la politica di Seselj non esiste più in Serbia».

In questo spigoloso scenario politico per la Serbia ed suo il governo nazionale, il ritorno diŠešelj potrebbe anche rappresentare un semplice fuoco di paglia. Quello che appare certo è che, in ottica regionale, le prossime scelte del governo Vučič dovranno definire la posizione del Paese in politica estera: la collaborazione con Mosca o l’“indipendenza” promessa da Bruxelles.

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GLI ACCORDI ECONOMICI FRA LA RUSSIA E LA CINA

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Intervista di Giovanni Caprara al Professor Arduino Paniccia, Direttore della Scuola di Competizione Economica Internazionale di Venezia e Professore di Studi Strategici.

Professor Paniccia, la Russia ha accettato lo yuan come valuta per la fornitura di petrolio alla Cina e la Banca Centrale russa e quella Popolare cinese hanno convenuto sulla realizzazione di swap delle rispettive valute nazionali. Quali saranno, a medio e lungo termine, le incidenze sul mercato globale, sull’Euro e soprattutto sull’economia italiana?

Cina e Russia sono da tempo incamminate verso un’alleanza economica e politica che, nonostante molti commentatori occidentali definiscano “tattica”, è in realtà un progetto a lungo termine che potrebbe avere conseguenze incognite nell’assetto mondiale negli anni a venire. Mackinder, uno dei padri della geopolitica, parlerebbe subito di una nuova reincarnazione dello “heartland” da lui teorizzato, contrapposto alle potenze marittime. D’altra parte, è molto improbabile che la Russia nell’Est Europa e nel Caucaso e la Cina nel Pacifico possano permettersi una politica estera (e militare) così attiva senza essere sicuri di avere le spalle coperte, cioè senza avere la certezza della totale improbabilità di situazioni conflittuali.
In termini di economia globale, è palese la carica destabilizzante del connubio tra due stati dall’estensione territoriale enorme di cui uno con immense risorse minerarie ed energetiche, e l’altro “la fabbrica del mondo”, ed entrambe potenze militari e nucleari. Senza contare, cosa tutt’altro che secondaria, che la Cina detiene attualmente il 95% della produzione mondiale di terre rare, essenziali nella produzione della componentistica elettronica, cioè dell’industria più “strategica”.
L’euro è minato soprattutto dalle proprie contraddizioni interne – che riflettono quelle altrettanto gravi dell’Unione Europea – più che dall’alleanza economica e finanziaria tra Russia e Cina. Esiste da parte di questi due paesi un’evidente convergenza nel coordinamento delle rispettive valute, ma la mia opinione è che, al di fuori dell’Europa, l’euro sia visto ormai soprattutto come un esempio da non seguire. Diverso il discorso per gli Stati Uniti, che si troverebbero decisamente spiazzati da un simile colosso del tutto autonomo dalla politica monetaria americana. Una forte alleanza strategica tra i paesi occidentali sarebbe a questo punto inevitabile. Però per esempio il TTIP si trova adesso a languire a causa di contenziosi legati ad interessi particolaristici nei vari settori economici.
Infine l’economia italiana è attualmente in declino, non solo per l’acritica adesione ad una moneta unica fatta senza affatto preoccuparsi di avere sufficienti garanzie – cedendo l’istituto di emissione e tenendosi il debito – ma anche, se non soprattutto, per la storica mancanza di una strategia economica e geopolitica ad ampio respiro che desse al nostro paese un suo preciso e internazionalmente riconosciuto ruolo nell’economia e nella politica mondiali. Il rischio che si inneschino per il nostro paese dinamiche economiche simili a quelle che portarono all’asfissia il nostro Mezzogiorno nella seconda metà del XIX secolo è reale. Dinamiche che, se non venissero subito vigorosamente corrette, rischierebbero purtroppo di diventare irreversibili.

Un regime valutario meno dollaro-centrico nei mercati energetici internazionali, corrisponderebbe all’assunzione della Cina ad attore principale sullo scenario energetico globale. Il commercio estero cinese è già regolato in renminbi, e l’emissione di strumenti finanziari con questa valuta è già in ascesa con la risultanza di una maggiore flessibilità dei tassi di cambio dello yuan. Questa trasformazione economica, potrebbe circoscrivere il predominio del dollaro, con la risultanza di incidere negativamente sulla posizione strategica degli USA?

Gli Stati Uniti hanno sempre tratto enorme vantaggio dal fatto che quella che sostanzialmente è diventata con Bretton Woods la moneta mondiale, è sempre stata gestita ad esclusiva discrezione della Federal Reserve. La ben nota denuncia unilaterale della convertibilità del dollaro in oro da parte di Nixon nel 1971 lo sta a dimostrare. Da allora la credibilità della moneta di un paese è stata misurata non solo in termini della sua credibilità economica, ma anche della sua credibilità politica e perché no di potenza e militare. Il tentativo di limitare lo strapotere del dollaro nel commercio mondiale grazie all’euro proprio per questo motivo nacque già morto, poiché dietro l’euro non solo non esiste una vera entità politica, ma addirittura nemmeno una vera e propria banca centrale. La moneta cinese ha dietro di sé la prima potenza economica mondiale, con uno stato forte e uno strumento militare possente anche dal punto di vista nucleare. Certamente un blocco valutario sino-sovietico inciderebbe nel medio termine negativamente, e di molto, sulla posizione strategica degli Stati Uniti. I quali peraltro, puntando decisamente sullo shale-oil, hanno se non altro risolto le questioni strategiche legate alla dipendenza energetica e al loro stretto legame con i paesi arabi del Medio Oriente.

La finalità della Cina è quello di ottenere il consenso dei principali produttori di energia nell’accettare il renminbi come valuta transazionale. L’accordo trainante a tale strategia è con la Russia, che vale 400 miliardi di dollari, e questo attesta il renminbi ad un ruolo fondamentalmente apprezzabile, ma sarà sufficiente a convincere gli altri produttori?

Non credo arriverà a convincere tutti gli altri produttori. Molti di questi troveranno conveniente puntare sulla fame di petrolio dei paesi occidentali, non tanto degli Stati Uniti, quanto piuttosto per esempio di Europa e Giappone, e perciò rimanere nell’area del dollaro. Penso all’Arabia Saudita, al Kuwait, alla Nigeria, eccetera. Però per esempio l’Iran è molto probabile che troverà un accordo con il blocco sino-sovietico. Le dinamiche conflittuali del Medio Oriente si ripercuoteranno su questa eventuale scelta di campo.

Eric Delbecque e Christian Harbulot, sottolineano il rischio del patriottismo economico, inteso come una ideologia protezionista ed isolazionista. Due aggettivi che sembrano riassumere le dinamiche economiche e la politica cinese. Se, però, tale condizione dovesse subire un cambiamento, il patriottismo economico potrebbe ingenerare un effetto contrario alle aspettative dei decision makers cinesi?

Una delle contraddizioni storiche della globalizzazione è che, contrariamente al mondo interconnesso dal libero scambio vagheggiato negli anni Novanta del XX secolo, ha portato ad un mercantilismo esasperato, ove il ruolo degli stati nel supportare le rispettive economie nazionali è diventato determinante. La globalizzazione, cioè, si è rivelata un processo storico contraddittorio e sostanzialmente incompiuto. Robert Kagan, nel suo Il ritorno della storia e la fine dei sogni, già sette anni fa aveva predetto che lo stato nazionale era tutt’altro che defunto e che si sarebbe andati verso uno scontro tra un Occidente liberaldemocratico e un Oriente autoritario ed autocratico, lungo delle “linee di faglia” che corrono lungo l’Est Europa, il Caucaso, il Golfo, l’AfPak, i due Mari Cinesi. La crisi dell’Unione Europea non è data solo dalla deriva burocratica, ma soprattutto dal fatto che il progetto europeo si è basato su presupposti, sia di teoria economica che soprattutto di interpretazione dell’evoluzione delle relazioni internazionali, che, come dice giustamente Kagan, si sono alla fine rivelati errati. E che si possono sintetizzare appunto nella convinzione che, in un mondo che sarebbe storicamente andato verso il superamento degli stati nazionali, bastasse creare un soggetto economico forte per avere un soggetto politico forte.
Christian Harbulot è il direttore dell’École de Guerre Économique di Parigi – e sottolineo il termine “Guerre” – che da anni auspica caldamente una decisa azione del governo francese in tema di intelligence economica e protezionismo industriale nei settori “strategici”, per sostenere e favorire l’economia nazionale transalpina, all’interno proprio di una tradizione di “patriottismo economico” che si può far risalire addirittura a Colbert. E notiamo bene: nei lavori della ÉGÉ si parla sempre di Francia, non di Europa.
Un liberoscambismo puro d’altra parte non è mai esistito: in ogni epoca, il forte è tradizionalmente liberoscambista, il debole protezionista. Esiste comunque il pericolo reale che la posizione cinese provochi il coagularsi di due blocchi economici, uno occidentale e uno asiatico, che porterebbe ad una situazione potenzialmente conflittuale: le “sfere di coprosperità” non hanno mai portato bene. Prima o poi la Cina dovrà o aprirsi ai mercati esteri, o puntare sul mercato interno: il sistema economico mondiale è per forza di cose chiuso, per cui dove esiste un esportatore deve esistere anche un importatore. D’altra parte, un mercato interno di più di un miliardo di persone è una garanzia abbastanza sufficiente di sviluppo. Bisogna tener presente tuttavia che la politica economica di Pechino non è dettata solamente da propositi di arricchimento, ma anche di potenza e prestigio nazionali. Incidentalmente, sarà interessante vedere quale posizione prenderà l’India, altro grande colosso che però non ha mai avuto molto amore per le alleanze troppo strette.

In un mondo sempre più complesso, la guerra tradizionale è stata soppiantata dal commercio, dalla infowar e dalla cyberwar. Pertanto il benessere economico di uno Stato è diventato strategico, e come tale deve essere difeso. Eric Denècè è un assertore dell’informazione come strumento di sviluppo economico e di supporto all’attività politica di governo. In questo scenario l’intelligence economica, pertanto, risulta essere una risorsa necessaria per l’implementazione delle dinamiche economiche statali. Negli accordi finanziari fra Russia e Cina, quanto vale questa teoria?

Moltissimo. E non solo guerre commerciali, ma anche monetarie e finanziarie giocate sul grande panorama della speculazione finanziaria internazionale. Non sappiamo chi ci sia effettivamente dietro quelle entità che la stampa chiama anonimamente “i mercati”. E poi, sia la Russia che la Cina, anche se spesso indirettamente, per esempio grazie alla criminalità organizzata, sono attivissime nello spionaggio informatico e in quella che in senso lato può chiamarsi “cyberwar”. E anche nella “infowar”, basti pensare alle clamorose fughe di notizie riservate accadute negli anni scorsi. Ma anche nei paesi occidentali, da decenni la manipolazione mediatica è diventata un’arma nelle mani dei vari “competitors” aziendali. La scuola francese di guerra economica distingue tra un patriottismo economico “difensivo” ed uno “offensivo”, anche se penso che il confine tra i due sia piuttosto labile. È ovvio che, se il panorama economico internazionale manifesta sempre più caratteristiche diciamo hobbesiane, l’unica via è il “para bellum”, cioè il patriottismo economico difensivo.

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